Tutti noi abbiamo dato vita da tempo a questa sfida. La Morte ci concede il
privilegio della prima mossa. Il riverente terrore che le permettiamo di
incuterci, ci vede irrimediabilmente perdenti ancor prima che la partita si
concluda. La parola morte, la fonetica stessa di quel sostantivo, ci induce a
prostrarci davanti a lei, ad arrenderci ancor prima che il suo alito ci abbia
sfiorati. Il pensiero della morte ha il potere di annichilirci, di raggelarci.
In quelle case dove la nera parca ha falciato il fieno, i suoni sembrano
attutiti, soffocati. Tutto è sommesso. L’olfatto percepisce l’odore acre
del suo passaggio. Ai bimbi è vietato giocare, sorridere. Gli adulti hanno gli
occhi infossati dal dolore, arrossati dal pianto. Tutto è gelo, cambiano i
sapori delle pietanze: al palato ricordano il profumo dei crisantemi, l’odore
della terra fradicia appena smossa. Terra nera, che sa di dolciastro,
ammucchiata ai lati di una fossa ancora vuota. Uno spazio angusto che presto sarà
colmato. Anche i colori dei fiori più belli, in quei giorni, sembrano spenti.
Il Sole non riscalda i cuori di coloro che la morte ha privato degli affetti più
cari.
Scheletro e falce
Vita e Morte camminano fianco a fianco. Ci accompagnano, mano nella mano,
sulla sottile linea del destino. Alla vita ci si affida con totale fiducia,
certi della promessa del domani. Alla morte questa fiducia viene negata. Il suo
«domani », il dopo, è incerto. Siamo portati a considerare la promessa di una
esistenza ultraterrena, da viversi in una dimensione spirituale, troppo labile
per affidarci serenamente alla morte. Il «fiume» che ci apprestiamo ad
attraversare è troppo impetuoso, l’altra sponda è nascosta dalle brume,
l’ignoto ci terrorizza. Ma se avessimo la certezza che su quella sponda
potremo proseguire nel nostro cammino, la morte non ci farebbe più paura.
Nell’iconografia, la Morte, è stata rappresentata come figura implacabile,
dall’aspetto diabolico, paralizzante. Nell’infanzia ebbi modo di farmene
un’immagine ben connotata. L’avevo vista raffigurata in un affresco: uno
scheletro che cavalcava con fierezza uno spettrale destriero nero. In una mano,
la Morte brandiva la falce, nell’altra una clessidra. Lo sguardo, seppur
spento nelle vuote occhiaie, aveva una strana espressione: la mascella,
semiaperta, scopriva una dentatura tormentata, giallastra. La Morte sogghignava.
Sullo sfondo, le torri in fiamme di un castello. Era passata seminando la
disperazione. La stessa che provai quando si prese mio padre. La Morte era
entrata nel mio immaginario: un vento gelido, un sussurro che udivo nelle notti
insonni, quando mi nascondevo sotto le coltri per non udire scalpitare quel
cavallo nero. Poi si manifestò ancora. Lo faceva continuamente. E il rito si
ripeteva: la visita al defunto, le stesse lugubri atmosfere, gli stessi odori,
lo stesso gelo che avvolgeva tutto e tutti. Con l’adolescenza quella tetra
immagine andò sbiadendo. A quell’età la Morte non ci spaventava. Eppure non
mancavano messi da falciare. Noi sognavamo la vita e il nostro domani era tinto
a colori sgargianti. Quando la morte si manifestava, era un fatto che riguardava
gli altri. A volte lo faceva in maniera plateale. Si abbatteva all’improvviso
su uomini e cose. Ciò avveniva in paesi lontani. A volte la incrociavamo sulle
strade, durante le nostre scorribande in automobile. Lei era già passata. Unica
traccia: le lamiere contorte di una vettura accartocciata. Come in un messaggio
subliminale, lei ci appariva per una frazione di secondo, forse a ricordarci che
non si era certamente dimenticata di noi e che non ce lo dovevamo scordare. Ma
la linfa che scorreva come fuoco nelle nostre giovani vene aveva il sopravvento.
Quell’immagine si dissolveva. Ci si rifiutava di pensarci. Rifiutavamo il
concetto stesso di morte, fine di tutte le cose. Ci sentivamo eterni, immuni, al
riparo da quel possibile incontro. Ci apprestavamo a far parte di una società
che pronunzia la parola morte sottovoce, evitando il più possibile di parlarne.
Ignorare la morte
La Morte ci cammina a fianco e facciamo finta di ignorarla. Giornali, radio,
televisione ci rammentano quotidianamente questa sua presenza. Da tempo
immemorabile ci si batte per sconfiggerla. E’ una battaglia che combattiamo
con le armi che ci vengono messe a disposizione dalla scienza, dalle nuove
tecnologie. Curiamo in maniera quasi maniacale la nostra salute. Siamo
costantemente alla ricerca dell’elisir di lunga vita. Lo scopo è quello di
rimandare il più tardi possibile l’incontro con la vecchia Signora, con
l’intento di escluderlo in maniera definitiva, tanto ci terrorizza. E allora
evitiamo di parlarne, partecipando solo marginalmente al lutto altrui. A volte,
disertando le esequie, ci illudiamo di poter esorcizzare la morte. Meno se ne
parla, meglio è. Un’improvvisa dipartita, un lutto che colpisce amici,
conoscenti, è qualcosa che cerchiamo immediatamente di cancellare dalla nostra
mente. In questa società non c’è posto per la «cultura della Morte». Dice
bene il Bianconi: «La civiltà della fretta, della tecnologia avanzata, del
computer, teme la Morte in maniera incredibile. Paura per questo momento che
tutti vogliamo il più lontano possibile c’è sempre stata, da Adamo in poi.
Ma adesso c’è il terrore. Una volta, nemmeno troppi decenni fa, il tempo
scandiva meglio il ritmo delle stagioni e anche la Morte era un’immagine meno
spettrale. Oggi, guai! È subito incubo. Si sta rapidamente allentando, dove
pure non è già sparito del tutto, quel senso di compartecipazione, di
solidarietà e condivisione che un tempo univa tutte le contrade colpite da un
lutto, l’intero paese e anche una valle.»
Oggi si muore in maniera asettica. Il trapasso, sempre più spesso, avviene
fuori dalle mura domestiche, a volte senza il conforto dei propri familiari. La
morte è un’ospite che può renderci visita all’improvviso. Per questo le si
chiede la più assoluta discrezione. A volte si muore senza che nessuno se ne
accorga, nemmeno coloro che abitano alla porta accanto. Appena scoperto il
decesso bisogna cancellarne ogni traccia, come se la morte fosse un fatto di cui
vergognarsi, un esecrabile accadimento che bisogna nascondere ad ogni costo; un
fatto innaturale.
Proiezione verso la Luce
La morte è innaturale solo se la si considera la fine assoluta di tutte le
cose, di ciò che è positivo, vivo: un essere umano, un animale, una pianta,
una relazione, un periodo, un’epoca. Noi consideriamo la morte come il simbolo
distruttore dell’esistenza. Sforziamoci di pensarla invece come vettore capace
di proiettarci in un’altra dimensione, dove, abbandonato l’involucro
corporale, lo spirito possa librarsi libero e vivere un’esistenza forse
migliore di quella che ci siamo lasciati alle spalle. Dovremmo considerare la
vita terrena come il preludio di un grande viaggio, una lunga navigazione che ci
permetterà di uscire dalle dimensioni cosmiche, alla ricerca dell’immortalità,
isola in un mare di Luce.
La Morte è detta «la Regina del terrore». Così la definisce Dion Fortune
nel suo saggio «Attraverso i cancelli della Morte». «In essa - scrive
l’autrice - consiste la punizione suprema con cui la legge punisce chi viola
le sue regole. Cos’è dunque che rende un processo naturale così terribile?
È forse la paura del dolore? No, non è questo, perché la scienza dispone di
sostanze in grado di alleviare le nostre sofferenze. La maggior parte dei
moribondi è serena nel momento del trapasso e solo pochi lo affrontano lottando.
Cosa temiamo dunque nella morte perché essa sia per noi causa di dolore e paura?
In primo luogo temiamo l’Ignoto. Come seconda cosa paventiamo la separazione
dalle persone che amiamo.»
Se la nostra civiltà considera ancora la morte come un tabù, nel passato,
l’approccio con essa era di tutt’altra natura. A testimonianza di ciò, i
testi che ci sono stati tramandati: il Libro dei morti egiziano e quello
tibetano. Il primo precede di oltre tremila anni il Bardo Thödol. (Bardo
significa: «post morte» o «stato intermedio dopo la morte». Thödol: «liberazione
mediante lo studio, ascolto, meditazione».)
«Fra i popoli dell’antichità - scrive Gregorio Kolpaktchy - nessuno ha
manifestato per il mistero della morte un interesse così appassionato e così
esclusivo come il popolo egiziano. Assorto nella ricerca della soluzione di
questo assillante quesito, fin dagli albori della sua civilizzazione, l’antico
Egitto organizzò tutta la sua vita politica, sociale e religiosa in funzione di
questo problema; possedendo una tradizione esoterica risalente ad epoca
immemorabile e disponendo di numerosi e ben organizzati centri iniziatici,
credette poter dominare la stessa morte».
Per l’antico egizio la morte non era l’ultima tappa, la fine del viaggio,
ma bensì la continuazione dell’essere intelligente. La teogonia egizia ha
fatto della morte il tema stesso della vita. Il Libro tibetano dei morti ha
origine dalle comunità buddiste grazie all’esperienza di alcuni Lama che in
maniera diversa dagli Yogi indiani, hanno saputo plasmare la loro mente
portandola ad uno stato di coscienza atto a sfatare, cancellandole, tutte le
illusioni del post morte. Questo testo prepara i vivi al dopo morte,
razionalizzandone il concetto. I tibetani definiscono «stati» di post morte
anche altri momenti dell’uomo: la concezione, il sogno, e lo stato di profonda
meditazione. «Dimmi quali sono i tuoi pensieri e ti dirò quali mostri, luci o
tenebre vedrai e incontrerai nel post morte». L’anima, dopo il passaggio,
ritrova la somma di tutti i pensieri espressi durante la vita. «Secondo il
Bardo Thödol, - scrive Guglielmo Marino, autore del volume «L’uomo muore
perché è immortale» - ogni immagine che il defunto incontra nel suo post
morte è frutto di allucinazione della sua stessa mente, cioè un inganno della
propria mente. L’allucinazione consiste nel fatto che il defunto, pur essendo
già morto, persiste a credersi ancora in vita, non riuscendo a rendersi conto
del suo trapasso in un altra dimensione». «La morte - sostengono i mistici -
ha un valore psicologico: libera le forze oscure, negative e regressive,
dematerializza e libera le forze ascensionali dello spirito. Se la Morte è
figlia della notte e sorella del sonno, possiede - come sua madre e suo fratello
- il potere di rigenerare»
Nell’Antico Egitto era profondamente radicata la convinzione che l’uomo,
nascendo sulla Terra, moriva per il mondo dell’Aldilà. Le potenzialità
sovrumane di cui era dotato, subivano una specie di battuta d’arresto. Per
rigenerarsi era necessaria una nuova nascita, che poteva avvenire solo con la
morte terrestre. Ciò equivaleva alla rinascita dello spirito, al
ringiovanimento dell’Ego profondo. Il defunto diveniva allora un nuovo nato
nella «piena Luce del Giorno». Per l’iniziato egiziano la morte fisica non
era altro che la logica metamorfosi della coscienza. L’anima varcava la soglia
e iniziava il cammino dell’evoluzione per penetrare nei Mondi dell’Aldilà.
Nel mito di Osiride gli egiziani vedevano il pegno di una vita eterna, aldilà
della morte. Credevano che l’uomo sarebbe vissuto eternamente nell’altro
mondo se i suoi cari avessero fatto per il suo cadavere quello che gli dèi
avevano fatto per il cadavere di Osiride.
Rito d’iniziazione
Noi, seppur inconsciamente, facciamo le stesse cose, con analoghi intenti.
Ricomponiamo i nostri morti. Celebriamo le esequie con un riguardo particolare,
tenendo sempre ben presenti le abitudini, i gusti, le preferenze di coloro che
ci hanno lasciati. Da qualche parte, anche se celata negli angoli più profondi
del nostro subcosciente, non c’è forse la speranza che tutto ciò serva a
facilitare «il passaggio», a favorire la «metamorfosi» di quel corpo che
stiamo per seppellire o affidare alle fiamme? E non ci siamo mai domandati, in
quelle circostanze, se è mai possibile che tutto finisca li, sotto qualche
metro di terra o in una manciata di cenere?
Per poterci rigenerare, dobbiamo compiere il «rito di iniziazione». Con la
morte ci si libera di tutto ciò che è terreno, comprese le pene e le
preoccupazioni che la vita terrena comporta. Abbandonato questo stato di «imperfezione»,
s’inizia un processo di rinnovamento, al quale possiamo accedere solo se
iniziati. Dobbiamo permettere che la metamorfosi si compia. L’iniziazione
consiste nella accettazione della morte come «rito di passaggio». Dobbiamo
abbandonare l’involucro (vita profana) per accedere ad una dimensione totale
di Luce; dobbiamo levarci la benda. Facciamo nostre le parole di Wirth: «Il
profano deve morire per rinascere alla vita superiore.» Nel suo racconto «Rivelazione
magnetica», E. A. Poe chiede al suo immaginario interlocutore, il signor
Vankirk: «l’uomo potrà mai ripudiare il corpo?» E Vankirk risponde: «Vi
sono due corpi: quello rudimentale e quello completo, corrispondenti alle due
condizioni del bruco e della farfalla. Ciò che noi chiamiamo morte non è che
la dolorosa metamorfosi. La nostra incarnazione presente è progressiva,
preparatoria, temporanea. L’incarnazione futura è perfezionata, ultima,
immortale. La vita ultima è lo scopo supremo.» Questo passaggio tratto dai «Racconti
straordinari» dello scrittore statunitense, ci porta di riflesso al simbolismo
della crisalide e della trasformazione. Ci torna quindi naturale accostarlo alla
camera segreta, al gabinetto di riflessione, da dove s’inizia la metamorfosi
che dal buio ci porta alla Luce. La crisalide non è solamente l’involucro (il
corpo) protettore, ma bensì uno stato transitorio fra due momenti del divenire.
Essa comporta la rinunzia del passato (la materia) per la conquista di uno nuovo
stato (lo spirito).
Simbologie
La Morte ha i suoi emissari: sono i simboli e i colori che la rappresentano.
La falce, che appare nelle mani dello scheletro: strumento inesorabile che ci
rende tutti uguali. La clessidra, che ci ricorda l’inesorabile trascorrere del
tempo e che soprattutto non è eterno. Il colore nero, per noi occidentali segno
inequivocabile di lutti e sciagure. Nella XIII lama questi simboli e colori
assumono tutt’altro aspetto e sono estremamente significativi, eloquenti:
rappresentano la morte come passaggio obbligato per rinascere a nuova vita. In
questo caso la morte va interpretata come «iniziatica ». Essa falcia il
paesaggio di una realtà che è solo apparente, falsata. La lama della falce è
rossa, il paesaggio è tinto di nero. Quindi la falce come forza vitale, la
vittima il nulla. L’arcano XIII prepara alla vita reale. Il nero e il rosso.
Il primo, capace di assorbire tutte le radiazioni, non restituisce la luce.
Evoca il caos, il cielo notturno, le tenebre terrestri della notte, il male, la
tristezza le angosce, le paure, l’incoscienza, il nulla (realtà solo
apparente). Il rosso (la falce) è il colore del fuoco e del sangue e da molte
civiltà e popoli è stato considerato il principio della vita. La morte
iniziatica come prefigurazione della morte fisica, dev’essere intesa come
rituale per accedere a una nuova vita. Citiamo San Paolo: (I Corinzi, Il corpo
dei risorti 36, 37) «Nessun seme rivive se prima non muore. E il seme che metti
in terra, quello di grano o di qualche altra pianta, è soltanto un seme nudo,
non la pianta che nascerà. Dio gli darà poi la forma che vuole, e a ogni seme
corrisponderà una pianta». Prima della morte reale, grazie alla morte
iniziatica che San Paolo ci invita costantemente a ripetere, l’uomo costruisce
il suo corpo glorioso penetrando - tramite la grazia e pur continuando a vivere
nel mondo profano - nell’eternità. L’immortalità non segue la morte, non
appartiene alla condizione post mortem, bensì si costruisce ed è il frutto
della morte iniziatica. Ancora dalla prima lettera ai Corinzi (45, 46 e 50): «Così
dice la Bibbia: il primo uomo è stato fatto creatura vivente, ma l’ultimo
Adamo, Cristo, è stato fatto Spirito che dà vita. Ma non viene prima ciò che
è spirituale, prima viene ciò che è materiale. Quel che è spirituale viene
dopo. Ecco, fratelli, quel che voglio dire: il nostro corpo fatto di carne e di
sangue non può far parte del regno di Dio, e quel che muore non può
partecipare all’immortalità.»
Iconograficamente, la Morte, è da sempre stata personificata da uno
scheletro. In alchimia esso è il simbolo del nero, della decomposizione. Ma
colore e degenerazione della materia sono il principio della trasmutazione. In
questo caso lo scheletro non rappresenta più una morte statica, uno stato
irreversibile, ma una morte che diventa strumento per una nuova vita. Una morte
mistica, iniziatica che simbolizza la putrefazione della materia, passo
obbligato per accedere alla rinascita. Quelle che vengono definite «religioni
misteriche», testimoniano di questa speranza, la rinascita. Ed infatti, i riti
di iniziazione ai grandi misteri (Elèusi, Cibele, Mitra) erano, senza dubbio,
simbolo di resurrezione di un ritorno alla vita attesa dagli iniziati. «La
Morte, così poetica perché mette capo alle cose immortali, così misteriosa a
motivo del suo silenzio» (Collin de Plancy «Dizionario Infernale»).
Nel vasto repertorio del simbolismo, non mancano di certo segni che ci
inducono a considerare la Morte «poetica» e «iniziatrice» di una nuova
esistenza. La spirale, ad esempio, che ritroviamo riprodotta in tutte le
culture, è uno dei simboli indicanti il viaggio dell’anima dopo la morte. In
America, in Asia e Polinesia, le civiltà primitive vedevano rappresentate nella
spirale le varie fasi del viaggio che l’anima del defunto doveva compiere
verso la destinazione finale. I Germani la rappresentavano circondante
l’occhio di un cavallo attaccato al carro del Sole. Il significato non
dovrebbe meravigliarci: la sorgente della Luce o se preferite - parafrasando E.
A. Poe - «lo scopo supremo».
Speranza universale
Una costante, quella della Luce, che per noi Massoni dev’essere motivo di
profonda riflessione. Se è vero che nella nostra simbologia la Luce ha
un’importanza essenziale, proprio perché la identifichiamo con lo spirito,
con l’intelletto, non dobbiamo dimenticarci che la Luce, per noi, significa
anche rinascita, vita e salvezza.
San Bonaventura (Bagnoregio Vt., 1274 Vescovo di Albano «Dott. Serafico»)
definiva la Luce la «forma sostanziale di ogni corpo». E S. Giovanni: «Egli
era la vita e la vita era luce per gli uomini. Quella Luce risplende nelle
tenebre e le tenebre non l’hanno vinta.»
Un canto attribuito ad Amenofi IV, sposo di Nefertiti, recita così: «Lodiamo
il Signore Uno, padre della cosa Una e amiamo l’acqua che ci disseta e
chiamiamo sorella la belva della notte, chiamiamo fratello il fuoco che
distrugge e amica sorella Morte che ci riporta alla Luce del Signore padre della
cosa Una.»
Possiamo sopravvivere alla morte fisica? Questa è la domanda che
probabilmente assilla l’uomo da sempre, fin dalla preistoria. Da quanto
lasciano supporre i riti di quelle popolazioni primitive, possiamo dedurre che
la vita dopo la morte doveva essere interpretata come una continuazione della
vita terrena. Con le forme primitive di religione sono comparse le divinità dei
morti «i guardiani dell’Aldilà», ai quali era necessario versare un tributo,
affinché il passaggio si svolgesse senza tribolazioni, sempre che il trapassato
si dimostrasse meritevole di tanto riguardo. Ci troviamo evidentemente di fronte
ad una prova di giudizio prima di affrontare un’altra esistenza. E in questo
caso i confronti con altre civiltà, con altre religioni si sprecano: come non
constatare l’universalità di questa speranza di «rinascita»,
indipendentemente dal nostro credo, dalla nostra religione? Questa speranza si
è sempre manifestata nella maggioranza degli esseri umani. La specie umana è
portata a credere in un possibile aldilà, dando per scontato che alcuni aspetti
della personalità sopravvivano alla morte del corpo. In Oriente vige la
convinzione che il nocciolo della personalità sopravviva alla morte del corpo,
per poi ritornare su questo mondo. Entrando in un altro corpo, il nucleo da vita
ad un processo di rinascita, di reincarnazione; musulmani e cristiani credono a
forme diverse di esistenza extraterrena.
L’immortalità
Contrariamente agli spiritualisti, i seguaci della filosofia materialistica
negano che un qualunque aspetto della coscienza personale possa sopravvivere
alla morte fisica. La loro tesi si basa sulla teoria che la mente sia soltanto
una sorta di ombra dell’attività cerebrale. Secondo loro ogni attività
mentale cesserebbe quando il cervello smette di esercitare la sua funzione. Ma
quale cervello? Quello fisico-formale o quello eterico?
C’è un dialogo, tratto dalla teoria platonica dell’immortalità, in cui
vengono descritti gli ultimi istanti della vita di Socrate. «In questo dialogo
scaturisce l’ideale platonico di un uomo - scrive Russel - che è insieme
saggio e buono al più alto grado, e che non ha alcuna paura della morte.»
L’imperturbabilità di Socrate negli ultimi momenti della sua vita è
indubbiamente legata alla sua fede nell’immortalità. E a proposito degli
impedimenti del corpo, e delle conseguenze che a volte ne derivano, Socrate
afferma: «Che cos’è la purificazione se non il separare l’anima dal corpo?»
Se l’uomo vivesse in simbiosi con la natura, se osservasse i miracoli
quotidiani che essa sa produrre e se soprattutto si sentisse parte integrante di
questo processo, i suoi dubbi sulla possibilità di una «rinascita» aldilà
della morte fisica, potrebbero essere fugati.
Il seme che muore e si moltiplica, il suo simbolismo che prevarica i ritmi
stessi della vegetazione, non sono forse un esempio dell’alternarsi dei ritmi
di vita e di morte? I riti di iniziazione non hanno forse lo scopo di liberare
l’anima da questa alternanza e di fissarla nella luce? Sofocle chiama tre
volte beati coloro che in Elèusi hanno raggiunto e contemplato il télos: «Soltanto
per loro - afferma - c’è vita nella morte.»
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