Il libro, sia in forma manoscritta
sia in quella a stampa, gode di un’assidua presenza nel cabinetto alchemico :
lo si capisce da quello che scrivono gli alchimisti stessi nelle loro opere, ma
lo si può anche vedere in molti dei ritratti che li riprendono mentre attendono
al compimento dell’Opera. E lo si potrebbe anche constatare visitando
l’ambiente in cui, oggi come ieri, opera chi si dedica a questa pratica
plurimillenaria... e, anzi, scoprirebbe che i libri hanno preso il sopravvento
sul pur già ben ricco strumentario alchemico : in un periodo in cui la
carta stampata non è più il bene prezioso che era alcuni secoli fa,
l’accumulo di libri (ma ormai non solo più di questi) è un comodo schermo
per le proprie deficienze e un facile sostegno all’illusione che, chissà ?,
in una di quelle molte pagine si possa trovare il suggerimento di cui “si ha
bisogno”.
Presenza
assidua del libro nel cabinetto alchemico, dunque, ma anche il contrario :
presenza di ambientazioni e tematiche alchemiche nella letteratura. Da sempre e
ovunque, si sarebbe tentati di dire. Per restare nell’ambito della presente
era delle cultura occidentale, si pensi, per esempio, all’erudito, mistico e
platonizzante in fama di mago Apuleio di Madaura, autore dell’Asino
d’oro, in cui si narra la nota vicenda di Lucio che, trasformato in asino,
dopo tutta una serie di vicende riesce a ridiventare uomo dopo essersi cibato di
rose, oppure, passando dall’Africa del II secolo al medioevo inglese, si pensi
a Chaucer il quale, dopo aver fatto esprimere al valletto del canonico le
consuete critiche nei confronti dell’alchimia, dimostra poi di avere
conoscenze di procedimenti e di autori un po’
troppo precise per qualcuno che si sarebbe sempre tenuto alla larga da questa
tanto pericolosa pratica :
With this chanoun I dwelt have seven yeer,
And of this science am I never the neer.
All that I hadde, I have y-lost thery-by ;
And god wot, so hath mani mo than I.
There I was wont to be right fresh and gay
Of clothing and of other good array,
Now mai I were an hose upon my heed ;
And wher my colour was bothe fresh and reed,
Now is it wan and of a leden hewe ;
Who-so it useth, sore shal he rewe.
And of my swink yet blered is myn
yë,
Lo! which advantage is to multiplye !
[The
Chanouns Yemannes Tale 720-731]
There is also ful many another thing,
That is unto our craft apertening ;
Though I by ordre hem nat reherce can,
By-cause that I am a lewed man,
Yet wol I tell hem as they come to minde,
Though I ne can nat sette hem in hir kinde ;
As bole armoniak, verdegrees, boras,
And sondry vessels maad of erthe and glas,
Our urinales and our descensories,
Violes, croslets, and sublimatories,
Cucurbites and alembykes eek,
And othere swiche, aere y-nough a leek.
[ibid.
784-795]
E
ancora, per passare alla letteratura francese del Novecento, si pensi a L’oeuvre
au Noir di Marguerite Yourcenar :
SOLVE ET COAGULA... il savait ce que signifiait
cette rupture des idées, cette
faille au sein des choses. Jeune clerc, il avait lu dans Nicolas Flamel la
description de l’opus nigrum, de cet essai de dissolution et de
calcination des formes qui est la part la plus difficile du Grand Œuvre. Don
Blas de Vela lui avait souvent solennellement affirmé que l’opération aurait
lieu d’elle-même, qu’on le voulût ou non, quand les conditions s’en
trouveraient remplies. Le clerc avait avidement médité ces adages qui lui
semblaient tirés d’on ne sait quel sinistre et peut-être véridique
grimoire. Cette séparation alchimique, si dangereuse que les philosphes hermétiques
n’en parlaient qu’à mots couverts, si ardue que de longues vies d’étaient
usées en vain à l’accomplir, il l’avait confondue jadis avec une rébellion
facile. Puis, rejetant ce fatras de rêvasseries aussi antiques que l’illusion
humaine, ne retenant de ses maîtres alchimistes que quelques recettes
pragmatiques, il avait choisi de dissoudre et de couguler la matière dans le
sens d’une expérimentation faite avec le corps des choses. Maintenant, les
deux branches de la parabole se rejoignaient ; la mors philosophica,
s’était accomplie : l’opérateur brûlé par les acides de la
recherche était à la fois sujet et objet, alambic fragile et, au fond du réceptacle,
précipité noir. L’expérience qu’on avait cru pouvoir confiner à l’officine s’était
étendue à tout. S’en suivait-il que les phases suivantes de l’aventure
alchimique fussent autre chose que des songes, et qu’un jour il connaîtrait
aussi la pureté ascètique de l’ Œuvre au Blanc, puis le trimphe conjugué
de l’esprit et des sens qui caractérise l’ Œuvre au Rouge ? Du fond
de la lézarde naissait une Chimère. Il disait Oui par audace, comme autrefois
par audace il avait dit Non. Il s’arrêtait soudain, tirant de toutes ses
forces sur ses propres rênes. La première phase de l’Œuvre avait demandé
toute sa vie. Le temps et les forces manquaient pour aller plus loin, à
supposer qu’il y eût une route, et que par cette route un homme pût passer.
Ou ce pourissement des idées, cette mort des instincts, ce broiement des formes
preques insupportables à la nature humaine seraient rapidement suivis par la
mort véritable, et il serait curieux de voir par quelle voie, ou l’ésprit
revenu des domaines du vertige reprendrait ses routines habituelles, muni
seulement de facultés plus libres et comme nettoyées. Il serait beau d’en
voir les effets. [Deuxième
partie : La vie immobile. “L’abîme”]
Oltre
a questi, molti altri sono stati gli autori che, in un modo o nell’altro, sono
stati influenzati dall’esperienza alchemica e, implicitamente o
esplicitamente, le hanno ritagliato un po’ di spazio all’interno delle loro
opere. Ne parla Jean de Meung nella seconda parte del Roman
de la Rose (“Remontrances de la Nature à l’alchimiste errant”),
facendo esprimere alla Natura un topos della letteratura alchemica :
Come
la Natura si lamenta
E
dice il suo dolore e la sua protesta
A
uno sciocco soffiatore sofistico
Che
non usa altro che l’arte meccanica.
annunciando
il carattere principale dell’opus
alchemicum :
Chi
ne farà uso saggiamente farà meraviglie perché, qualunque cosa sia delle
specie, i corpi particolari, sottoposti a preparazioni intelligenti, sono
mutevoli in tanti modi che possono scambiarsi di natura in diverse elaborazioni ;
e questo cambiamento li fa rientrare in altre categorie.
Gli alchimisti sono condannati a scontare la loro pena nella decima fossa
(quella dei falsari) dell’ottavo girone (quello degli ingannatori) dell’Inferno
(XXIX.117-20 e 136-39) di Dante :
Ma nell’ultima bolgia delle diece
me per l’alchimia, che nel mondo usai,
dannò Minos, a cui fallar non lece.
[...]
Sì vedrai ch’io son l’ombra di
Capocchio,
che falsai li metalli con alchimia,
e ti déi ricordar, se ben
t’addocchio,
com’io fui di natura buona scimia.
mentre
Petrarca elenca, non senza cinismo, le conseguenze che patirà l’alchimista
nel corso della sua vita terrena :
ars
nempè quam memoras, nullam esse nisi mentiendi artem dicimus ac afllandi, Age
autem, quando ita fert animus & incumbe, praedico autem tibi, quod te lucrum
exrte maneat, domus tua miris hospitibus ac miris arit impedimentibus plena.
Erunt tibi esores & potores, idqùe haud immeritò, quos ignis axiccat &
cupiditas. Erunt sufflatores, deceptores, derisores, omnis angulus habebit
pelues & lebetes & phialas oleuntium aquarum, herbas praeterea
peregrinas, & externos sales, & sulphur, & distillatoria, &
caminos. Deqùe his omnibus tibi in finem curas inutiles, & stultitiam
cordis, oris obscoenitatem & squalorem, & caliginem oculorum ac
sollicitam conflaueris paupertatem. Quodqùe his omnibus penè <penius>
dixerim, circulatoris nomen & nocturnis in tenebris, atque infames inter
latebras furum uitam. [De remediis utriusque fortunae I.cxi]
Gli
stessi argomenti, con un po’ di ironia, sono ripresi da Ben Johnson in The
Alchemist :
T
he
sickness hot, a master quit for fear,
H is house
in town, and left one servant there
E
ase
him corrupted, and gave means to know
A Cheater,
and his punk ; who, now brought low,
L eaving
their narrow practice, were become
C ozeners
at large, and only wanting some
H ouse to
set up ; with him they here contract,
E ach for a
share, and all begin to act.
M uch
company they draw, and much abuse,
I n casting
figures, telling fortune, news,
S elling of
flies, flat bawdry, with the stone,
T ill, it,
and they, and all, in fume are gone.
Ironico,
ma più duro, è anche l’attacco di Sebastien Brant in Das Narrenshiff [“La nave dei folli”] :
Der guekuß
manchen trbt von huß
Der vor
gar sanfft
Vnd
truecken saß
Der stoß
sin güt jns affenglaß
Biß ers
zu puluer so verbrent
Daß er
sich selber nit me kennt
Vil haut
also verberbet sich
Gar wenig
sint syn worden rich
Dann
Aristoteles de gycht
Die
gstalt der ding wandeln sich nicht
Con tutt’altro tono l’alchimia
entra nelle pagine di Rabelais e, soprattutto, di Berni nel XVI canto del suo Orlando Innamorato :
Fra gli elementi, la disgrazia vuole
che della terra noi più parte abbiamo ;
e siccome è quella al cielo e al sole,
così noi anche sottoposti siamo :
in essa or quel pianeta or questo suole
produr quel che miniera noi chiamiamo ;
e questa cosa è in noi per eccellenza
in numero, in grandezza, in differenza.
Chi crederà ch’ognun le sue miniere
abbia de l’oro e degli altri metalli
fin al salnitro ? e pur son cose
vere :
ma la fatica è a saper trovalli.
Chi si diletta d’ozio, e chi d’avere ;
di lettere l’uno, un altro di cavalli.
Piace a questo cantare, a quello il
suono,
e queste le miniere nostre sono.
Le quai secondo che son più o meno
degne, hanno più del piombo o più
dell’oro.
Un che sappia conoscere il terreno,
è uno atto a scoprir questo tesoro.
Come in Puglia si fa contra al veleno
di quelle bestie che mordon coloro
che fanno poi pazzie da spiritati
e chiamansi in vulgar tarantolati ;
e bisogna trovar un che, sonando
un pezzo, trovi un suon ch’al morso
piaccia,
sul qual ballando, e nel ballar sudando,
colui da sé la fiera peste caccia.
Chi questo o quello andasse stuzzicando
con qualche cosa che gli satisfaccia,
la vena e la miniera troverebbe,
e gli studi d’ognun conoscerebbe.
In
questa panoramica a volo d’uccello non stupirà, considerando il suo interesse
per l’esoterismo, la presenza di Goethe :
Persino il Sole è di oro perfetto.
Mercurio, il messo, lo serve, pagato e
protetto.
Madama Venere vi ha ingannati tutti
quanti,
mattina e sera vi guarda con occhi
invitanti,
la casta Luna ha lune e grilli per la
testa,
Marte, se non vi coglie, vi minaccia.
Il più bel lume sempre a Giove resta.
Grande è Saturno, minuscolo
all’occhio.
Come metallo, per noi conta poco,
grave di peso e scarso di valore.
Se con grazia Luna e Sole si congiungono
e oro con argento, il mondo rasserena.
E
ancora a Goethe dobbiamo Il grande mago egizio, ispirato alle vicende di quel conturbante
personaggio - un po’ mago, un po’ alchimista, un po’ istrione - che fu
Giuseppe Balsamo o, se si preferisce, il conte Alessandro Cagliostro. Sempre
alle vicende di questo personaggio si rifà Schiller nel suo Visionario. L’ispirazione a temi e/o ambientazioni di carattere
ermetico si possono individuare, per citare solo i più famosi, in Marlowe (Dottor
Faustus), Shakespeare (La tempesta)
e ancora in Balzac, Poe, Meyrink, Yeats (autore di tre novelle di carattere
precipuamente alchemico, una delle quali esplicitamente intitolata “La Rosa
alchemica”) e, in modo più indiretto, in Huysmans che, nel sesto capitolo di Là-bas, mostra il satanista nell’atto di prendere da
uno degli scaffali della biblioteca un manoscritto, che non era nientedimeno che
l’Esh Mezareph, il libro dell’ebreo Abraham e di Nikolas Flamel,
ricostruito, tradotto e commentato da Eliphas Levi... peccato che il
decadente romanziere, amante di quelle atmosfere torbide e oscure di cui spesso
si compiaceva e si compiace un certo esoterismo, non sia stato che uno dei tanti
a farsi ingannare da uno degli pseudoepigrafi della famosa opera della
tradizione alchemica ebraica.
Non d’ambiente, invece, ma frutto di una sofferta esperienza si
potrebbe dire di “alchimia spirituale”, sono alcune delle ultime poesie di
Rainer Maria Rilke, delle quale piace citare il sonetto :
Ama
la mutazione. Entusiasmati per la fiamma
in cui si sottrae una cosa che anela a
trasformarsi ;
lo spirito foggiatore che governa la
terra nulla ama,
nel moto delle figura, quanto il punto
di svolta.
Chi si rinserra nel suo stato è già
pietrificato ;
forse si sente al sicuro riparato dal
grigiore e dall’opacità ?
Attendi - qualcosa di durissimo
ammonisce da lontano ciò che è già duro.
Ahimé - un martello invisibile sta per
alzarsi.
Chi continuo scorre come sorgente
appartiene alla Conoscenza
che lo guida estasiato attraverso
l’opera gioiosa
per la quale spesso l’inizio è fine e
fine l’inizio.
Ogni felice spazio che percorriamo
attoniti è figlio
e nipote della separazione. E Dafne
trasmutata,
sentendosi alloro, brama che tu in vento
ti muti.
Si è parlato fin qui di letterati
che, con conoscenze più o meno profonde e con esperienze più o meno dirette,
hanno fatto riferimento all’alchimia vuoi per i suoi connotati di
ambiente, vuoi per difendere, esaltare o condannare certi suoi aspetti tanto
teorici quanto pratici. Ma il panorama in cui l’alchimia occupa un posto
significativo ha un orizzonte ben più ampio. Con una inevitabile
generalizzazione si possono distinguere altre due tipologie di scrittori :
da un lato gli alchimisti che affidarono i loro insegnamenti (o quanto meno una
parte), con ambizioni, o semplici pretese, artistiche, a una forma letteraria, e
dall’altro lato i poeti che piegarono alcune delle loro opere alle
trasmutazioni imposte da una vera e propria “alchimia della parola”. I
risultati, come è facile immaginarsi, sono diversissimi. Nel primo caso ci si
trova il più delle volte di fronte a opere affatto mediocri. Con l’eccezione,
seppur sotto la formula del dubbio, della Chrysopoeia
di Giovanni Aurelio Augurelli, i risultati sono mediocri o pessimi componimenti
poetici che fungono da presentazione e/o da sintesi a molti testi alchemici
rinascimentali o, addirittura, le non meno mediocri composizioni che in tutto o
in buona parte rivelano l’insegnamento alchemico dell’autore : si pensi
nel primo caso al manierismo baroccheggiante dell’ode alchemica Lux
obnubilata di Fra’ Marcantonio Crasselame Chinese e, nel secondo caso, ai
modesti epigrammi che unitamente alle fughe, agli emblemi e ai motti,
costituiscono il corpo della, per altri aspetti rilevante, Atalanta
fugiens di Michael Maier. A titolo esemplificativo si vedano la conclusione
dell’Ode alchemica di Crasselame
Tanti misti a che prò ? l’alta
scienza
solo in una radice
tutto restringe il magisterio nostro :
questa, che già qual sia, chiaro v’ho
mostro
forse più che non lice.
Due sostanze contiene, ch’hanno una
essenza,
sostanze, che in potenza
sono argent’e sono oro ; e in
atto poi
vengono, se i lor pesi uguagliam noi.
Sì che in atto si fanno argento e oro ;
anzi, uguagliati in peso,
la volante si fissa in solfo aurato.
Oh ! solfo luminoso, oro animato,
in te del sole acceso
l’operosa virtù ristretta adoro.
Solfo tutto tesoro,
fondamento dell’arte in cui natura
decoce l’or & in elissir matura.
e
dell’Atalanta fugiens di Maier :
epigramma
l.
Alta venenoso fodiatur tumba Draconi,
Cui mulier nexu sit bene vincta suo :
Ille
maritalis dum carpit gaudia lecti,
Haec
moritur, cum qua sit Draco tectus humo.
Illius
hinc corpus morti datur, atque cruore
Tingitur :
Haec operis semita vera tui est.
...ma
gli esempi potrebbero essere moltiplicati a volontà.
Del tutto diverso è l’ambito di quei letterati che, operando una sorta
di “alchimia verbale” - per usare l’espressione che dà il titolo a uno
scritto di Arthur Rimbaud -, si prefiggono di ottenere una trasmutazione del
materiale con cui lavorano, le lettere, le parole, le loro combinazioni,
facilitando così l’evocazione di sensi nascosti, spesso lontanissimi da
quelli apparentemente espressi. In tale modo di operare questi letterati si
avvicinano, spesso inconsapevolmente, alle tecniche tipiche della cabala
ebraica, dimostrando, se mai ve ne fosse bisogno, quanto profonde siano le
affinità tra la pratica alchemica e quella cabalistica. E, per usare una tipica
espressione cabalistica, si potrebbe dire che l’intento di chi pratica l’
“alchimia della parola” è quello di stimolare l’appercezione di “ciò
che è scritto negli spazi bianchi della pagina”. Il rischio di cadere
nell’esercizio funambolico, nell’artificio vuoto e nel contempo pesante, è
elevato e, infatti, la letteratura europea ne offre un’ampia testimonianza.
Contrapposti ai funamboli e contorsionisti della parola si può però ricordare
il già citato Rimbaud, James Joyce (in particolare per il suo Finnegan’s
Wake, ma anche per l’Ulisse), in
una certa misura e probabilmente al di là dei loro specifici programmi Ezra
Pound, Allen Ginsberg, alcuni dei, ormai non più nuovi, “Novissimi” (tra
questi Edoardo Sanguineti) e alcuni esponenti della cosiddetta “poesia
visiva".
Al
di là dei nomi, però, al di là
della qualità del risultato e al di là del fatto che qualcuno pensasse di fare
arte mentre esponeva i suoi insegnamenti alchemici o che facesse, in un certo
qual modo, alchimia mentre manifestava la propria creatività artistica, al di là
di tutto questo e al di là del fatto che non pochi letterati siano stati
attratti da tematiche e ambientazioni alchemiche, resta un interrogativo
generale : per quale motivo tra letteratura e alchimia è esistita una così
sentita affinità, per quale motivo, a prescindere da tendenze e mode, è mai
esistita una simile reciproca attrazione tra chi operava con quanto c’è di più
concreto, quali possono essere i metalli, e quanto di più evanescente, come
sono le parole. Per rispondere a questa domanda può essere di ausilio porsene
un’altra : per quale motivo in altre civiltà, e segnatamente in Oriente,
questo fenomeno quando si è prodotto ha avuto un andamento sporadico e, in ogni
caso, limitato nel tempo. E’
vero, la Cina ha prodotto il Segreto
del fiore d’oro nonché racconti in cui traspaiono le tematiche proprie
all’“alchimia sessuale”, accomunandosi per quest’ultimo aspetto
all’India. E’ altrettanto vero che la tradizione giapponese ci ha trasmesso
quei deliziosi, e brevissimi, componimenti poetici - conosciuti sotto il nome di
Haiku - nei quali la voluta
scontatezza o vaghezza di senso porta ogni singola parola e il componimento nel
suo insieme alla soglia del punto di rottura semantica : sta, come sempre,
a chi ne fruisce compiere l’ultimo passo e completare, nel proprio interno, la
trasmutazione già avviata. Tutto questo è
vero, ma è altrettanto vero, certo operando le consuete
generalizzazioni, che in Oriente non è esistito per così lungo tempo e con una
simile profondità il tenace e reciproco interesse che, in Occidente è esistito
ed esiste tra alchimia e letteratura. Si ritorna, allora, alla domanda
fondamentale : perché questo ? La risposta è semplice, sebbene non
piacevole per l’occidentale : mentre l’Oriente ha sempre considerato
l’immaginazione (meglio definita “Immaginazione attiva”, seguendo
l’insegnamento di Henry Corbin) come una delle fonti del conoscere, in
Occidente ha prevalso la tendenza a considerare tali solo le altre due fonti, le
percezioni sensibili e le categorie
e i processi dell’intelletto. Lo spazio, non esiguo, che è collocato tra
senso e intelletto è diventato, in Occidente, dominio del poeta. Più corretto
sarebbe dire anche del poeta perché in questo stesso spazio si aggirerà
l’alchimista : dapprima confuso e abbattuto, durante l’Opera al Nero,
poi purificato, se sarà riuscito a superare le prove che egli stesso avrà
individuato e si sarà imposto, nell’Opera al Bianco, fino all’eventuale
trionfo che caratterizza l’Opera al Rosso, quello stadio in cui si verifica la
Conjunctio Oppositorum, l’unione del maschile e del femminile e
dunque quell’unione di intelletto
e senso che solo grazie all’operare dell’immaginazione,
dell’“Immaginazione attiva”, sarà
stata resa possibile. Non diversamente dall’alchimista che riesce
a portare a termine la Grande Opera, e dunque a produrre la Conjunctio
Oppositorum, anche il vero poeta può giungere a un analogo risultato. Ciò
propone anche una spiegazione a quell’aura di singolarità, di
stranezza/estraneità/estraniamento, di eccentricità che tradizionalmente
accompagna il poeta, ma soprattutto, sempre tenendo bene a mente la congiunzione
che deve operarsi tra maschile e femminile, ciò rende maggiormente
comprensibile la tesi, accuratamente passata sotto silenzio dalla cultura
ufficiale, di Robert Graves :
La
mia tesi è che il linguaggio del mito poetico anticamente usato nel
Mediterraneo e nell’Europa settentrionale fosse una lingua magica in stretta
relazione con cerimonie religiose in onore della dea-Luna
[sott. agg., nda] ovvero della Musa, alcune delle quali risalenti all’età paleolitica ;
e che esso resta a tutt’oggi la lingua della vera poesia - “vera” nel
senso nostalgico moderno di “originale non suscettibile di miglioramento, e
non surrogato”. Questa lingua fu manomessa verso la fine dll’epoca minoica,
allorché invasori provenienti dall’Asia centrale cominciarono a sostituire
alle istituzioni matrilineari quelle patrilineari, rimodellando o falsificando i
miti per giustificare i cambiamenti della società. [Graves 1992: 14 ;
ed. or. 1948 e 1961]
L’alchimista,
allora, e il poeta per giungere o almeno avvicinarsi a un risultato la cui
natura si chiarisce col progredire del loro cammino, devono passare attraverso
il mondo dell’Immaginazione, della Fantasia ed è per questo motivo che quando
devono “parlare della” loro esperienza - e dunque usare gli strumenti
dell’intelletto - se riescono a superare un’iniziale afasia altro non
possono fare che parlarne figuratamente e, come si è visto, magari ricorrere
l’uno a tecniche poetiche e l’altro a tematiche alchemiche :
l’intuito suggerisce loro, il più delle volte senza emergere in una piena
consapevolezza, che c’è qualcosa che li accomuna. Alchimista e poeta, però,
non sono soli... accanto a loro c’è una terza figura : quella del
profeta. Questi in Occidente è effettivamente stato messo in relazione con il
poeta - si pensi al mondo celtico a quello della Grecia classica - ma mai con
l’alchimista, cosa che invece è avvenuta in Oriente : l’alchimia
è la sorella della profezia ha detto il primo Imâm
degli sciiti, alludendo appunto al fatto che in entrambi i casi la condizione
necessaria è che si possegga la capacità di accedere al mundus imaginalis. E’ facile capire allora quanto si debba
ridimensionare la differenza tra alchimista e profeta : quest’ultimo
visita il mundus imaginalis non tanto
per carpire un’impossibile previsione del futuro quanto per vedere
nell’invisibile... e lo stesso farà l’alchimista il quale però, nella
consapevolezza dei rischi legate a certe conoscenze, diversamente dal profeta
non si sentirà tenuto a comunicarne agli altri l’esperienza ma cercherà di
trarne frutto per la propria trasformazione, rimandando eventualmente solo a un
momento successivo la divulgazione di qualche insegnamento... sotto la duplice
chiave dei limiti che il linguaggio impone e di quelli che egli stesso imporrà
per evitare l’accesso a persone impreparate e/o indegne. Il viaggio che
l’alchimista, il poeta e il profeta compiono nel mundus
imaginalis avviene, il più delle volte, nell’inconsapevolezza di che cosa
realmente avvenga, e ciò spiega la diffusa difficoltà di esprimersi su questo
tipo di esperienza. Quando però una certa consapevolezza venga raggiunta, come
nel caso di Paracelso, un’esigenza subito si manifesta : la necessità di
distinguere nettamente tra immaginazione (o se si preferisce Immaginazione
attiva o Fantasia) e fantasticheria. Paracelso oppone l’Imaginatio vera (...un’attività
immaginativa, formativa e creativa della mente umana. In Paracelso è il corpo
astrale, o la facoltà creativa dell’uomo astrale [C.G. Jung Studi
sull’alchimia p. 205, nota 24]) alla Phantasey
(...invenzione soggettiva, ludica, priva di validità oggettiva [ibid.,
nota 23]), sebbene talvolta, come è tipico da parte sua, inverta le
designazioni (per una disamina più recente si veda : Elemire Zolla Storia
del fantasticare). Bisogna anche riconoscere che non sempre è facile
compiere una netta distinzione ed è probabilmente per questo motivo
che le vite di tanti poeti e di tanti alchimisti furono segnate dalle più
dure avversità. Non diversamente, certo, dai “profeti” i quali se anziché
accedere al mondo dell’Immaginazione attiva si limitano, magari
inconsapevolmente, a bighellonare per quello della fantasticheria, possono
essere capaci di provocare, per se stessi e/o per gli altri, i danni più gravi.
Jung è stato chiaro ed esplicito a questo riguardo :
Certamente, non si pretende da noi
di credere in una specie di doppia vita, qui restando modesti e mediocri
borghesi, e là vivendo inaudite avventure e compiendo eroiche gesta. In altri
termini non dobbiamo concretare le nostre fantasie. Ma l’uomo ha una
dannata inclinazione a farlo, e tutta l’avversione contro la fantasia, tutta
la svalutazione critica dell’inconscio, nascono, a ben guardare, solamente
dalla paura di questa inclinazione. Entrambi, il concretare le fantasie e
la paura di farlo, sono superstizioni primitive, ma ancora ben vive nei
cosiddetti illuminati. C’è chi nella sua vita borghese è calzolaio di
professione, e nella sua setta riveste la dignità di un arcangelo ; chi in
pubblico è un piccolo commerciante, e presso i frammassoni una misteriosa
grandezza ; chi di giorno fa l’impiegato, ma nel suo circolo è una
reincarnazione di Giulio Cesare ; chi come uomo è fallibile, ma
infallibile nel suo ufficio : questi sono i modi di concretare che sono
fuor di luogo. Contro a ciò il credo scientifico del nostro tempo ha sviluppato
una fobia superstiziosa per la fantasia. Reale, tuttavia, è ciò che agisce.
Le fantasie del’inconscio agiscono : non c’è dubbio su ciò. [Jung
Opere v. 7, p. 214-15]
Detto
tra parentesi, ma sembra persino superfluo ricordarlo, chi ha familiarità con
il mondo della fantasia, corre il rischio di cadere nella patologia opposta a
quella dell’uomo comune :
Ci
sono casi - principalmente di artisti o nature esaltate... - nei quali l’Io
non è localizzato nella Persona (come rapporto con il mondo reale) bensì
nell’Anima (come rapporto con l’inconscio collettivo). In questo caso
individuo e persona sono entrambi inconsci. L’inconscio collettivo costituisce
parte della coscienza, mentre gran
parte del mondo reale forma un contenuto inconscio. Questi uomini provano la
medesima paura demoniaca della realtà che
l’uomo comune ha dinanzi all’inconscio. [ibid.,
p. 301]
Dopo
questa fugace sintesi della pars destruens - i rischi del fantasticare, la fobia
dell’immaginario/fantasia/Immaginale e la fobia del reale - bisogna però
chiarire, oltre a quanto già si è detto, quale possa essere l’utilità di
accedere al mundus imaginalis. Ancora
una volta la risposta è, quanto meno in linea puramente teorica, semplice :
accedere a questo mondo significa aver superato blocchi o addirittura paralisi
delle proprie forze psichiche, siano essi indotti da abitudini individuali e/o
da ingerenze della cultura e della civiltà in cui si vive. Godere di questo
accesso significa allora riconoscere e poter utilizzare energie fino a quel
momento ignote, benché da sempre presenti nel proprio intimo. Entrare nel mundus
imaginalis è quindi, in un certo senso, un equivalente di un atto di volontà
e di memoria... e non è certo un caso che in uno stesso, cruciale, momento
della storia dell’Occidente, il Rinascimento, l’alchimia e l’arte della
memoria ebbero un loro particolare momento di fulgore. Dall’altro lato la
poesia continuava, come faceva da tempo, a svolgere un’analoga funzione, non
senza aver già attivato un potente motore
di questa ricerca di “ciò che è nascosto” : Amore. Basta pensare, per
fare solo gli esempi più noti, ai Fedeli
d’Amore e al ruolo che Amore rivestì in alcuni esponenti del Rinascimento :
Marsilio Ficino, Giordano Bruno, Leone Ebreo... Dice James Hillman :
Con
l’immaginazione attiva si entra nel thesaurus inscrutabilis di Agostino :
‘Quando io vi entro, basta che io chieda quello che voglio trarne :
alcune impressioni emergono subito, altre bisogna ricercarle più a lungo...
altre si affollano tutte quante insieme... Con un atto di volontà le allontano
dalla visione del ricordo, finché si snebbi quello che
io voglio e venga fuori chiaro dal fondo’ [Confessioni
X.10]. Come in Agostino e come nelle
successive tecniche della memoria, l’immaginazione attiva mette in rilievo
l’attività della coscienza. Notitia, voluntas e amor
sono applicati alla memoria. L’arte della memoria è un lavoro e
richiede perciò la forza di volontà dello sviluppo egoico. Particolarmente
importante in questo sviluppo è l’amore. Le immaginazioni sono attivate
soprattutto dall’emozione dell’amore [sott. agg., nda] - il nostro amore rivolto verso il mondo immaginale : amor
al servizio di memoria. [Hillman 1991: 197-98]
Si è detto che accedere al mondo dell’Immaginazione attiva significa
riconoscere (nel suo duplice senso) e attivare energie psichiche bloccate.
Hillman preferisce parlare di “divinità” e, così
facendo, rende ancora più palese l’affinità tra pratica alchemica (si
pensi alle correlazioni tra simbolismo dei metalli, pianeti e divinità) e
pratica poetica (a titolo di esempio, valga per tutti la funzione esercitata
dalle varie divinità in un poema come l’Iliade) :
Nella
nostra immaginazione noi riflettiamo le diverse divinità del mondo immaginale.
Nella nostra soggettività siamo governati da una molteplicità di fattori,
ognuno dei quali splende attraverso i nostri occhi. E come chiedono di non
essere trascurati e dimenticati, così gli Dei insistono anche risolutamente sul
voler essere visti secondo la loro prospettiva, ognuno secondo la propria luce
particolare. Considerare Afrodite solo dal punto di vista di Artemide può
condurci, come Ippolito, al disastro. Cos’è Ermes secondo suo fratello se non
un ladro di bestiame, e cos’è la prospettiva dionisiaca per quella apollinea
se non un tumulto isterico senza distanza, senza forma o proporzione ?
[Hillman 1985: 33-4]
Potrà
sembrare paradossale questo percorso che, a partire dal fumoso cabinetto
alchemico da un lato e dal silenzioso studiolo del letterato dall’altro, ha
condotto fino alla soglia del pantheon... ma non è detto che ciò che è para
doxa,, contrario alla comune opinione,
sia necessariamente privo di senso, anzi è spesso vero il contrario perché è
proprio scartando i sedimenti che si sono accumulati nel tempo e non dando la
priorità alle connessioni più routinizzate che è possibile porre in evidenza
qualcosa che da sempre si aveva sotto gli occhi e che pur non si riusciva a
vedere. E, con ogni probabilità, neanche quegli alchimisti e quei letterati che
si sono dedicati alla loro arte nella prospettiva di quella trasformazione
interiore che si ottiene ricordando ciò che veramente si è, fino ad arrivare
alla Conjunctio Oppositorum o se si
preferisce all’unione con l’amata, probabilmente neppure loro, si diceva,
erano consapevoli di che cosa stavano facendo e del perché. Facendo, però,
operando in una stessa direzione, inevitabilmente finirono per dimostrare una
reciproca affinità se non addirittura attrazione.
E’ forse proprio questa mancata consapevolezza a rafforzare la tesi che
la reciproca attrazione tra un certo tipo di letteratura e un certo tipo di
alchimia sia dovuta al fatto che, in entrambi i casi, si sia manifestato - e
possa manifestarsi - l’impulso ad ascoltare
le voci di tutti gli “dei”, fossero pure diverse e opposte, anzi
proprio perché diverse e opposte, nel tentativo di recuperare quella “totalità”
da lungo tempo duramente messa alla prova dall’asservimento a un solo dio. Per
ottenere questo, alchimisti e poeti - ma non solo loro ! -
devono pervenire a un allentamento di quei vincoli imposti da una
coscienza ormai talmente monolitica che spesso riesce a essere penetrata - e
frantumata ! - da quel “martello invisibile” di cui parla Rilke nel suo
sonetto. Riuscire a “udire le voci degli dei”, quale che sia il modo in cui
ciò avvenga, significa allora riuscire a tornare - solo per certi aspetti, è
chiaro ! - alle condizioni mentali dell’uomo, dell’uomo comune, di
alcuni millenni fa... diciamo fino al periodo in cui
sono collocate le vicende dell’Iliade.
Questo, almeno, se si accetta l’articolata e, ovviamente, ampiamente ignorata
tesi dello psicologo Julian Jaynes
secondo la quale l’uomo dell’antichità - fino al periodo storico
delle vicende narrate, appunto, dall’Iliade
- non aveva una coscienza così come l’intendiamo noi, bensì nei momenti di
particolare emotività era mosso dalle “voci degli dei” che sentiva venire
dal suo interno... e che per Jaynes altro non erano che i messaggi inviati
dall’emisfero non dominante. Se, come dice lo psicologo americano, la storia
altro non è che il lento ritrarsi della marea delle voci e delle presenze divine, si
può pensare che l’alchimista e il poeta abbiano entrambi cercato di
sospendere il tempo e di tornare a vivere in un eterno presente. Questo però
non lo sapevano e, nel loro tempo sospeso scandito solo dall’eventuale
mutamento della loro condizione interiore,
continuavano chi a cantare la donna amata e chi a inseguire il perfezionamento
del metallo vile.
Jupiter
è Delphis aquilas misisse gemellas
Fertur
ad Eôas Occiduàsque plagas :
Dum
medium explorare locum desiderat Orbis,
(Fama
ut habet) Delphos hae rediêre simul.
Ast illae lapides bini sunt, unus ab
orto,
Alter ab occasu, qui bene conveniunt.
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