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Alessandro E.M. Pisani

SCRITTI ALCHEMICI E CURIOSI

Alchimia, il Libro nell' Alambicco
Ora, lege, relege, et invenies occultum lapidem
rebis
PHANTASIA & CURIOSITAS
NOTE INTRODUTTIVE ALLA RICERCA ALCHEMICA
ALCHIMIA
L' UOVO E LA GALLINA.....DEI FILOSOFI, NATURALMENTE!
LABIRINTO - L'IDENTITA' DI DEDALO
IL LIBRO NELL' ALAMBICCO
L' ALAMBICCO NEL LIBRO
LA FRITTATA ALCHEMICA
Repertorio alchemico, cabalistico, magico e “curioso” Repertorio.pdf.zip 2.230 Kb


            Se si cerca di visualizzare la figura dell’alchimista, è facile che si arrivi a una rappresentazione abbastanza omogenea a quella che potrebbe elaborare qualsiasi altro uomo occidentale, complici, è chiaro, ciò che nei secoli è stato elaborato e filtrato dall’immaginario collettivo che a sua volta influenza ed è influenzato dalla narrativa, dall’iconografia e, più recentemente, dal cinema. Vediamo allora l’alchimista come una persona anziana, paludata da lunghi e pesanti abiti... spesso, però, abiti semplici, quasi a ricordare che ancora non è riuscito a compiere la tanto desiderata trasformazione. Né potrebbe essere altrimenti, se no per quale motivo quest’uomo ormai quasi privo di forze continuerebbe a stare curvo sui suoi strumenti a controllare il tenore del fuoco e le sfumature di colore che vengono a mano a mano assunte dal materiale lavorato ? L’ambiente in cui l’alchimista opera è quasi invariabilmente angusto, fumoso, polveroso, con un numero incredibile di strumenti sparsi qua e là nel massimo disordine... ma soprattutto il laboratorium è oscuro, quasi a richiamare l’attenzione sulla fonte principale di luce che è quella emanata dall’athanor e che, a sua volta, si riflette sul viso del curvo alchimista, enfatizzandone le profonde rughe : apparentemente l’unico concreto risultato di questo lavoro che dura da una vita.

In questa immagine stereotipata l’attenzione è attratta dall’ “esotico” armamentario con cui l’alchimista opera : l’athanor, appunto, gli alambicchi, le serpentine, quei grossi vasi di vetro a forma di pera detti “pellicano” grazie ai quali egli può compiere la retorta circulatio, vale  a dire la “coobazione”, la ridistillazione di un liquido sulle sue stesse materie da cui fu ottenuto come primo prodotto di distillazione, operazione anche di grande valore simbolico in quanto permette di congiungere ripetutamente “ciò che sta in alto” a “ciò che sta in basso”. In questo ambiente misterioso possono anche comparire animali capaci di evocare connotazioni molto pregnanti : il gatto, la colomba, il rospo...

 

            Se ci si concentrasse meglio, si arriverebbe sicuramente a identificare qualche altro particolare tipico della figura dell’alchimista così come è stata elaborata dall’Occidente. E’ facile, però, che un particolare continuerebbe a rimanere sullo sfondo : come Proteo, pur senza cambiare forma, inafferrabile, forse perché ancora oggi comune oggetto d’uso quotidiano e, dunque, non sufficientemente caratterizzante.

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            L’oggetto in questione è il libro.

 

Nelle rappresentazioni iconografiche di soggetti alchemici la presenza del libro è frequente e talvolta centrale. Consideriamo alcuni esempi.

Nella pavimentazione in marmo del Duomo di Siena compare a un  certo punto la mitica figura di Ermete Trismegisto al quale viene reso omaggio da un sapiente occidentale e da uno orientale. E’ a quest’ultimo che Ermete porge un libro aperto sulle cui pagine si può leggere  “Suscipite licteras et leges Egiptii”.

 

Nel “L’alchimista”, dipinto di Hippolyte de la Roche (1797-1856), il libro non c’è ancora ma c’è uno dei suoi presupposti : il vecchio alchimista fissa con attenzione la bocca dell’athanor ; in grembo ha un grosso quaderno e in mano la penna pronta a fissare il resoconto delle sue osservazioni.

Dall’oscuro antro, illuminato solo dai bagliori dell’athanor, si passa ad  ambiente affatto diverso in una miniatura tratta da una poesia alchemica tedesca (manoscritto del XVII sec.) : qui l’ambiente è luminoso, simile a un vecchio laboratorio da farmacista ; l’alchimista è intento a leggere un libro, accanto a questo ve ne è uno chiuso e, in secondo piano, uno scaffale ricolmo di libri al punto che il loro numero uguaglia se non supera quello degli strumenti sparsi qua e là per il bancone.

 

longhi_alchimista

“Gli alchimisti” di Pietro Longhi (1757 ca) rappresenta tre alchimisti : uno è chino sul fornello, un altro, riccamente vestito, mostra un’ampolla contenente di certo il tanto desiderato elixir, in secondo piano un francescano stringe tra le braccia un grosso tomo sulla cui copertina campeggia il nome “R. Lullo”. La disposizione e l’atteggiamento delle figure suggerisce la necessità iniziale dei libri, della lettura, che però non deve essere fine a se stessa (l’atteggiamento di chi è geloso del proprio sapere ed è invidioso per la riuscita degli altri) ma deve convertirsi in quella lunga pratica che è il passo indispensabile per poter conseguire qualsivoglia risultato.

 

steen_alchimista nel villaggio

Nel dipinto di J. Steen (1600 ca) “L’alchimista del villaggio”, l’ambiente è quello di una povera, scura e disordinata casa contadina. Sullo sfondo una donna allatta al seno, mentre in primo piano il vecchio alchimista rimescola con cura il contenuto di una pignatta posta sul fornello. Dato l’ambiente non vi è presenza dei costosi libri ; pur tuttavia l’istruzione scritta occupa il posto dovuto grazie ai due caratteristici personaggi collocati in secondo piano, raffigurati mentre, con evidente difficoltà, leggono un grosso foglio manoscritto che riporta, si lascia intendere, le istruzioni da eseguire per il compimento dell’Opera[1]

 

Un’aria affine si respira nel dipinto di Cornelius Pietersz (1663) “Alchimista nel suo laboratorio” : qui, se possibile, l’ambiente è ancora più sporco e disordinato ; su un lato, quasi a dar luce alla parete più lontana dalla finestra, compare malamente appilato un certo numero di fogli a stampa e di libri ancora aperti, come se continua fosse la necessità di andarli a consultare.

 

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La stessa necessità, ma forse anche quella di superare il momento della lettura, è segnalata dal grosso e sgualcito libro malamente appoggiato alla base di un alambicco, come se fosse stato frettolosamente deposto, che compare nel dipinto di Adriaen van Ostade (1610-1685) “L’alchimista”, analogamente a quanto avviene nell’omonima opera di David Teniers il Giovane (1610-1690) in cui i libri sono affastellati, alcuni aperti, altri chiusi, ai piedi dell’alchimista che con un mantice attizza il fuoco nel fornello.

 

Un’aria decisamente borghese, ma non per questo meno convulsa e disordinata, si respira invece nel dipinto “Alchimista nel suo laboratorio” di Thomas Wych (1616-1677). I libri predominano : un grosso tomo è consultato dall’assorto alchimista, altri sono aperti e altri ancora appilati su un grande tavolo ; un numero ancora più elevato di libri, però, ricopre per una larga parte il pavimento dello spazioso laboratorio.

 

Ancor più significative sono altre due opere.. La prima è “L’alchimista” di (1770). Il protagonista, l’alchimista Hennig Brand, è evidentemente riuscito, alla sua tarda età, a portare a compimento il suo lavoro : è inginocchiato, gli occhi rivolti al cielo e un atteggiamento in cui si mescola gratitudine e stupore. I tratti del viso sono scolpiti dalla soprannaturale luce che emana dal liquido, il fosforo puro, che si raccoglie in una storta. Incombono sul suo capo, malamente affastellati su una mensola, alcuni grossi libri, anch’essi illuminati dalla stessa luce. Questa volta la lunga pratica del “lege et relege” e dell’”ora et labora” sembra andata a buon termine.

 

Joseph Wright of Derby

Tanta è la spiritualità che traspare dal dipinto di Joseph Wright quanta invece è la magnificenza che pervade “L’alchimista” che Jan van der Strat dipinse nel 1570 per il cabinetto alchemico di Federico I de’ Medici a Firenze. Non ci si trova più negli angusti e polverosi antri in cui di solito si incontrano gli alchimisti, bensì in un’ampia aula con colonne che reggono volte a crociera. All’interno di questo ricco palazzo più personaggi, guidati dalle istruzioni dell’alchimista, sono intenti a svolgere le varie operazioni che scandiscono il processo di trasformazione : c’è chi spreme con un torchio delle erbe, chi pesta in un mortaio, chi arrostisce sul fornello, chi è addetto alla fornace, chi rabbocca un gigantesco athanor. Al centro, in primo piano, un giovane che stringe al petto una grossa ampolla contenente, come lascia intendere la sua espressione, il prodotto finale e a fianco del giovane il potente alchimista con l’indice levato nell’atto di chi dà le fondamentali istruzioni. In un locale appartato, collocato in alto a sinistra del dipinto, un personaggio, semiavvolto dall’oscurità, scrive probabilmente il resoconto del processo. Sulla destra del dipinto, alle spalle dell’alchimista, spicca il biancore delle pagine di un grosso libro aperto. Ancora una volta la presenza del libro, la sua collocazione e la sua disposizione - in secondo piano, sì, ma ancora aperto - indicano il suo ruolo fondamentale per i preliminari e lo svolgimento del processo di trasformazione. Fondamentale, necessario, ma non sufficiente... e questo è suggerito dal gran numero di personaggi che, nel dipinto, vengono rappresentati variamente affaccendati. Esterno al processo, ma indispensabile al fine di perpetuare la tradizione, è il personaggio, di cui già si è detto, ritratto ai margini del dipinto mentre è intento a scrivere : vi sono buone probabilità che, in un tempo non lontano un altro libro venga dato alle stampe e che altri aspiranti alchimisti si avviino al duro lavoro prendendo forza e ispirazione dal successo dell’alchimista ritratto da van der Strat.

 

Jan van der Strat_alchimisti

Già grazie a questa breve silloge di dipinti è possibile rendersi conto di quanto forte sia il vincolo tra libro e alchimia, di quanto la presenza del libro sia radicata nell’immaginario collettivo dal quale, per una sorta di retorta circulatio, vanno ad attingere gli artisti che poi, con le loro opere, non faranno altro che rafforzare questo vincolo e questo radicamento. La situazione è tale che viene quasi la tentazione di dire che di una cosa si è assolutamente certi che sia stata realmente prodotta nell’ambito della ricerca alchemica : i libri, libri che parlano di altri libri, libri che parlano di altri libri che parlano di altri libri... in un circolo che si fa sempre più ampio, fino a far perdere, in taluni casi, ogni concretezza all’oggetto trattato oppure a trasformarlo in altro oggetto. Solo il libro, il libro e neanche chi lo scrive, viste le molteplici vesti sotto le quali, a seconda del tempo, del luogo e delle circostanze, l’alchimista ci si presenta : rozzo e un po’ diabolico metallurgo, avido contadino, astuto truffatore, ambiguo uomo di scienza sempre indeciso tra sapere tradizionale e sperimentazione, inconsapevole precursore della scienza moderna, spiritualissimo mistico... Detto questo, viene la curiosità di sapere se e come questo protagonista, il libro, venga presentato nelle opere stesse degli alchimisti. Già da un’indagine frettolosa si evidenzia come gli esempi non manchino. Si apprende, così, che i libri sono tra i presupposti necessari alla pratica alchemica:

 

“...et hoc requirit sapientiam, divitias, et libros. Sapientiam ad sciendum facere. Divitias ad habendum potestatem faciendi.” [Testamentum Raymundi Lulli in Manget Bibliotheca Chemica Curiosa I.727B]

“Et iuro vobis per Deum, quod molto tempore in libris investigavi... quanto magis libros legebam, tanto magis mihi illuminabatur.” [pseudo Arisleo Turba Philosophorum in Manget I.450B]

“Tandem consideravi philosophos minime fuisse omnino mentitos. Itaque revolvi eorum libros sepe et sepius studendo et cogitando...” [Arnaldo di Villanova Parvum Rosarium]

“Legghino dunque i curiosi incessantemente prima di operare, che li assicuro che facilmente & intieramente quello che io quasi per ombra ho mostrato, come dice Trevisano a tutti con simili parole : ‘se vuoi apprendere l’arte della chimica, prattica i sapienti, cioè di quelli le compositioni leggi benché ti rassembrino oscure’.” [G.B. Comastri Specchio della verità (Conclusione)]

“Dunque cercate nei libri per conoscere la natura della verità, cosa la fa putrefare, cosa la rinnova, di quale sapore sia, quali cose abbia naturalmente prossime.  [...] Quando vi saranno note queste cose in quest’Arte, mettetevi mano. Se però ignorate  le nature di verità, non avvicinatevi a quest’Opera, perché è tutta danno, infortunio e tristezza.” [Turba...]

 

I libri però, per quanto necessari (anzi: si dice talvolta che devono rimanere davanti agli occhi dell’alchimista “come una luce” [Turba...]), e per quanto necessario sia prepararsi sulle opere di più “Filosofi”, perdono il loro valore se non si giunge ad averne una comprensione profonda:

 

“Esistono tanti volumi della scienza dei chimici, in parte pubblicati a stampa in parte manoscritti, da potersi affermare che nessuna scienza abbia avuto tanti autori e tanti Maestri quanto i discepoli di Ermete [...] Quindi, con l’animo pacificato, nella certezza dell’aiuto di Dio e rassicurato da ogni speranza, dopo aver trascorso dodici continui anni [...] in lettura assidua di giorno e di notte, cominciai a sperimentare se avessi potuto ottenere il risultato [...] Oh, quanti altri si trovano i quali, per essere scaturita una volta una opinione nel loro grosso intelletto secondo la lettura, dicono di servirsi di una indicazione di un solo autore e perciò ritengono di essere dottissimi ! [...] Ho conosciuto un uomo che aveva trattenuto a memoria non voglio dire tanti trattati, ma addirittura volumi di erudizione tanto squisita e illustre, di un tale ordine razionale che non avrei mai creduto che si potesse acquisire una maggior perizia in tale scienza. Ciò nonostante a lui era noto solo il significato letterale delle parole ; conosceva le lettere ma ignorava l’opera...” [Fra’ Marcantonio Crasselame Chinese [2] Lux Obnubilata (dalla pref.)]

 

Quello che più di un alchimista vuole sottolineare, insomma, è che ciò che conta non è quanti libri si siano studiati, bensì in che modo e di chi :

 

“Lo studioso novizio... seppur ignaro del modo di procedere della Chimica, fidente entri nella regia via della Natura, apra i libri dei candidi filosofi [...] L’amatore della verità usi pochi autori ma di ottima qualità e provata fede ; consideri sospette le cose facili a comprendersi...”  [Jean d’Espagnet Opera arcana della Filosofia Ermetica § 7 e 9]

 

Dall’ultimo passo citato si può anche evincere perché la gran copia di libri letti e riletti non può fornire, di per sé, alcuna garanzia. I testi alchemici, infatti, sono scritti in modo cifrato o, se si preferisce un banale gioco di parole, “ermetico” :

 

“I Filosofi sono curiosi di comunicare con i loro simili, perciò non parlano che per i più sapienti [...] E’ per questo che essi giustamente censurano i loro libri sotto il castigo di non comprendervi altro che un mucchio di confusione e di perdita di tempo, se non sono più che capaci di raccogliere il dolce miele in mezzo a tanti altri fiori.” [Salomon Trismosin Aureum Vellus (prologo)]

“...ie veux icy avertir le lecteur qu’il ne juge point de mes écrits selon l’écorce & le sens exterieur des paroles, mais plustost par la force de la Nature...”  [Sendivogius Le Cosmopolite (pref.)]

“...multis laboris fatigatus, multasque calamitates et miserias atque expensas feci, operando in arte secundum libros philosophorum. Et omnes ipsi philosophi in suis libris modum duplicem tradiderunt unum verum... intermiscendo vera cum falsis ut illos qui hoc magisterium querere cernerent, ab eius intellectione penitus deviarent, et nihil inveni.” [Arnaldo di Villanova Parvum Rosarium]

 

Chi non riesce a penetrare nei segreti celati nei libri alchemici, corre il rischio di fare la figura del povero sprovveduto, come accade al presuntuoso alchimista del suggestivo Dialogue du Mercure, de l’Alchymiste, & de la Nature :

 

[Alch. :] ...ie n’ay rien fait, que selon les écrits des Philosophes, & ie sçai tres bien travailler. [Le Merc. :] Vraiment, ouy, tu es un bon Operateur, car tu fais plus que tu ne sçais, & que tu ne lis dans les livres...” [Sendivogius Le Cosmopolite... p. 103]

 

A prescindere, però, dal rischio di essere malamente interpretato dagli ignoranti presuntuosi, da che cosa veramente cercano di tutelarsi gli alchimisti ? Quali che siano stati i risultati realmente ottenuti, c’è una risposta, almeno, che può sembrare sorprendente in quanto testimonia una certa loro consapevolezza di quella che oggi sarebbe denominata “responsabilità della scienza” :

 

“Oh quale terribile male sarebbe, che questo libro cadesse nelle mani degli uomini mondani e nella conoscenza dei tiranni  ed al servizio dei rinnegati !  Perché [...] i tiranni, rinnegati e mondani, ne potrebbero abusare e perseverare nelle ricchezze e nelle sregolatezze...” [Rupescissa Trattato della quintessenza (libro I)]

 

Ciò non toglie, però, che Rupescissa stesso, così come altri alchimisti, possa poi sostenere, forse per sviare ulteriormente gli indegni, che il libro è stato scritto in modo semplice e che è del tutto completo e veritiero:

 

“Del resto [...] scrivo questo libro solamente per l’utilità dei santi e dei buoni [...] e senza parole roboanti, voglio svelare i segreti...” [ibid.]

“Et quoique parmi tout ce mêpris que l’on en faisait, il y eût plusieurs Livres des anciens Philosophes, qui avaient été conservés, dans lesquels cette Science se trouvait tout entière, et sans nul mensonge.” [Entretiens du Roi Calid et du Philosophe Morien]

“Nunc autem ne universa philosophiae volumina tamquam vagabundus oberres uno pulchro et breviori volumine nunc facere nitor.” [pseudo Alberto Magno De occultis nature p. 164]

 

Se l’intenzione fu proprio quella di ispessire il velame, bisogna chiedersi se gli alchimisti fossero per caso afflitti dalla “sindrome del sospetto”, per usare un appellativo caro ai dispregiatori di tutto ciò che sia in odore di esoterismo. Se così fosse, o erano tutti pazzi - paranoici, è chiaro, ma anche sadomasochisti, considerate le trappole che allestivano per i loro lettori e il tempo e i beni che dilapidavano nella loro attività - oppure erano in un certo qual modo fiduciosi e convinti della buona riuscita della loro impresa e allora altro non si potrebbe fare che constatare una loro comprensibile adesione all’antica esortazione “ne obice margaritas...”. Come è comprensibile, non è possibile fare una simile generalizzazione in modo sensato, non è possibile cioè stabilire con quale tipo di figura l’alchimista si identificasse, se con il paranoico-sadomasochista o con lo sperimentatore fiducioso nel proprio operato e geloso degli esiti di questo. Più sensato è ipotizzare che la vasta gamma di alchimisti - quelli veri e dunque almeno con l’esclusione dei consapevoli truffatori - debba essere disposta lungo il continuum che unisce le due opposte figure, sebbene amore di precisione richiederebbe che venissero messi in gioco anche altri parametri. Prendiamone in considerazione uno che gli alchimisti stessi, con una certa frequenza, amano suggerire : dicasi il fatto che sembra talvolta il “caso” a indirizzarli per il cammino che li porterà ai più esaltanti risultati, quasi a suggerire l’esistenza di un disegno superiore di cui l’alchimista altro non è che strumento. Anche in questa sceneggiatura il libro è protagonista. Il topos è quello del ritrovamento “casuale” del libro che porrà fine alle lunghe e vane sperimentazioni dell’alchimista, portandolo finalmente alla comprensione di quale sia la “vera materia” su cui operare e/o di quali siano le corrette operazioni e/o di quale sia la loro corretta sequenziazione e durata. Il topos ha antichissima tradizione : casuale il ritrovamento della Tabula Smaragdina[3] e del ritrovamento del libro di Ermete da parte di Adfar, come poi ha riferito il suo discepolo Morieno (Liber de compositione alchimiae o Testamentum Morieni in Manget 510A). Attorno a un libro fatale ruotano le vicende di Bernardo Trevisano [4] e di Nicolas Flamel :

 

“...dopo la morte dei miei Genitori, per guadagnarmi da vivere, esercitavo la nostra Arte di Scrivani e, facendo Inventari, redigendo Conti, controllando le spese dei Tutori e dei Minori, mi capitò fra le mani, per la somma di due fiorini, un Libro dorato, molto vecchio e molto grosso. Non era fatto di carta o pergamena, come gli altri, ma, a quanto mi parve, di cortecce delicate di teneri Arboscelli.” [Il libro delle figure geroglifiche]

 

Si tratta quasi invariabilmente di libri antichissimi e, anzi, come dice il medico ebreo Mastro Conches a Flamel, che nel frattempo ha speso ventun anni di inutili tentativi, “di cosa che si credeva ormai perduta” [ibid.], quasi a sottolineare il ripreso vigore di una tradizione che si credeva ormai interrotta.

Può avvenire anche che la temporanea sparizione del libro e il suo “miracoloso” ritrovamento vengano usati dall’editore a puro scopo propagandistico:

 

“Je connoissois depuis longtems l’importance du service qu’Huginus a Barmâ avoit rendu à l’école entière des disciples d’Hermes... d’après un témoignage aussi favorable [di Saturnia Regna da parte di Olaus Borrichius, nda] j’avois soigneusement recherché le petit livre dans les principales bibliothèques de cette Capitale de France, mais inutilement [...]  D’après tout cela, je commençois à douter si le tems n’avoit pas totalement détruit les exemplaires de ce prexieux ouvrage : lorsque M. Derieu en mit un sous mes yeus parmi un grand nombre d’autres livres de la science...” [Huginus à Barmâ Le regne de Saturne changé en  siècle d’or (avviso dell’Editore all’edizione del 1780)]

 

Talvolta può trattarsi di interruzione più breve, dovuta per esempio alla morte dell’Alchimista:

 

“Entre les oeuvres du feu sieur de Vigenere, tant parachevées, qu’autres apres son decés, mises és mains de defunct l’Angelier Libraire, pour les donner au public ; s’estant rencontré ce traicté DU FEU ET DU SEL, la recherche en a semblé si curieuse, le subject si beau, & la doctrine si peu commune, qu’encore que l’Auteur n’y eust apporté la derniere main, ne donné l’entiere polisseure ; neantmoins tel qu’il est on l’a estimé digne de vous estre presenté ; & le lisant en ferez pareil iugement.” [Blaise de Vigenère Traicté du feu et du sel (nota dell’editore)],

 

non senza aver instillato il legittimo sospetto che, se le carte mai erano uscite dal cabinetto dell’alchimista, ben si doveva trattare di qualcosa di assolutamente al di fuori del comune. Certe volte, però, il ritrovamento casuale di un’opera misteriosa altro non è che il tentativo di nascondere la reale identità dell’autore:

 

“Essendo quindi pervenuto nelle mie mani il manoscritto in volgare metro italiano redatto da anonimo autore, in questi tempi in cui sovrastano ovunque l’oscurità e le tenebre... ho condotto l’opera a vedere la luce nella luce [pubblicare legittimamente]... [Crasselame Lux Obnubilata],

 

salvo poi “cedere alla tentazione” di suggerire un indizio grazie al quale sia possibile identificare il vero nome dell’autore:

 

“Chi sia mai stato l’autore di quello scritto, non mi è ancora noto, sebbene ne conosca il nome nel suo anagramma...” [ibid.].

 

Altre volte ancora, però, il ritrovamento “casuale” di un libro fuori del comune non è ragione sufficiente perché il beneficiario possa raccoglierne i  pieni frutti:

 

“Il commença donc à lire les livres des Philosophe, & entre-autres il tomba sur la lecture d’un livre d’Alain, qui traite du Mercure, & ainsi par la lecture de ce beau livre, ce Monsieur l’Alchimiste devint Philosophe, mais Philosophe sans conclusion...” [Sendivogius Le Cosmopolite... Dialogue du Mercure... p.89]

 

In ogni caso, quali che siano le conseguenze del ritrovamento del libro, sembra evidente che sotteso al topos del fatale libro nascosto/perduto e poi ritrovato, possibilmente da un eletto, vi sia il desiderio di enfatizzare l’impulso e la partecipazione superiore, divina, al compimento della Grande Opera. Non estranea a questa enfasi può essere stata l’interiorizzazione di quel passo dei Proverbi che dice : “Nascondere le cose è gloria di Dio, scoprirle è la gloria dei re.” Forse non è un caso che da taluni l’alchimia sia denominata, appunto, la Via Regia. Non solo i libri, però, sono nascosti dalla divinità per essere poi, al momento opportuno e dalla persona adeguata, fatti ritrovare. Tutto ciò che è stato approntato dalla divinità conterrebbe infatti dei segreti che spetterebbe poi a uomini eletti riconoscere e interpretare, pervenendo così alla comprensione profonda del significato del mondo e della vita. In quest’opera di identificazione dei segreti divini intrinseci alla natura, gli alchimisti, e non loro solamente, ricorrono ancora una volta al libro, seppure in forma  metaforica:

 

“La Nature nous sert de livre [...] par elle nous passons à la contemplation et adoration de Dieu qui y a mis les vertus merveilleuses de son esprit eternel : nous l’y voyons des yeux de l’intelligence comme notre Auteur et conservateur...” [La Verité sortant du puit hermetique]

 

Con questa metafora del “Libro della Natura” gli alchimisti, ancora una volta, rivelano il carattere ambiguo della loro condizione : per un verso innovatori, non fosse altro che per il peso rilevante della sperimentazione nel loro operare, per l’altro verso legati al vecchio paradigma secondo il quale la verità viene stabilita dal confronto dei testi3 . E’ noto che la metafora del “Libro della Natura” non è né una primizia né un’esclusiva degli alchimisti. Tra i suoi prodromi si può innanzitutto annoverare l’Apocalisse di Giovanni allorché, dopo la rottura del sesto sigillo del libro con i decreti divini sul futuro del mondo e della chiesa, “caelum recessit sicut liber involutus” [Ap. 6.14], laddove è implicito che la sussistenza del mondo è legata al fatto che il “Libro della Natura”  - in questo caso scritto dalle stelle nel cielo - permanga leggibile ; chiuso il libro si supera il “tempo ultimo”. La stessa metafora - con la stessa implicazione : l’esistenza del mondo in dipendenza dall’esistenza del Libro - viene evocata anche dal Talmud di Babilonia allorché il copista Rabbi Jehuda riceve da Rabbi Ischmael la seguente ammonizione:

 

            “Figlio mio sii cauto nel tuo lavoro, perché è un lavoro divino ; se dimentichi una sola lettera o scrivi una lettera di troppo, distruggi il mondo intero.”

 

In Occidente, comunque, la metafora del “Libro della Natura” - o meglio : dei due libri, il Libro della Natura e il Libro per eccellenza, la Bibbia - venne resa del tutto esplicita dal medico e filosofo catalano Raimondo di Sebunda nel suo Liber creaturarum del 1436 (e poi divulgato da Montaigne Essais1.II.XII), per essere poi ribadita, da lì a poco, da Nicolò Cusano nel suo Idiota de sapientia, allorché il laico illetterato dice di aver ricevuto la sua scienza “del non sapere” “non ex tuis, sed Dei libris... Quos digito suo scripsit”, vale a dire dallo stesso Libro della Natura che gli alchimisti, in parallelo però con i libri dei “Filosofi”, con cura incessantemente compulsano. Un secolo dopo, Paracelso ancora parlerà dell’unico libro che “Dio stesso ha dato, scritto, dettato e messo a stampa.”

 

Se si tiene conto dell’attaccamento dell’alchimista all’antico paradigma - e dunque al valore dei libri e del confronto fra questi - e al suo programma di accelerare, con le sue operazioni, ciò che la Natura compie “in mille e mille anni”, è chiaro perché così radicate in lui siano l’immagine del libro e la metafora del “Libro della Natura” : solo sapendo convenientemente leggere negli uni come nell’altro potrà nutrire qualche speranza di portare a termine la Grande Opera. Per quello che riguarda la disposizione dell’alchimista nei confronti del libro, Chiara Crisciani dice:

 

“Decodificandolo... [egli] può riprodurre l’opus, in primo luogo quello letterario passando dall’esercizio della lettura all’attivazione del commento ; può anche ritrasmettere a sua volta la dottrina antica... come nell’opus manipola ingredienti e sostanze, così nella comunicazione manipola nomi e sentenze, trasformandoli da vili in preziosi, e costruisce un opus letterario con strati di citazioni continuamente rinviantesi nell’unità senza storia della traditio, di cui ogni testo, come l’opus rispetto al cosmo, costituisce microcosmico compendio.”  [“Labirinti dell’oro...” p. 135-6]

 

Più in generale, però, all’alchimista era forse sifficiente avere ben viva nella mente la famosa strofa del Dies Irae :

Liber scriptus proferetur,

In quo totum continetur.

Unde mundus iudicetur.

 

Da devoto fedele del suo dio, chissà quante volte ha pensato che, unendo la conoscenza del Libro della Natura a quella dei libri della tradizione, avrebbe potuto un giorno, magari solo per qualche aspetto, sostituirglisi ! Se così è stato, il demiurgo di sicuro si sarà congratulato con se stesso per aver creato simili potenziali eredi... i quali, nel frattempo, scandivano i ritmi del loro opus con incessanti sequele di Pater e di Ave Maria, mentre i libri, che del mondo dovevano trattenere l’immagine e nascondere i segreti, aumentando sempre più di numero finirono per separare l’alchimista dal mondo. Vi fu chi volle prepotentemente ritornarvi, chi si dedicò solo al suo dio, chi solo ai libri. Ben di rado si riprodusse l’antico sincretismo ma, tutt' al più, contaminazioni : perso di vista l’obiettivo originario alcuni alchimisti non seppero far altro che sostituirvi una sorta di misticismo, altri un’esasperata sperimentazione, altri ancora un sapere basato sui libri e sul confronto e sull’autorità di questi. In singolare parallelo a questa situazione si vede, nell’ambito delle arti figurative, una produzione come quella di Giuseppe Arcimboldi (1530 ca.- 1593) i cui dipinti vivono dell’ambiguità tra quello che annunciano di rappresentare e quello che appare guardandoli da un’altra posizione oppure nei quali oggetti eterocliti concorrono a formare allegoriche figure : come certi soggetti raffigurati dall’alchimista milanese, l’alchimista perde gradatamente la sua reale identità per trasformarsi in una figura i cui tratti sono scanditi dagli strumenti che, precedentemente, usava nel segreto del suo laboratorium e che, col tempo, sempre più hanno assunto un valore simbolico. Tra questi, sicuramente, il libro.

 

Forse per conformarsi ad antichissimo uso, ma forse anche per attribuire maggiore spessore alla figura dell’alchimista, che sempre più si conformava a una riproduzione delle singolari composizioni arcimboldiane o delle metamorfosi di William Scrots, frequente, anche troppo frequente, è stato il caso dei testi alchemici pseudoepigrafi. Di questo fatto già alcuni alchimisti erano ben consapevoli:

 

“Però si dice, & si propone, che li veri Alchimisti, & non falsi sono, come son tanti Caldei, Arabi, Hebrei, Greci & Latini con nomi de filosofi antichi, & moderni ; se però son volumi di quelli, che se li applicano tali nomi, perché se li dia più credito, ò siano nomi finti, ò veri, basta bene che siano verissime le parole di quell’inquanto l’arte dell’alchimia, come di sopra si è detto.” [Quattrami: 1587: 39]

 

Da secoli, ormai, l’alchimia sta pagando un pesante tributo al successo della scienza e della ragione. E’ stata vinta ma non annullata : gli alchimisti, oggi forse ancor più riservati di una volta, esistono ancora e ancora sono distribuiti secondo varie tipologie. C’è chi si arrostisce mani e volto davanti all’erede dell’antico athanor, chi sul far del giorno percorre particolari prati trascinando bianche lenzuola di lino che gli consentiranno di raccogliere la preziosa rugiada - che per qualcuno è prima materia di ogni distillazione -, chi dell’alchimia ha fatto una pratica puramente spirituale e chi mistica, chi, sollecitato dall’Oriente, la pratica in chiave sessuale e chi passa notti insonni cercando di raccapezzarsi tra la gran copia di testi che, con qualsiasi mezzo, è riuscito a mettere  insieme, c’è chi la usa per truffare qualche povero diavolo e chi invece in buona fede crede di poterla usare per il benessere e la salvezza dell’umanità Come sempre c’è chi ottiene qualche risultato e chi vi spende inutilmente tutta la vita. Nei tempi moderni, però, nel panorama dagli alchimisti è comparso un nuovo tipo e, ancora una volta, direttamente o indirettamente il libro ne è partecipe. Si fa riferimento all’importanza che, nella tradizione alchemica, ha assunto il linguaggio.

 

Non solo e non tanto per l’enfasi data da Fulcanelli alla tradizione segreta dissimulata dagli arcani della “cabala fonetica” quanto soprattutto dal ruolo che l’alchimista ha assunto nell’ambito del Surrealismo. Uno dei suoi iniziatori, André Breton, dice al proposito:

 

“Non si tratta di più di far servire la libera associazione delle idee all’elaborazione di un’opera letteraria che tenda a surclassare le precedenti per la sua audacia, ma in cui l’appello alle risorse polifoniche, polisemantiche o d’altro genere implica un continuo ritorno all’arbitrio. L’essenziale, per il surrealismo, è stato convincersi di aver messo la mano sulla “materia prima” (in senso alchimistico) del linguaggio : da quel momento si sapeva dove prenderla, e va da sé che non importava più riprodurla a sazietà [...] Non si è insistito abbastanza sul senso e sulla portata dell’operazione che tendeva a restituire il linguaggio alla sua vera vita [...] Lo spirito che rende possibile, e anche concepibile tale operazione non è altro se non quello che ha animato in ogni tempo la filosofia occulta, e secondo il quale, dal fatto che l’enunciazione sta all’origine di tutto, consegue che bisogna che il nome, per così dire, germogli, altrimenti è falso.” [Breton 1955]

 

Il libro, che era entrato nel laboratorio dell’alchimista per istruirlo e guidarlo nel lungo, penoso e incerto lavoro di trasformazione dei “metalli”, si è trovato con i surrealisti a costituire il supporto di una nuova sorta di processo alchemico... che è impossibile dire se sia l’ultimo.

 

In generale, e in ambiti come questo in particolare, è inopportuno trarre dei bilanci. Le evidenze, però, non devono essere negate. Fra queste, una sintetizzata in un detto attribuito a Rasis : “Liber aperit librum”... il che, se come è ed è stato, non è argomento di poco conto a favore di chi, magari disperdendo i propri beni e il proprio tempo, mai si è piegato di fronte a un sapere totalizzante.



[1] Si veda anche “L’alchimista” di David Rickaert III (1612-1661).

[2] Come risulta dal Proteo metallico del modenese Fulvio Gherli (Venezia, 1721)  questo sarebbe l’anagramma del nome del nobile pesarese Marchese Francesco Maria Santinelli  (1627-1697), poeta e autore di canzoni e drammi musicali.

[3] R. Steele  1928

[4] Cfr. Chiara Crisciani 1981 p. 127-151.

3 “Il 19 agosto 1610 Galilei riferisce a Keplero della resistenza contro le scoperte che aveva fatto col cannocchiale [...] Keplero sarebbe stato il primo ad avere tanta acutezza e lealtà da prestar fede a queste asserzioni, pur non avendo potuto guardare con uno strumento di ugual valore. I suoi colleghi invece, i filosofi dello Studio padovano, si sarebbero nettamente opposti all’evidenza e avrebbero chiuso gli occhi alla luce della verità (“contra veritatis lucem”) come Odisseo le orecchie alle Sirene. Questa sorta di uomini crederebbe che la filosofia sia un libro come l’Eneide o l’Odissea, e che la verità dovrebbe essere cercata “non nel mondo o nella natura ma nel confronto dei testi (queste le loro parole)”.”  [Hans Blumenberg 1984, p. 69]


 

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