Alchimia :
“dal
latino medievale (sec. 12°), e
questo dall’arabo (san’a)
al-kîmiyâ’ che a sua volta deriva, attraverso il siriaco kîmiyâ,
dal greco tardo khumeia (o khêmeia)”
[Vocabolario della lingua Italiana Treccani]
“La voce khemeia
collegata col nome proprio dell’Egitto, Khemia,
trascrizione dell’egizio kmt, copto
KHMI designante il paese nero,
egizio kmm “essere nero”, alle
origini certo è la base semitica col significato di “ardere” :
accadico qamû (qamû, qmî :
ardere, bruciare, detto del salnitro) ; qummu
“ardere” ; cfr. ebraico kâvâ
“essere arso”, k°vijja
“ustione ; cfr. greco kaiô
“ardo””[G. Semerano 1994 v. II, t. I, p. 321]
In ebraico l’alchimia ha preso il nome di chokhmat
ha-tzeruf :
letteralmente “scienza della trasformazione”. Lo stesso verbo TS-R-PH
denota l’attività di trasposizione delle lettere (permutazione
gematriaca) grazie alla quale una parola può andare incontro a innumerevoli
metamorfosi. Applicando il calcolo gematriaco al termine stesso di TS-R-PH
si ottiene un valore pari a 370, valore identico a quello del verbo SH-L-M che
significa “essere compiuto, terminato” e “vivere in pace, avere pace”. A
questa stessa forma è legato il nome di Salomone, il re di Israele la cui
figura è connessa da significativi legami alla pratica alchemica. Viene
tramandato, infatti, che egli usò il verme Shamir allo scopo di tagliare le
pietre da utilizzare per la costruzione del primo tempio. La tradizione vuole
anche che egli abbia ricevuto la pietra filosofale dalla regina di Saba. Ancor
più significativo, però, è che al suo nome sia associato il nome di quel
sigillo che sarà poi meglio conosciuto come maggen
David o, in Occidente, “Stella di David”. Questa stella a sei punte
è formata dalla sovrapposizione di un triangolo equilatero rovesciato su
un altro, sintetizzando così nella figura ottenuta i simboli dei quattro
elementi : il triangolo con la punta rivolta verso l’alto che rappresenta
il fuoco D
, quello con la punta verso il basso l’acqua
Ñ,
quello del fuoco troncato dalla base di quello dell’acqua che rappresenta
l’aria, mentre quello dell’acqua troncato dalla base di quello del fuoco che
rappresenta la terra. Come ricorda il Dictionnaire des
Symboles di Chevalier e Gheerbrant (t. IV, p. 160)
“Se
si considerano le quattro punte laterali della stella, alle quali si associano
le quattro proprietà fondamentali della materia [da sinistra in alto, in senso orario, rispettivamente : caldo,
secco, freddo, umido ; nda] si
può vedere la manifestazione delle corrispondenze tra i quattro elementi
e le proprietà opposte a due a due. Il fuoco combina il caldo e il
secco, l’acqua l’umido e il freddo, la terra il freddo e il secco, l’aria
l’umido e il caldo. La variazione di queste combinazioni produce la varietà
degli esseri materiali. Il sigillo di Salomone appare allora come la sintesi
degli opposti e l’espressione
dell’unità cosmica”.
Nel
sigillo di Salomone si rappresenterebbe allora la finalità ultima della ricerca
alchemica,
quella che Paracelso (Aureolus Philippus Theophrastus Bombastus von Hohenheim)
nel suo commento alla cosiddetta Rivelazione
di Ermete definisce “la perfetta
equazione degli elementi”. E’ opportuno ricordare, inoltre, che la
tradizione ermetica associa a ognuno dei sei vertici (dall’alto in senso
orario) i metalli di base e i pianeti corrispettivi (argento-Luna, rame-Venere,
mercurio-Mercurio, piombo-Saturno, stagno-Giove, ferro-Marte) riservando a
oro-Sole l’esagono centrale. In questa rappresentazione simbolica si può
anche individuare l’espressione di quelle leggi naturali che fanno sì che la
forma esagonale sia di gran lunga la preferita quando forze diverse cerchino un
equilibrio, una simmetria e dunque un’equa ripartizione del piano o dello
spazio :
“le
simmetrie quadrate ed esagonali si impongono giacché i soli poligoni regolari
che possono ‘riempire’ il piano (senza interstizi) sono il quadrato, il
triangolo equilatero e l’esagono [...] Due poliedri semiregolari permettono
pure la equa ripartizione dello spazio : sono il prisma regolare esagonale
e il semipoliedro (archimedeo) di lord Kelvin (8 facce esagonali, 6 facce
quadrate, 24 vertici, 36 raggi uguali).” [Ghyka 1959: 36, nota 2].
Seguendo
questa interpretazione, si può dire allora che il sole-oro alchemico
rappresenta quello stato della materia in cui giungono a perfetto equilibrio le
diverse e discordanti forze associate a ognuno degli altri metalli, così come
l’esagono centrale del sigillo di Salomone è l’unico “luogo” in cui
possono unirsi e fondersi i sei vertici, l’unico “luogo” in cui, a
completamento dell’Opera, è possibile ripristinare l’equilibrio
dell’Inizio. Del tutto opportunamente in questo esagono centrale viene
talvolta inserito il Tetragramma, il nome dell’Uno che creò la sostanza
basilare, essenziale, dalla quale per via di diversi e molteplici livelli di
degradazione si pervenne al molteplice, il quale a sua volta grazie alle
pratiche della chokhmat ha-tzeruf potrà
essere ricondotto alla perfetta unità originaria.
Questo, per quanto concerne
l’equivalenza del valore gematriaco di TS-R-PH
e SH-L-M, equivalenza che, lo si
ricorda ancora, focalizza l’attenzione sul concetto di condurre a termine un
lavoro, sul suo perfezionamento, sulla riconduzione del molteplice all’unità
e dunque alla pace (ben rappresentata dall’esagono che sintetizza e tiene in
equilibrio le sei punte del sigillo di Salomone).
E’ interessante verificare, a questo punto, se l’applicazione della chokhmat
ha-tzeruf allo tzeruf stesso
faccia scaturire qualche ulteriore suggerimento, se cioè operando delle
permutazioni gematriache sul termine tzeruf
sia possibile individuare in esso informazioni di cui si preferisce forse
evitare l’immediata ostensione.
Grazie alla permutazione ashbar
(prima lettera con la penultima, seconda con la terzultima, ecc.) si ottiene la
parola D-B-H “maldicenza, calunnia”. Si potrebbe trattare di un
monito all’adepto di guardarsi dalle conseguenze dell’ambigua fama
correlata alla sua Arte. Considerando però il verbo da cui questa parola deriva
(D-B-B “insinuarsi, penetrare”),
si può anche pensare a un suggerimento circa la prima fase dell’opus
alchemicum, il solve che
necessariamente prelude al coagula.
Con la permutazione agbad
(prima lettera con la terza, seconda con la quarta...) TS-R-PH
si trasforma in R-T-Q che significa
“legare, incatenare”. Chiara è l’allusione alla fase del coagula.
La permutazione successiva, adbah
(prima lettera con la quarta, seconda con la quinta...) genera SH-‘-R
“lievito”, figura simbolica della “pietra dei filosofi” che
“proiettata” su qualunque elemento, fosse anche il più vile, lo trasforma
in oro. Dom Pernety nel suo Dizionario mito-ermetico ricorda che
“i
Filosofi hanno usato questo termine in due sensi differenti. Il primo, meno
usato, è il senso proprio del lievito che fa fermentare e questo avviene
quando paragonano la loro opera ai metalli ; infatti come il lievito
inacidisce la pasta e la trasforma nella sua natura, allo stesso modo la polvere
di proiezione, che è un vero oro, fa fermentare i metalli imperfetti e li
cambia in oro. Il secondo significato del termine lievito, secondo
Zacharie
va riferito al vero corpo e alla vera materia dell’Opera.” [t. II, p.
137]
Operando la permutazione azbach
(prima lettera con la settima, seconda con l’ottava...) da TS-R-PH
si ottiene B-D-H che significa
“fingere, inventare”, utile consiglio all’adepto di dissimulare la reale
natura del suo operato.
Fin qui le permutazioni del termine hanno dato indicazioni di tipo
operativo, con la permutazione a’baf
(prima lettera con la sedicesima, seconda con la diciassettesima...) si ottiene
invece la forma K-M-I, inesistente in
ebraico ma che, opportunamente vocalizzata, può essere letta KEMI, nome della terra in
cui avrebbe avuto i suoi inizi la pratica alchemica. Uno di quei tanti
“casi” in cui non è difficile imbattersi quando ci si addentra nei
territori dell’esoterismo. I “casi”, però,
possono appartenere a categorie diverse. Lo dimostra l’apparente egittomania
di antichi popoli della Cina meridionale : qui la preparazione di pozioni,
che avrebbero dovuto garantire il benessere o addirittura l’immortalità,
veniva denominata Kim-Iya
dal significato di “Oro-Succo vegetale”. Questa sorprendente omonimia che
echeggiava da migliaia di chilometri a
Oriente non era dovuta al fascino esercitato dalla “nera” terra d’Egitto,
bensì il contrario, o quasi. Sembra infatti che mercanti arabi preislamici lo
trasportarono dalla Cina ad Alessandria : il termine venne traslitterato
come chemeia, ma in realtà
pronunciato “kimiya”
e in seguito sostituito dal termine greco khumeia,
foneticamente molto simile e semanticamente più trasparente.
In questo complesso gioco di echi e di rimandi, che si tratti del cinese
“succo d’oro”, del nostro aurum
potabile o dell’indiano rasa yana
, la finalità ultima, più elevata, è identica : l’ottenimento di
quello tzeruf, di quella
trasformazione che possa ricondurre dal molteplice all’Uno o, se si
preferisce, dal pentacolo al sigillo di Salomone, il primo caratterizzato dal
movimento che è generato dal pentagono, il secondo dal perfetto equilibrio
dell’esagono.
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