Pinocchio, mio Fratello
Trascorsi i primi undici anni della mia vita a Pescia,
praticamente ad un tiro di schioppo da Collodi, e quindi posso dire di aver
respirato l’aria di Pinocchio nel vero senso della parola. Non solo Collodi
era la meta di frequenti passeggiate a piedi, tagliando per il colle e
riscendendo dalla parte opposta con appena un’ora di cammino, ma “Le
avventure di Pinocchio” era allora spesso e volentieri letto nelle scuole
elementari, prima che sedicenti poeti o anonimi cinesi vari infestassero i libri
di testo e le “bibliotechine” di classe.
Anche la vita
quotidiana, e non solo per quel che riguardava la scuola, faceva di questo
personaggio un essere ogni e sempre presente: nei rimproveri dei genitori… “studia
o ti crescono le orecchie lunghe e pelose”, nei consigli di una mamma
premurosa… “…butta giù la medicina sennò vengono i coniglioli neri a
portarti via”, o nelle serate fredde e buie d’inverno… “Sta’
attento col caldano che ti bruci i piedi come Pinocchio”.
Poi gli anni passarono: io venni via da Pescia e mi trasferii a Livorno,
i termosifoni presero il posto dei caldani di brace, inventarono le medicine al
gusto di prugna e ciliegia e se non studiavo l’unica cosa che cresceva erano i
due sulla pagella. Ma Pinocchio, il mio vecchio compagno di birichinate, non mi
aveva abbandonato del tutto: troppo era stato con me, durante le sassaiole sul
greto del fiume, o quando c’era da scaricare qualche vigna, o imbambolati e
senza una lira davanti a una giostra, a sognare il Paese dei Balocchi ed alberi
ridondanti di zecchini d’oro. Troppo lo avevo assimilato per poterlo
dimenticare, e lui me. Purtroppo i fatti della vita ci portarono a un distacco
durato decenni fino a quando, qualche tempo fa, capitandomi per caso un brano di
Giuseppe Prezzolini lessi “…Pinocchio, il più grande capolavoro della
letteratura italiana”. Mi tornò allora presente l’amico burattino e la
voglia di rileggerne le avventure. Andai in libreria e comprai un’edizione
classica che assomigliava al vecchio libro della mia infanzia. Cominciai a
leggerlo quasi con vergogna, nascondendomi alla vista dei miei figli e con
l’intima preoccupazione che non sarei riuscito a portare a termine quella
lettura, così leggera, futile, sciocca…
Non è andata così; anzi le pagine mi scorrevano via ed ogni
tanto mi fermavo a pensare e a rileggere, analizzavo il testo attentamente come
se esso ora mi parlasse in una lingua nuova e mi svelasse cose che, quasi
cinquant’anni prima, non ero riuscito ad afferrare e comprendere… e quando
finalmente, arrivato all’ultimo rigo, ho chiuso il libro, dentro di me ho
pensato “Pinocchio, tu sei mio Fratello”.
Esistono secondo me due chiavi di lettura per “Le avventure di
Pinocchio”: la prima chiamiamola “profana”, nella quale il lettore,
certamente un bambino, prende coscienza di quelle che io definirei
“disavventure”, piuttosto che avventure, del povero burattino di legno. La
seconda è una lettura in chiave massonica dove uno spiccato simbolismo si
integra, pur senza sostituirla, in quella che è la semplice e lineare
narrazione dei fatti. L’appartenenza di Carlo Collodi alla Massoneria, pur non
comprovata da alcun documento ufficiale, è universalmente riconosciuta e i
riferimenti in tal senso sono numerosissimi. Aldo Mola, non massone ma che
comunemente viene definito come lo storico ufficiale della Massoneria italiana,
dà per certa l’appartenenza dello scrittore alla Famiglia Massonica. Alcuni
fatti biografici inoltre sembrano convalidare questa tesi: la fondazione nel
1848 di un periodico liberale intitolato “Il Lampione”, che come ebbe a dire
il Lorenzini stesso doveva “far lume a chi brancolava nelle tenebre”,
la partecipazione alle prime due guerre d’indipendenza, con i volontari
toscani nel ’48 e come volontario arruolato nell’esercito piemontese nel
‘59, e la sua estrema vicinanza ideologica con il Mazzini per la quale egli
stesso si definiva “Mazziniano sfegatato”.
Ma qual era allora l’intenzione primaria del Collodi,
comporre una storia per bambini o uno scritto massonico?
Difficile rispondere, anche perché se si tiene presente la
prima stesura del libro “Storia di un burattino”, che al capitolo XV°,
sui 36 dell’opera definitiva, si concludeva con la morte di Pinocchio
impiccato alla grande quercia, non possiamo parlare né di storia per bambini,
perché essa non è certo divertente né tanto meno didattica nella sua estrema
truculenza; né possiamo vedere in essa un alcunché di esoterismo massonico
perché ne manca la filosofia di fondo. Allora forse la risposta è in quei 20
centesimi a riga che lo scrittore percepiva dall’editore. Ma nel 1881 il
Collodi riprende il suo vecchio scritto, lo cambia e lo amplia portando a
termine quell’opera che tutti conosciamo. C’era stato quindi nell’autore
un ripensamento: da una storiella sterile, cupa, senza speranza, era nata quella
che diventerà nel volgere di pochi anni la storia più famosa del mondo.
Rifacciamoci allora la domanda: Comporre una storia per
bambini o uno scritto massonico? Ritengo vera e naturale la prima delle due
ipotesi, ma altrettanto vero è che egli abbia voluto descrivere e criticare uno
spaccato della società del suo tempo ed è infine naturale il fatto che egli
abbia trasferito nella narrazione della storia quegli elementi simbolici ed
esoterici propri della cultura dell’Istituzione di cui faceva parte, riuscendo
a fondere i due elementi in misura così profonda per cui questi ultimi possono
risultare evidenti solamente a chi, come l’autore, sia stato educato ad un
certo modo di vedere e interpretare le cose. Nel corso degli anni molti critici
hanno dato del romanzo un’interpretazione religiosa in senso cattolico; ultimo
della serie il Cardinale Giacomo Biffi: non mi sembra proprio, almeno che per
religiosità non si intendano quei concetti e quei valori, quali la bontà, la
generosità, il perdono, la famiglia, che sono alla base anche di ogni
istituzione civile. Nel romanzo però non appare nessun personaggio legato al
mondo della religione, e tutti sappiamo quale importanza non solo spirituale ma
anche politica avesse la Chiesa nell’800 e come essa cercasse di influire
sulla cultura e sull’educazione nazionale: sarebbe stato quindi normale che in
una storia che vede per protagonista un burattino-bambino che vive in un paesino
di campagna, si inserisse in qualche modo la figura di un prete, o come minimo
si facesse accenno a qualche attività connessa alla religione praticata: al
contrario, di preti, chiese, immagini sacre, feste, cerimonie e pratiche
religiose, neppure l’ombra, e direi che questo è stato deliberatamente
voluto, anche perché il Lorenzini non era certamente all’oscuro di
manifestazioni e teorie religiose, avendo studiato presso gli Scolopi per
qualche anno.
Analizzando bene tutta la struttura del libro, questa risulta
imperniata su tre componenti fondamentali: la LIBERTA’, perché Pinocchio è
un essere libero che ama la libertà; l’EGUAGLIANZA sia perché l’unica
aspirazione di Pinocchio è di essere simile agli altri sia perché nessun
personaggio prevale sull’altro né per importanza, né per rango o ceto
sociale; la FRATERNITA’, perché questo è il sentimento principale per cui
agiscono i personaggi della storia nelle più disparate situazioni.
Che cos’è quindi “Le avventure di Pinocchio”? Apriamo il
libro ed entriamo in un Tempio Massonico, un Tempio dove sta per svolgersi la
cerimonia più importante della vita massonica, cioè un’Iniziazione,
un’iniziazione completa, cioè nei suoi tre gradi. E chi sta per essere
iniziato? Pinocchio forse? No! …ma procediamo con ordine.
“C’era una volta…” – “un re….” – “no…,
un pezzo di legno!”, o forse sarebbe meglio dire “all’inizio c’è un
Maestro”, Mastro Antonio, detto Maestro Ciliegia che potrebbe essere benissimo
il Maestro Venerabile di questa ipotetica Loggia. Mastro Antonio è un bravo
falegname che si trova tra le mani un pezzo di legno; se fosse stato uno
scalpellino avrebbe avuto certamente a che fare con una pietra. Fatto sta che da
questa “pietra” il nostro Maestro vuole ricavarne qualcosa di buono, anzi di
utile come una zampa di tavolino: e così –dice il Collodi- prese
un’ascia arrotata per cominciare a digrossarlo. Ma il bravo
Maestro falegname si accorge ben presto che quel pezzo di legno, quasi
informe, un semplice pezzo da catasta, non un legno di lusso, ha però in sé
nascosta una qualità eccezionale: è vivo; dovrà quindi servire a qualcosa di
più importante che non diventare una zampa da tavolino o finire addirittura nel
focolare.
“In quel punto fu bussato alla porta” – “Si
bussa da profano alla Porta del Tempio”. Ed ecco entrare il nostro bussante,
Geppetto.
Geppetto è un vecchietto bizzosissimo, facile a diventare subito una
bestia e non c’è più verso di tenerlo, non è che la tolleranza sia il suo
forte ma fondamentalmente è un brav’uomo. A chi meglio di lui potrebbe il
venerabile maestro Antonio affidare l’incarico di digrossare quel pezzo di
legno e farne qualcosa di buono? Ed è così che Geppetto si porta il suo rozzo
pezzo di legno, o se vogliamo la sua pietra grezza, nella sua misera casa che
guarda caso assomiglia molto ad un <gabinetto di riflessione>, “…una
stanzina terrena che pigliava luce da un sottoscala, una seggiola cattiva, un
tavolino tutto rovinato, un fuoco acceso ma dipinto, come dipinta è la pentola
dell’acqua che bolle, come altrettanto dipinto è il fumo che essa manda
fuori. Qui Geppetto compila il suo Testamento: fabbricherò un burattino, lo
voglio chiamar Pinocchio, il nome gli porterà fortuna; ho conosciuto una
famiglia di Pinocchi, tutti se la passavano bene… il più ricco chiedeva
l’elemosina. E, trovato il nome al suo burattino, Geppetto comincia a
lavorare a buono, armato di semplici arnesi e tanta volontà, in mezzo a tanti
dubbi e a tante speranze; passando attraverso varie difficoltà, riesce
finalmente a digrossare il pezzo di legno e a farne un burattino, un burattino
perfetto nel suo essere burattino, ma pur sempre un burattino. Nasce Pinocchio
dunque, un burattino di sani costumi, ma non del tutto formato, e suscettibile
quindi di essere spesso traviato dai richiami allettanti della vita profana. Da
questo momento in poi Geppetto e la sua creatura vivono quasi in simbiosi,
l’artefice si identifica con la sua opera, soffrono l’uno delle sofferenze
dell’altro, gioiscono delle reciproche speranze, affrontano le stesse
traversie, sia pure in modi e luoghi diversi. Nel capitolo VI°, mentre Geppetto
è in prigione, Pinocchio si trova ad affrontare un ventaccio freddo e
strapazzone, una catinellata d’acqua ed infine il fuoco che gli brucerà i
piedi: aria, acqua, fuoco… può essere tutto questo casuale?
Sgrossata la pietra grezza, Geppetto è riuscito a passare
dal primo al secondo grado: ha fatto indubbiamente progressi ma è ancora
lontano dalla perfezione a cui idealmente aspirava; egli comunque non è più il
tipo irascibile descritto nei primi capitoli, così come il burattino abbandona
progressivamente la sua mentalità di rozzo pezzo di legno per assumere, almeno
a sprazzi, larvati comportamenti mentali umani. Con i piedi rifatti, dopo essere
passato attraverso la prova del fuoco, Pinocchio comincia a fare dei
ragionamenti: “Vi prometto, babbo, che anderò a scuola, studierò e mi farò
onore… imparerò un’arte e che sarò la consolazione e il bastone della
vostra vecchiaia”. Come non cedere a simili prospettive? E così Geppetto
pur di vedere la sua opera realizzata, e lui stesso in essa, non esita un attimo
a vendere la vecchia casacca per comprare l’abbecedario, e da questo momento
in poi tutto il succo della vicenda sarà imperniato sulla scuola,
sull’istruzione, sulla maturazione del burattino fino alla completa
trasformazione. Ma quante prove ancora, e tutte imperniate sul trinomio
aria-acqua-fuoco, dovrà egli affrontare?!?! Rischia di essere bruciato nel
barbecue di Mangiafuoco o di essere bruciato dal falò acceso dagli assassini
(Il Gatto e la Volpe), ondeggia al vento impetuoso di tramontana impiccato alla
Grande Quercia, si libra nell’aria a cavalcioni di un colombo, si getta in
mare per raggiungere il babbo, sarà gettato in mare sotto le sembianze di
ciuchino per essere affogato, e poiché attraverso queste prove egli passerà
dopo una qualche malefatta dovuta alle tentazioni della vita profana, esse
assumono una funzione purificatrice ed infatti da ognuna di queste prove egli
uscirà progressivamente sempre più
rafforzato e migliorato.
E la Fatina dai Capelli Turchini? Possibile che di questo
personaggio così importante ci siamo dimenticati fin qui? No assolutamente,
perché pur senza mai nominarla direttamente essa è stata sempre presente; essa
è l’anima della nostra esposizione: essa è la personificazione della
Massoneria, è l’espressione della Ragione: i suoi interventi non sono
ispirati né dalla fede, né dalla speranza né tanto meno dalla carità. Essi
sono improntati al massimo del Razionalismo, una razionalismo esasperato nella
sua semplicità (vedi cap. XXV°). Nella narrazione la Fatina interviene per la
prima volta quando, battendo tre colpi, dà il segno per soccorrere Pinocchio
appeso per il collo alla Grande Quercia: lo accoglie nella sua casa luminosa e
piena di delizie ma prima ha bisogno di tre dottori che le confermino se egli è
vivo o morto. Le diagnosi, sia pur positive nel complesso, lasciano tuttavia
adito a qualche perplessità per cui il burattino deve prendere coscienza di che
cosa vuol dire rimanere a vivere in quella casa: Pinocchio ottiene lo zuccherino
ma subito dopo deve ingerire la medicina amara e di lì a poco la Fatina,
raffigurata in questa prima apparizione come una bambina, dirà a Pinocchio: “Tu
sarai il mio Fratellino…”: è tale la corrispondenza con il rituale di
iniziazione che non è pensabile che questo riferimento da parte del Collodi sia
inconsapevole e casuale.
La seconda volta che Pinocchio incontra la Fatina, questa non
è più bambina ma è diventata donna ed è a lei che Pinocchio esprime per la
prima volta il desiderio di divenire un bambino vero, un uomo. La Fata gli
premette che dovrà superare alcune prove e dovrà soprattutto e prima di tutto
andare a scuola ed imparare; Pinocchio promette, giura e… spergiura.
Effettivamente il comportamento del burattino sembra intraprendere la strada
giusta, tanto che un bel giorno la Fatina gli annuncia che il giorno dopo egli
diventerà un bambino in carne ed ossa: addirittura si prepara la festa e si
fanno gli inviti, ma ancora una volta il mondo profano attrae fatalmente
Pinocchio trasportandolo nel Paese de’ Balocchi. Dopo questa paurosa
esperienza avrà inizio la redenzione e Pinocchio rivedrà solo indirettamente
una terza volta la Fata dai Capelli Turchini ma nelle sembianze di una capretta
che lo assiste e cerca di aiutarlo mentre sta per essere inghiottito dal
pescecane, avviandosi così verso la sua catarsi definitiva.
Entrando nelle
fauci del terrificante pesce, Pinocchio inizia il passaggio al terzo grado, la
morte e la definitiva rinascita. “Pinocchio
–scrive il Collodi- battè un colpo così screanzato da restarne sbalordito
per un quarto d’ora”. Quando ritorna in sé si trova immerso in un buio
così nero e profondo da sembrare entrato in un calamaio pieno d’inchiostro.
Immerso in questa oscurità totale, con il terrore di essere “digerito” dal
pesce, finalmente Pinocchio vede una specie di chiarore, un lumicino, “forse
qualche compagno di sventura che aspetta anche lui di essere digerito…”,
“Voglio andare a trovarlo. Non potrebbe darsi il caso che fosse qualche
vecchio pesce capace di insegnarmi la strada per fuggire?”. E così
Pinocchio si mette a percorrere quella strada indicata dal lumicino e, riporto
testualmente, “più andava avanti, più il chiarore si faceva rilucente e
distinto”. Il burattino arriva finalmente alla fonte di quella luce: è
una candela accesa da Geppetto, raffigurato come un vecchiettino tutto bianco in
condizioni pietose. L’artefice e la sua opera sono di nuovo insieme, uniti e
pronti per vedere finalmente la luce che appare loro sotto forma di un cielo
stellato e un bellissimo lume di luna. Geppetto viene preso a cavalluccio da
Pinocchio e portato in salvo: l’artista torna alla vita per tramite della sua
opera.
Ora il burattino è pronto per diventare uomo; la pietra
grezza è stata completamente digrossata; manca solamente l’ultimo passaggio,
la levigatura. Pinocchio infatti comincia a studiare e lavorare forte per suo
padre e contemporaneamente manda i frutti della sua fatica alla buona Fata che
ha bisogno di lui anzi, per aiutarla, rinuncia a comprarsi un vestito nuovo. E
il momento è arrivato: una mattina Pinocchio apre gli occhi e si accorge di non
essere più un burattino di legno ma un ragazzo; non è più in una capanna
dalle pareti di paglia ma vede una bella camerina ammobiliata e agghindata
con una semplicità quasi elegante; è ricco perché i quaranta soldi
mandati alla Fatina gli sono ritornati sotto forma di quaranta zecchini d’oro:
gli sono stati resi i metalli. Pinocchio corre dal povero babbo nella stanza
accanto e si trova davanti un Geppetto sano e arzillo e di buon umore. E così
il passaggio al Terzo Grado è compiuto, l’iniziazione si è completata.
La scena si chiude nel Tempio con il buon Geppetto che
soddisfatto da una parte contempla Pinocchio divenuto uomo, cioè la pietra ben
squadrata e finalmente levigata, dall’altra osserva il vecchio burattino di
legno, appoggiato, rigirato, con le braccia ciondoloni e le gambe
incrocicchiate. In questo sta l’originalità del romanzo: Pinocchio non ha
subito una metamorfosi, non si è trasformato in “umano”: è nato invece un
nuovo essere ed il burattino è rimasto là quasi a testimoniare un messaggio di
continuità. E’ nell’ultima frase del romanzo, che il Collodi fa dire a
Pinocchio, che si racchiude e si concentra l’orgoglio di essere iniziato
Fratello Libero Muratore: “Com’ero buffo, quando ero un burattino! E come
ora son contento di essere diventato un ragazzino perbene!…”.
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Pinocchio, mon Frère
Renvois et Symbolisme Maçonnique dans
« Les Aventures de Pinocchio »
J’ai vécu mes premiers onze ans à Pescia, un village près
de Collodi et c’est pour cela que je peux dire d’avoir respiré l’air de
Pinocchio, au sens littéral du mot. Collodi n’était pas seulement le lieu de
fréquentes promenades à pieds, faites en parcourant la route la plus brève
qui passe de la colline et en descendant du coté opposé après une heure de
chemin seulement, mais «Les Aventures de Pinocchio» était lu souvent dans les
écoles premières à cette époque-là, avant de l’arrivée de soi-disant poètes
ou de chinois anonymes qui ont envahi les livres de texte et les petites
bibliothèques de classe.
La vie quotidienne aussi, pas seulement pour ce qui concernait l’école,
transformait ce personnage dans un être présent partout et toujours: dans les
blâmes des parents: «Étude ou tes oreilles deviendront longues et
couvertes de poils», dans les conseils d’une mère attentive… « ….avale
ton médicinal ou les lapins noirs viendront t’enlever », ou pendant
les soirées froides et sombres d’hiver… « fais attention à
la brasero ou tu brûleras tes pieds comme Pinocchio ».
Et les années passèrent: je quittai Pescia et j’allai habiter à
Livorno, les thermosiphons remplacèrent les bassinoires, les médicinaux au goût
de prune ou de cerise furent crées et si je n’étudiais pas, la seule chose
qui augmentait était la quantité de mauvaises votations dans le livrette
scolaire. Mais Pinocchio, mon vieux copain de polissonneries, ne m’avait pas
quitte totalement: il avait demeuré avec moi pendant trop de temps, pendant les
batailles avec cailloux au bord de la rivière, ou quand on volait le raisin
dans quelques vignes, ou quand nous demeurions étonnes et sans argent devant un
carrousel, rêvant le Pays de Jouets et des arbres pleins de monnaies d’or.
J’avais trop assimilé Pinocchio pour réussir à l’oublier, et lui réussir
a m’oublier.
Malheureusement, les faits de la vie nous séparèrent pendant plusieurs
dizaines d’années jusqu’à quand, ça ne fait pas longtemps, pendant que je
lisais par hasard récit de Giuseppe Prezzolini, je lis «Pinocchio, le plus
grand chef-d’œuvre de la littérature italienne». Je me rappelai ainsi mon
ami pantin et l’envie de lire de nouveau ses aventures m’assaillit.
J’allai à la librairie et j’achetai une édition classique qui se
rapprochait beaucoup du vieux livre de mon enfance. Je commençai à le lire
presque avec de la honte, en cachette loin de mes fils et avec l’inquiétude
toute personnelle que je ne réussissais pas à terminer cette lecture, si légère,
futile, sotte…
Mais je m’étais trompé: au contraire les pages se déroulaient
vitement et parfois je m’arrêtais à penser et a lire de nouveau,
j’analysais le texte attentivement comme s’il me parlait maintenant d’un
langage nouveau et comme s’il me dévoilait des choses que, presque cinquante
ans avant, je n’avais pas réussi à saisir et comprendre… et quand
finalement arrivé à la dernière ligne, j’ai fermé le livre, dans mon cœur
j’ai pensé : «Pinocchio tu es mon frère».
A mon avis, il y a deux façons pour lire «Les aventures de Pinocchio»:
la première, on peut l’appeler
« profane » dans laquelle le lecteur, certainement un enfant, prend
conscience de celles que j’appellerais « mésaventures » plutôt
qu’aventures, de la pauvre marionnette en bois. La deuxième est une lecture
par un point de vue maçonnique où un fort symbolisme va compléter, sans la
remplacer, la simple et linéaire narration des évènements.
L’appartenance de Carlo Collodi a la Maçonnerie,
même si elle n’est pas codifiée par aucun document officiel, est
universellement reconnue et les renvois à elle son très nombreux. Aldo Mola,
non maçon mais qui généralement est défini comme l’historien officiel de
la maçonnerie, exprime sa certitude a propos de l’appartenance de l’écrivain
a la Famille Maçonnique. Même des évènements biographiques semblent
confirmer cette thèse: la création en 1848 d’un journal périodique intitule
« Il Lampione » (Le Fanal), qui comme le disait Lorenzini, devait «illuminer
tous ceux qui tâtonnaient dans les ténèbres» ; la participation aux
premières deux guerres d’indépendance à coté des volontaires toscanes en
1848 et en qualité de volontaire dans l’armée piémontaise en 1859; son extrême
proximité idéologique à Mazzini, proximité qui le poussait à se définir «disciple
passionné de Mazzini».
Mais alors, quelle était le projet primitif de Collodi, composer une
histoire pour les enfants ou un texte maçonnique ?
C’est difficile répondre, même parce que si l’on pense à la première
rédaction du livre «Histoire d’une marionnette», qui au chapitre XVmme,
rapprochée des trente six chapitres de l’œuvre définitive, terminait par la
mort de Pinocchio pendu au Grande Chêne, nous ne pouvons pas parler
d’histoire pour enfants du moment qu’elle n’est pas amusant ni didactique
pour son extrême cruauté; et nous ne pouvons pas trouver en elle aucun élément
de l’ésotérisme maçonnique parce-qu’il lui manque la philosophie de base.
Peut-être, la réponse se trouve dans le vingt centimes par ligne que l’écrivain
gagnait par l’éditeur.
Mais en 1881 Collodi prend de nouveau son vieux test, il lui fait des
changements et l’agrandit en finissant cette œuvre que tout le monde connaît.
L’auteur avait changé donc son but: d’une petite histoire stérile, sombre,
sans espoir était née celle qui deviendra dans quelques années l’histoire
la plus célèbre du monde.
Nous posons alors la question encore une fois: composer une histoire pour
enfants ou un écrit maçonnique ?
Je considère la première des deux hypothèses vraie et naturelle, mais
il est vrai aussi que l’auteur a voulu décrire et critiquer une image de la
société de son époque. Enfin il est naturel qu’il ait transfère dans la
narration de l’histoire ces éléments symboliques et ésotériques de la
culture de l’Institution dont il était membre, en réussissant ainsi à mêler
les deux éléments d’une façon si profond que ces derniers ne peuvent être
évidents que pour les lecteurs qui, comme l’auteur, ont été entraînes à
concevoir et à interpréter les choses d’un certain point de vue. Pendant
plusieurs années beaucoup de critiques on donné au roman une interprétation
religieuse au sens catholique: le dernier de cette série de critiques est le
Cardinal Giacomo Biffi : il ne me semble pas du tout, à moins qu’on
considère comme religiosité ces concepts et ces valeurs telles que la bonté,
la générosité, le pardon, la famille qui sont même à la base de toutes les
institutions civiles. Dans le roman il n’y a aucun personnage lié au monde de
la religion, et nous tous nous savons quelle était l’importance, pas
spirituelle seulement mais politique aussi, de l’Eglise au XIXeme siècle et
combien elle essayait d’influencer la culture et l’éducation nationale:
donc il aurait été normal dans une histoire qui a comme protagoniste un
enfant-marionnette qui habite dans un petit village de campagne, qu’il y avait
été de quelques façons un prêtre, ou au minimum l’allusion à quelques
activités liées à la religion professée: au contraire il n’y a aucune
allusion aux prêtres, aux églises, aux images sacrées, au fêtés, cérémonies
et pratiques religieuses, et je dirais que cela a été expressément voulu, même
parce que Lorenzini connaissait les manifestations et les théories religieuses,
du moment qu’il avait étudie chez les Scolopes pendant quelques années.
En analysant bien toute la
structure du livre, elle résulte construite sur trois éléments fondamentaux:
la LIBERTÉ, parce que Pinocchio est un être libre qui aime la liberté; l’ÉGALITÉ,
parce que la seule aspiration de Pinocchio est celle d’être égal aux autres
et parce que aucun personnage est supérieur aux autres ni pour importance, ni
pour niveau social; la FRATERNITÉ parce que ce dernier est le sentiment
principal qui fait agir les personnages dans les situations les plus différentes.
Qu’est ce-que c’est donc «Les
aventures de Pinocchio»?
Ouvrions le livre et entrons
dans… un Temple Maçonnique, un Temple où on va célébrer la cérémonie la
plus important de la vie maçonnique, c’est à dire une Initiation, une
Initiation complète dans ses trois degré. Et qui va être initie? Peut-être
Pinocchio? Non, mais avançons…
« Il y avait une fois… »
- « Un roi… ? » - « Non !… un morceau de bois ?! »
ou peut être il voudrait mieux dire «Au début il y a un Maître». Maître
Antoine, dit Maître Cerise qui pourrait être le Maître Vénérable de cette
hypothétique Loge.
Maître Antoine est un menuisier
habile qui a entre ses mains un morceau de bois: s’il avait été un tailleur
de pierre il aurait certainement eu à travailler avec une pierre. Et de cette
«pierre» ce Maître veut en tirer quelque chose bien faite, ou mieux, utile
comme le pied d’une table : «Aussitôt dit –dit Collodi- il
prit immédiatement sa ache la mieux aiguisée pour commencer à enlever l’écorce
du bois et à le dégrossir».
Mais l’habile Maître menuisier s’aperçoit bien tôt que
ce morceau de bois presque sans forme, un simple morceau de tas, pas un
bois de lux, a une qualité exceptionnelle cachée en lui-même: il est
vivant, donc il devra être employé pour devenir quelque chose plus importante
qu’un pied de table ou, pis encore, terminer dans une cheminée.
«A cet instant, on frappa à
la porte», «On frappe en profane à la Porte du Temple», et voilà
l’homme frappant, le candidat, qui entre, Geppetto.
Geppetto est un vieillot très
quinteux, prêt à devenir soudainement une bête et il n’y a aucune façon de
le retenir, la tolérance n’est pas sa qualité principale mais au fond il est
un bon homme. A qui, mieux qu’à lui, pourrait le Vénérable Maître Antoine
donner la tache de dégrossir ce morceau de bois et un faire quelque chose de
valable? Et ainsi Geppetto emporte son brut morceau de bois ou disons sa pierre
brute, dans sa maison pauvre qui par hasard se rapproche beaucoup d’un cabinet
de réflexion, «…une petit pièce au rez-de-chaussée où la lumière
n’entrait que par une soupente, une méchante chaise, une petite table tout abîmée,
un feu allume mais peint, comme le pot de l’eau qui bouille, comme la fumée
que ce pot jette au dehors».
Ici Geppetto écrit son
Testament : « Je construirait un pantin en bois, je
veux l’appeler Pinocchio, ce nom lui portera chance ; j’ai connu toute
une famille de Pinocchi,… tous menaient la bonne vie… le plus riche
d’entre eux était mendiant».
Et, après avoir trouvé le nome
à son pantin, Geppetto commence travailler… armé de simples outils et de
beaucoup de volonté, parmi beaucoup de doutes et d’espérances; en passant à
travers plusieurs difficultés, il réussit finalement à dégrossir le morceau
de bois et en faire un pantin, un pantin parfait dan son être pantin, mais
cependant, toujours un pantin.
Donc Pinocchio naît, un pantin
aux mœurs droites, mais pas complètement formé, et à cause de ça,
susceptible d’être souvent fourvoyé par les appâts charmantes de la vie
profane. Depuis ce moment, Geppetto et sa créature vivent presque en symbiose,
l’auteur s’identifie avec son œuvre, l’un souffre des souffrances de
l’autre, ils jouissent des espérances réciproques, ils luttent contre les mêmes
péripéties, même si en lieux et de façons différentes. Au chapitre VI,
pendant que Geppetto est en prison, Pinocchio doit braver un fort vent froid et
violent, une pleine cuvette et à la fin le feu qui brûlera ses pieds :
air, eau, feu… peut tout ça être casuel ?
Apres avoir dégrossi la pierre brute, Geppetto a réussi à
passer du premier au deuxième degré: il a certainement fait des progrès mais
il est encore loin de la perfection à laquelle idéalement il aspirait;
cependant il n’est plus l’homme irascible décrit dans le premiers chapitre
et le pantin quitte de plus en plus mentalité de brut morceau de bois pour
prendre au moins parfois des comportements mentaux humains ébauches. Les pieds
faits à nouveau après avoir dépasse l’épreuve du feu, Pinocchio commence
à faire des raisonnements: «Je vous promets, papa, que j’irai à l’école,
j’étudierai et je gagnerai de l’honneur… J’apprendrai un métier qui
fera de moi la consolation et le soutien de votre vieillesse». Comment ne
pas céder à des perspectives pareilles? Ainsi Geppetto afin de voir son œuvre
réalisée, et lui-même en elle, ne hésite pas un moment à vendre la vieille
casaque pour acheter l’abécédaire, et depuis ce moment-la tout le sens de
l’histoire se fondera sur l’école, sur la maturation de pantin jusqu’à
sa complète transformation. Mais combien d’épreuves fondées sur le trinôme
air-eau-feu devra-t-il encore braver?!?!
Il risque d’être brûlé dans
le barbecue de Mangefeu ou d’être brûle par le feu allumé par les tueurs
(le Chat e le Renard), il flotte au vent impétueux de tramontane pendu au Grand
Chêne, se balance à califourchon d’un pigeon, se plonge dans la mer pour
atteindre son père, il sera jeté dans la mer sous les apparences d’un petit
âne pour être noyé, et puisque il dépassera ces épreuves après quelques
fautes dues aux appâts de la vie profane, ces épreuves prennent une fonction
de purification et en effet Pinocchio sortira de chacune de ces épreuves de
plus en plus fortifié et amélioré.
Et la Petite Fée aux Cheveux
Azurs ? Est-il possible que nous avions oublié jusqu’à ici ce
personnage si important ? Pas du tout, parce que même si toujours présent
elle est l’âme de notre exposition : elle est la personnification de la
Maçonnerie, l’expression de la Raison: ses intervention ne sont inspirées ni
par la foi ni par l’espoir, ni par la charité. Elles sont inspirées au
maximum du Rationalisme, un rationalisme exaspère dans sa simplicité. (voir
capt XXV).
Dans la narration la Petite Fée
intervient pour la première fois quand, en frappant trois coups, elle donne le
signal pour secourir Pinocchio pendu par le cou au Grand chêne : elle le
reçoit dans sa maison lumineuse et pleine de délices mais d’abord elle a
besoin de consulter trois médecins qui lui disent s’il est vivant ou mort.
Les diagnostics, même si généralement positifs, se prêtent à quelques
perplexités et pour cela le pantin doit comprendre ce que demeurer dans cette
maison signifie : Pinocchio reçoit le bonbon mais après ça il doit
avaler le médicinal amer et dans un bref délai, la Petite Fée, présentée
dans cette première apparition comme une enfante, dira à Pinocchio: «Tu
seras mon petit Frère…»: la correspondance avec le rituel d’initiation
est si évidente qu’on ne peut pas croire que cette allusion de Collodi soit
inconsciente et casuelle.
La deuxième fois que Pinocchio
rencontre la petit Fée, elle n’est plus une enfante mais elle est devenue une
femme et Pinocchio lui avoue pour la première fois son désir de devenir un
vrai enfant, un homme.
La Petite Fée lui annonce
qu’il devra dépasser quelques épreuves et il devra surtout et avant tout
aller à l’école et apprendre; Pinocchio promit, jure et… se parjure.
Effectivement le comportement du
pantin semble prendre une direction si correcte qu’un jour la Petite Fée lui
annonce que le jour après il deviendra un vrai enfant, en chair et os: en plus,
on organise la fête et on fait les invitations, mais encore une fois le monde
profane charme fatalement Pinocchio en le traînant dans le Pays des Jouets.
Dépassée cette épouvantable
expérience, la rédemption commencera et Pinocchio ne verra qu’indirectement
la Petite Fée une troisième fois mais sous les apparences d’une jeune chèvre
qui l’assiste et qui cherche à lui donner son aide quand il va être englouti
par le requin, en marchant ainsi envers sa définitive catharsis.
En entrant dans le gosier de l’épouvantable
poisson, Pinocchio commence le passage au troisième degré, la mort et la définitive
renaissance. «Pinocchio -écrit Collodi- frappa un coup si fort
d’en demeurer étourdi pour un quart d’heure». Quand il redevient
conscient, il se trouve plongé dans des ténèbres si noires et profondes
qu’il semble entré dans un encrier plein d’encre.
Plonge dans cette obscurité
totale, la terreur d’être digère par le poisson dans son âme, finalement
Pinocchio voit une sorte d’éclairage, une petite lumière, «peut-être
quelques copains de mésaventures qui attend, lui aussi, d’être digère… Je
veux aller lui rendre visite. Ne pourrait-il passe être un vieux poisson
capable de m’indiquer la voie de fuite ?». Ainsi Pinocchio commence
à parcourir la voie indiquée par la faible lumière et, je le transcris
textuellement, «Et plus il avançait, plus la lueur se faisait vive et nette».
Le pantin arrive finalement à la
source de cette lumière: c’est une chandelle allumée par Geppetto, représente
comme un vieillot tout blanc en conditions misérables.
L’auteur et son œuvre sont
ensemble de nouveau, unis et prêts à voir finalement la Lumière qui leur
apparaît sous le apparences d’un ciel plein d’étoiles e d’un merveilleux
clair de lune. Pinocchio prend Geppetto sur son dos et l’emporte en lieu de sûreté :
L’artiste revient à la vie grâce à son œuvre.
Abouti à ce point, le pantin est
prêt à devenir un homme : la pierre brute a été complètement dégrossie:
il n’y a que le dernier passage à faire : la polissure.
En effet Pinocchio commence à étudier et à travailler
beaucoup pour son père et au même temps il envoie les résultats de son
travail à la bonne Fée qui a besoin de lui et pour l’aider, il renonce à
acheter un vêtement nouveau pour lui-même.
Et le moment est arrivé: un
matin Pinocchio ouvre ses yeux et il s’aperçoit de ne plus être un pantin
mais d’être un garçon; il s’aperçoit de ne plus être dans une chaumière
aux murs en paille mais il voit «une belle chambre meublée et décorée
avec une simplicité presque élégante»; il est riche parce que le
quarante monnaies envoyées à la Petite Fée ont été lui retournées sous
forme de quarante écus d’or: on a lui retourné les métaux.
Pinocchio cour chez son pauvre père
dans la pièce à côté de la sienne et il rencontre Geppetto sain, plein d’énergie
et joyeux. Ainsi le passage au Troisième Degré a été fait, l’initiation a
été complétée.
La scène termine dans le Temple
avec le bon Geppetto qui, satisfait , observe d’un côté Pinocchio devenu un
homme, c’est à dire la Pierre bien taillée et finalement polie; de l’autre
côté, le vieux pantin en bois, appuyé, la tête tombante d’un côté, les
bras ballants et les jambes croisées. En tout ça on trouve l’originalité du
roman : Pinocchio n’a pas eu une métamorphose, il ne s’est pas
transformé en « humain »: par contre, un nouveau être est né et
le pantin demeure là-bas presque à témoigner un message de continuité.
Dans la dernière phrase du roman
que Collodi fait prononcer a Pinocchio on retrouve concentré l’orgueil d’être
initie Frère Libre Maçon: «Comme j’étais ridicule, quand j’étais un
pantin ! Et comme je suis heureux d’être devenu un bon petit garçon!».
Translated to French
by M.lle Cristina Mara
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