PARTE PRIMA – LA
LOGGIA
INTRODUZIONE
Negli
ultimi settanta anni la Loggia inglese di Firenze ha dato adito a molte
discussioni, la prova principale ma non conclusiva della propria esistenza
essendo una magnifica e rara medaglia, non necessariamente massonica nel suo
simbolismo, che riporta il nome del Conte di Middlesex come fondatore.
Non
è mai esistito, tuttavia, alcun atto scritto attestante l’esistenza di quella
Loggia come corpo massonico in qualsivoglia documento inglese fino alla
pubblicazione dello Storia Bicentenaria
della Gran Loggia d’Irlanda del 1925.[i]
Passerò quindi a riassumere le informazioni colà contenute.
Nell’anno
1911 il Dottor Wilhelm Begemann pubblicò in Germania il suo Storia
della Frammassoneria Irlandese, mai tradotto in inglese, dove, alla pagina
121 e seg. Egli si assunse l’onere di dimostrare di come il Conte di Middlesex
fosse un massone irlandese.
Egli
basò tali conclusioni sulla prova fornita da una pubblicazione apparsa a
Norimberga nel 1736 la quale faceva riferimento ad una lettera di un
corrispondente da Firenze datata 9 giugno di quell’anno dove si scriveva: -
“Milord
il Conte di Middlesex, uno tra i più dotti nobili inglesi, passò da Firenze e
vi fondò una Loggia di frammassoni, ove io fui accettato, con l’usuale
cerimonia, quale membro di quella rispettabile società, la quale
successivamente fece coniare a proprie spese la medaglia commemorativa di
Milord; egli non volle che alcun altro titolo vi apparisse se non la dicitura Carolus
Sackville Magister (i.e. della Loggia dei frammassoni) Florentinus. Sul retro della medaglia … etc, etc.
Herr
Professor Koehler senza dubbio sa che l’attuale Duca di Lorena fu accettato
quale valente membro della Società dei frammassoni al tempo del suo soggiorno a
Londra, etc.”[ii]
Non
sarà qui necessario riportare le illazioni del Dr. Begemann o le reazioni degli
editori irlandesi a tali conclusioni e sebbene sembra sia provato di come
realmente vi sia stata una Loggia inglese a Firenze, ben poco si sapeva della
sua fondazione, ancor meno della sua scomparsa, e in sostanza nulla sui suoi
membri.
Oggi
però nuova luce è stata fatta sulla vicenda, poiché accadde che uno dei
membri fiorentini della Loggia fosse poeta oltre che massone, e d’importanza
sufficiente da garantirgli la stesura di una biografia da parte di uno dei suoi
compatrioti. Il titolo di questo libro è Tommaso
Crudeli e i primi massoni a Firenze[iii] di Ferdinando Sbigoli,
pubblicato nel lontano 1884.
Sbigoli
era un frammassone militante e, grazie alla provvidenza, anche un ottimo
studioso e ricercatore. Ebbe accesso ai documenti di stato conservati sia a
Firenze sia in altre città italiane alla ricerca di dettagli sulla vita
dell’eroe suo, riportandone molti, in modo esaustivo, nel suo libro, il quale
stranamente sembra esser passato inosservato dagli storici massonici d’altri
paesi.
Questo
libro colse il mio sguardo non appena fui istallato quale Bibliotecario della
Gran Loggia Unita d’Inghilterra quando, sentendomi ancora come adolescente al
primo giorno di scuola, malinconicamente esaminavo il contenuto degli scaffali.
Così lo esaminai, trovandone le pagine ancora da tagliare, e procedetti ad
investigarne il contenuto. Sono i risultati di tali ricerche che io ora vi
propongo.
GLI INGLESI IN
ITALIA
Negli
anni ’30 del 1700 l’Italia era piena di viaggiatori e residenti inglesi che
si trovavano colà per varie ragioni.
I
motivi principali erano ricondotti nella volontà di fare nuove esperienze, di
svagarsi, o per ragioni di salute; vi era però, per alcuni di loro, anche un
motivo più nascosto, vale a dire le preoccupazioni che a quel tempo aveva, a
Londra, il governo di Walpole a cagione della presenza a Roma, in esilio, della
famiglia reale degli Stuarts.
Molti
tra i viaggiatori inglesi mantenevano il piede su due staffe: poteva essere
interessante il tenerli sotto controllo, e questo è esattamente quanto
avveniva.
I
coraggiosi quanto sfortunati tentativi del vecchio Pretendente di recuperare il
trono, così come le speranze che i Tories riponevano nel battagliero Principe
Carlo Edoardo erano motivi di continua preoccupazione per il governo di Giorgio
II che si serviva di diplomatici e spie in ogni luogo, ma particolarmente a
Firenze e a Roma, dove gli Stuarts e i loro partigiani trovarono o sperarono di
trovare orecchie favorevoli alla loro causa.
L’Italia
quindi non era solamente meta d’inglesi itineranti, uccelli migratori, ma
ospitava colonie permanenti d’inglesi dediti al commercio, alla diplomazia o a
delicati servizi segreti, o più semplicemente residenti in Italia quali
rifugiati.[iv]
Coloro
i quali vivevano a Firenze avevano colà mantenuto, nel modo peculiare della
nostra nazione, i propri usi e costumi; ed avendo sviluppato dai tempi della
Riforma, ed in particolar modo dalla Rivoluzione del 1688 in poi, la libertà di
esprimere liberamente i propri pensieri sui temi di filosofia e religione, molti
di loro apertamente professavano, anche in Italia, opinioni che indubbiamente
sarebbero potuto sembrare nuove e pericolose pei nativi di quel luogo.
Le
combriccole ed i partiti nei quali essi si dividevano nella natia Inghilterra
furono così conservati anche all’estero e, incoraggiati dalla tolleranza
mostrata dal governo del Duca Giovanni Gastone, essi non esitarono ad introdurre
per la prima volta a Firenze quell’istituzione profondamente inglese che è la
Frammassoneria.[v]
LA PRIMA LOGGIA
MASSONICA A FIRENZE
Passerò
ora a narrare del racconto dello Sbigoli sul come avvenne l’istituzione del
nostro Ordine in Toscana, accadimento evidentemente basato su documentazione
dell’epoca.
“La
prima Loggia massonica a Firenze fu istituita dal Conte di Middlesex nel 1733,
sebbene massoni inglesi colà residenti avessero potuto tenere assemblee
occasionali in precedenza per diversi anni.”
Ciò,
presumo, ogniqualvolta essi si fossero potuti riunire assieme così come
stabilivano le nostre consuetudini conosciute come
“da tempo immemorabile” (Time Immemorial Custom).
“La
Loggia di Middlesex s’incontrava, all’inizio, in Via Maggio, presso
l’albergo di un certo Pasciò, meglio noto ai fiorentini come Pascione; in
quei tempi il Venerabile e primo Maestro essendo Monsieur Fox, gran dotto e
matematico del quale, in ogni modo, non si possiedono altri dettagli.[vi]
“Terminando
tutte le riunioni della Società con un sontuoso banchetto, ed avendo i membri
deciso che il loro ospite di Via Maggio non sempre era all’altezza di farvi
degnamente fronte, si preferì per spostarsi presso l’albergo di un certo John
Collins, tenutario di buona fama nonché membro dell’Ordine massonico.
“Colà
la Loggia ebbe come suo secondo Maestro, Lord Middlesex suo fondatore e, più
tardi, un certo Lord Raymond, che aveva la nomea d’essere deista e non
credente.”
“Molti
altri stranieri importanti appartenevano a quella Società,” tra i quali il
nostro autore cita i nomi di Archer, Harris e Shirley, “che spesso fungeva da
Ufficiale Presidente”, due gentiluomini di nome Clarkes, Frolik,[vii]
due Capitani di nome Spencer, un certo David Martin, descritto come scozzese,
cattolico, e pittore di un certo talento, ed infine Robert Montague, forse
rampollo di quella famiglia nella quale ebbe a maritarsi la famosa Lady Mary
Wortley Montague.”
Dove
lo Sbigoli ottenesse questa lista di membri inglesi delle Loggia egli non
rivela, sebbene si trattasse probabilmente dei documenti di stato che egli così
appieno utilizzava, quantunque egli non riportasse proprio tutto ciò di cui era
entrato in possesso.
Le
circostanze poi, proprie del particolare periodo nel quale questo scritto fu
vergato, preclusero ogni altra ricerca tesa a individuare quei Fratelli. Me ne
dispiace, particolarmente nel caso di “Mr. Shirley” poiché avrebbe potuto
darsi si trattasse di un’appartenente a quella nobile famiglia del
Leicestershire, robusto pilastro dell’Arte inglese per oltre due secoli.
OGGETTO DI
SPECULAZIONE
Per
ciò che è dato sapere dalle prove esistenti, la Loggia di Firenze si era
autocostituita. In ogni caso non esiste traccia scritta nei Registri della
nostra Gran Loggia di alcuna bolla ottenuta dall’Inghilterra, mentre Anderson
nel 1738 notava, non senza stizza, di come le Logge italiane mostrassero “una
certa indipendenza”, passaggio il qual è per me prova conclusiva a
dimostrazione della mancanza di ogni connessione ufficiale tra Londra e Firenze.
Esiste
però un’altra possibilità della regolarità di quella Loggia o, per metterla
diversamente, di come non si possa licenziare il caso senza altro esame, sebbene
io tema, a questo punto, che la questione possa rimanere insoluta. Vorrei
infatti attrarre l’attenzione sul fatto di come, notoriamente, il Conte di
Middlesex, nel 1733 frequentasse compagnia massonica in quel di Dublino, ove suo
padre rivestiva l’ufficio di Lord Luogotenente.
In
quel periodo erano emesse le prime bolle massoniche al mondo dalla Gran Loggia
d’Irlanda, perciò potrebbe darsi che Lord Middlesex possa averne portate a
Firenze nella propria valigia diplomatica quale garanzia delle proprie referenze
massoniche e come autorizzazione a
convenire una Loggia massonica ovunque si trovasse.[viii]
Un
simile documento, sigillato e firmato dagli Ufficiali di una Gran Loggia
regolare, avrebbe gettato una luce di rispettabilità su ogni corpo massonico
non regolare che avesse scelto di ammettere Middlesex e la sua documentazione
quali rispettivamente proprio Maestro e propria patente.
Nel
caso dovessimo adottare una simile teoria, allora ciò risolverebbe molte delle
difficoltà da noi incontrate nella storia della Loggia in questione, poiché ci
è narrato di come una Loggia si riunisse a Firenze ancor prima dell’arrivo di
Middlesex e di come, successivamente, egli vi ebbe a fondare la Loggia stessa,
poiché queste due affermazioni non potrebbero altrimenti esser coniugate tanto
facilmente.
Che
non si assuma, in ogni modo, ch’io argomenti in favore della tesi
dell’esistenza di una Bolla irlandese regolarizzante la posizione della Loggia
di Firenze, poiché mio solo motivo nel proporre ciò come materia di
speculazione essendo quello di indicare un possibile sentiero che potrebbe esser
utile il seguire, se il trascorrere degli anni non avesse distrutto ogni traccia
di dove questo stesso sentiero avrebbe potuto menare.
CARLO SACKVILLE,
CONTE DI MIDDLESEX
Il
modo migliore di fornire una panoramica sulla compagnia di frammassoni che si
riunivano a Firenze è quella di dare uno sguardo ad ognuno di coloro
per i quali sia nota l’appartenenza al gruppo, dimodoché inizierò dal
più noto, il Conte di Middlesex.
Carlo
Sackville, figlio maggiore di Leonello, VII° Conte e 1° Duca di Dorset, nacque
il 6 febbraio 1710-11. Egli fu educato alla scuola di Westminster, divenne amico
del poeta Priore e fu accompagnato, nel suo Gran Viaggio all’estero da Spence,
che naturalmente ne riferisce in diverse occasioni nel suo Aneddoti.
Gran
viaggiatore in gioventù, egli era uomo di gusti artistici e libere abitudini,
con un tocco di quel genio che appare essere dono ereditario nella sua famiglia.
L’Italia
lo attraeva in modo particolare a causa del suo amore profondo per la musica e
per le cantatrici che
l’interpretavano al teatro dell’opera, cosicché per tutta la vita egli ebbe
a spendere vaste somme di denaro per gratificare ambedue queste inclinazioni.
Dopo
esser stato impresario del Teatro
della Pergola di Firenze nel 1737 egli divenne amministratore di diverse
compagnie d’opera in Inghilterra.
Sebbene
nessuna di queste avventure non si traducesse mai in un successo finanziario noi
dovremmo essergli grati per il suo aiuto fornito nel tener vivo
l’apprezzamento della buona musica ancora così comune in Inghilterra.
Ad
un tale benefattore pubblico si può ben concedere qualche irregolarità nella
vita privata, ma sfortunatamente la più divertente ed arguta vecchia
“zitella” dell’epoca, Horace Walpole, aveva perso del denaro in una delle
avventure finanziarie teatrali di Middlesex e, non avendogliela mai perdonata,
non perdeva occasione di menzionare il nome di Middlesex senza farne l’oggetto
d’aneddoti maliziosi, dei quali la sua mente fervida non sembrava esser mai a
corto, ed essendo quella del Walpole la nostra sorgente chiave d’informazioni
sulle mode del momento, la reputazione di “bete noire” del Middlesex
n’ebbe come conseguenza molto a soffrire, in modo probabilmente esagerato.
E'
quindi con queste parole d’avvertimento che passerò ora a narrare d’alcuni
aneddoti tratti da Horace Walpole.[ix]
6 novembre 1741
“Non
mi sento molto a mio agio per quanto riguarda l’Opera. Il Sig. Conway[x]
è uno dei direttori, ed io temo che essi possano perdere denaro in modo
considerevole, cosa che egli non può permettersi. Ve ne sono otto di loro: Lord
Middlesex, Lord Holderness, il sig. Frederick, Lord Conway, il sig. Conway, il
sig. Damer, Lord Brook e il sig. Brand.
Gli
ultimi cinque sono diretti dai primi tre; essi sono a loro volta diretti dal
primo, ed egli dall’Abate Vanneschi[xi], il quale vi farà proprio
un bel gruzzolo.
Ve
ne fornirò quindi alcune prove, senza voler per questo menzionare
l’improbabilità che hanno otto giovani scapestrati damerini di capire alcunché
d’economia: E’ normale riconoscere al poeta cinquanta ghinee per comporre le
trame – a Vanneschi e a Rolli ne sono state riconosciute trecento.
Altre
trecento il Vanneschi si ebbe per il proprio viaggio in Italia alla ricerca di
ballerini e attori, somma colà trasferita dai banchieri. Egli ha inoltre
portato un sarto italiano – poiché qui non se ne trova alcuno! – che ha già
incassato quattrocento sterline, oltre ad una provvigione di trenta sterline
l’anno.”
Walpole
continua lamentandosi degli alti salari versati ai cantanti, con particolare
riferimento ad una cantante in particolare della quale Middlesex si era
invaghito:
“Ma
alla moscovita (anche se questa non ha mai guadagnato più di quattrocento) essi
hanno dato seicento, a causa di servizi riservati da lei svolti. Da tutto ciò
potete ben giudicare della loro frugalità! Mi dispiace anche per il povero
Harry, poiché egli finirà per pagare per i piaceri di Lord Middlesex.”
3 marzo 1742
Dopo
aver affermato che egli ed il sig. Conway si suddivideranno una sottoscrizione
di 200 sterline per quest’anno, così il Walpole aggiunge: “Allora terremo
Monticelli e Amorevoli, e per far piacere a Lord Middlesex, anche quell’odiosa
moscovita, mentre congederemo il sig. Vanneschi.”
14 aprile 1743
Sempre
a proposito dell’opera: “Mentre i gentiluomini direttori coi loro Abati
favoriti e le mistresses hanno messo sottosopra l’intero affare in Inghilterra
… vi è ora una nuova sottoscrizione per finanziare un’opera per il prossimo
anno che dovrà essere effettuata dai Dilettanti[xii]
un club per accedere formalmente al quale occorre essere stati in Italia, mentre
la qualifica reale è quella di propendere per l’ubriachezza; ne sono a capo
Lord Middlesex e Sir Francis Dashwood i quali furono raramente visti sobri nel
periodo della loro permanenza in Italia.”
4 maggio 1743
E’
molto probabile che, alla fine, non avremo opera alcuna il prossimo anno: Handel
s’è buscato una paralisi e non può comporre, mentre il Duca di Dorset si è
dato ad opporla strenuamente, poiché essendo Lord Middlesex l’impresario,
rovinerà certamente la Casa dei Sackville a causa di queste follie. Oltre a ciò
che egli perderà quest’anno, ancora non ha fatto fronte alla sua quota delle
perdite dell’anno scorso e purtuttavia allegramente si prepara alla prossima
stagione, con la quasi certezza di perdere tra le quattro e le cinquemila
sterline, che è la perdita accumulata fino a questo momento dall’opera. Il
Duca di Dorset desidera che il Re non partecipi a questa sottoscrizione, ma Lord
Middlesex è così ostinato che ciò lo condurrà probabilmente a perdere altre
mille sterline.”
14 agosto 1743
“Ho
scoperto che affare costoso sia l’opera! Io non curavo l’amministrazione:
Lord Middlesex era a capo di tutto … ci hanno fatto pagare 57 sterline oltre
alla normale sottoscrizione per quest’inverno. In collera, ho riferito al
Segretario che quelli erano gli ultimi denari che i direttori mi avrebbero
spillato per le loro follie.”
Walpole
rincarò in seguito la dose quando Lord Middlesex nel 1744 contrasse matrimonio
con Grace, figlia a sola erede del Visconte Richard Shannon. Alcune descrizioni
dell’epoca la ritraggono quale una nanerottola bianchiccia, fiera però dei
propri risultati nello studio del greco e del latino, ed inoltre abbastanza
dotata nella musica e nella pittura.
Essa
ebbe in ogni modo il merito di non aver mai dato adito a dicerie in un’epoca
alquanto maligna, né di non essersi mai prestata ad intrighi politici,
passatempo preferito dai cortigiani. Così scrive Horace: “La ragazza è bassa
e brutta, sebbene sia una gran studiosa”.
Il
Conte nel frattempo fu nominato Lord del Tesoro nel 1743 e, dopo un anno dalle
nozze, Lady Middlesex divenne Dama del Vestiario della Principessa di Galles;
poi, nel 1747 suo marito divenne Maestro dei Cavalli del Principe. Tutte queste
promozioni furono altrettanti motivi di lavoro per la penna velenosa di Horace,
mentre un’ottima occasione per spandere ulteriori maldicenze a proposito del
circolo di Middlesex si ebbe nel 1747, col nostro pettegolo che non poteva certo
lasciarsela sfuggire:
2 ottobre 1747
“Lady
Middlesex è incinta – l’infante verrà su bene, poiché il sangue dei
Sackville è il peggiore che si potesse trovare per l’allevamento.”[xiii]
10 novembre 1747
“Lady
Middlesex ha scodellato suo figlio prima del tempo: questi è preservato
nell’alcool ed il mio Signore molto devotamente lo piange.”
Quale
commento per il dolore umano mostrato dai genitori per l’unico figlio avuto
dal loro matrimonio!
Il
Conte continuava nel frattempo ad avere altri problemi con le sue compagnie
dell’Opera:
12 agosto 1746
“Lord
Middlesex, in occasione di una rivalità verificatasi tra la sua mistress, il
Nardi e Violetta, la migliore e più ammirata danzatrice del mondo, ne approfittò
per coinvolgere nel litigio l’intero ménage dell’opera senza pagar gabella
ma anzi, siccome un vero Lord del Tesoro, ben serrando i propri forzieri. Sua
Signoria comminò inoltre una multa di trecento sterline al compositore, da
pagarsi immediatamente e senza dilazioni, con la scusa che questi avesse
parteggiato per Violetta”.
2 dicembre 1748
“Lord
Middlesex è stato citato in causa da Monticelli a Westminster Hall per non
avergli corrisposto il salario pattuito; ha perfino permesso che il contratto
scritto di suo pugno fosse utilizzato come prova! Vi potete immaginare di
com’egli fosse tosto condannato.”
Anche
facendo la tara su simili accadimenti a causa della malizia dimostrata dal
Walpole nei suoi confronti, non possiamo far altro che concludere che invero il
Conte di Middlesex fosse talvolta talmente sfortunato da attrarre l’attenzione
pubblica ai suoi riguardi.
Dopo
aver fondato la Loggia di Firenze nel 1733, cosa che condusse alla preparazione
di una bellissima medaglia commemorativa da parte di Johan Lorenz Natter,
scultore tedesco, egli fece ritorno in visita a Londra verso il finire
dell’anno di poi, per subito ritrovarsi in cattive acque.
Accadde
infatti che il giorno 30 gennaio 1734-35 ricorresse la data dei famosi disordini
detti della “Testa del Vitello” avvenuti fuori della taverna dell’Aquila
d’Oro in Suffolk Street.
La
storia vuole che un gruppo di giovani gentiluomini liberali che si trovavano a
cena nella suddetta taverna, alfine di esprimere disprezzo per il Martire Reale
nell’anniversario della sua esecuzione e spregio per tutti i giacobiti in
generale, “mostrassero alla folla assiepata al di fuori una testa di vitello
contenuta in una calza la quale era stata immersa nel vino di Bordeaux a
rappresentare il sangue, mentre essi … inneggiavano e brindavano con motti
anti-Stuart, ed alfine gettavano quella testa in un falò che avevano fatto
accendere all’uopo davanti la taverna. La folla dei giacobitì allora
s’inferocì irrompendo nella taverna, ed avrebbero senz’altro
“martirizzato” gli intenti alla baldoria se non fosse stato per il pronto
arrivo delle guardie.”[xiv]
Coloro
i quali erano presenti alla cena, secondo una fonte giornalistica dell’epoca
includevano: Lord Middlesex, Lord Harcourt, Lord Boyne, Lord Middleton (secondo
lo scrivano tutti irlandesi, sebbene almeno nel caso di Middlesex non potesse
trattarsi solamente di un titolo di “cortesia” concesso al figlio del Lord
Luogotenente), Lord John Murray, Sir James Grey, il sig. Smith, il sig. Stroud
e, alcuni dicono, il sig. Shirley.”
Secondo
la versione di Middlesex a Spence quei gentiluomini si erano ritrovati a cena
senza far caso alla particolare ricorrenza del giorno, ed avendo tutti bevuto più
del dovuto, ecco che si diedero a
brindare al Sovrano dalle finestre della taverna.
Per
una folla giacobita si trattava però di un’intollerabile insulto il “bere
alla salute del Re, della linea di successione protestante e dell’intera
amministrazione”, poiché ciò significava esprimere affetto per tutto ciò
che essi cordialmente odiavano.[xv]
Soppesando
tutta questa testimonianza ho paura si debba concludere che Lord Middlesex fosse
in effetti un diligente seminatore di tempesta prono a ritrovarsi spesso nei
guai.
La
possibile presenza di un certo “sig. Shirley” nel novero dei gaudenti
colpisce l’occhio; si trattava forse della stessa persona la quale “spesso
fungeva da Presidente” della Loggia fiorentina?
L’inciampare
di Middlesex in una certa quantità di pubblicità non voluta non passò
inosservata in “alto loco”. Scrivendo nell’aprile del 1751, un mese dopo
la morte di Federico Principe di Galles, Walpole nota con soddisfazione che la
sua “bete noire” aveva perduto la propria posizione a corte:
“Il
Re domandò alla Principessa se essa avesse in mente qualcuno per la carica di
Maestro del Cavallo; si sarebbe dovuto trattare di un nobile, con la sola
esclusione di uno in particolare, Lord Middlesex.”
Middlesex
morì il 5 gennaio 1769, e sua moglie lo precedette di sei anni. i suoi critici
di sempre gli fornirono il seguente epitaffio[xvi]:
“La
sua bella figura ebbe tutte le riserve della sua famiglia e la dignità dei suoi
antenati. Egli era un poeta, poiché tutti loro furono poeti.[xvii]
Per quanto poco egli potesse avvicinarsi a loro in quel talento, purtuttavia si
trattava dell’aspetto per il quale egli più gli rassomigliava e ne manteneva
l’onore. La sua passione era quella di poter dirigere opere, ove egli non
soltanto perse somme immense, ma fu citato in tribunale per non aver corrisposto
i salari a quei poveri diavoli.
Il
Duca di Dorset spesso pagò i debiti, ma non seppe mai organizzare i propri
affetti; alla fine talmente lontano condusse la propria disobbedienza, per
compiacere al re e a sua imitazione, da opporsi perfino al proprio padre nei
suoi stessi domini.”
In
una lettera a Mann del 15 gennaio 1769 Walpole appare ancora più candido nel
dare notizia della dipartita:
“A propos d’Opera: quella vostra vecchia conoscenza del Duca di
Dorset è morto, dopo aver dilapidato la propria persona oltre che quasi tutti i
propri beni. Non ha lasciato un solo albero ritto nel venerando parco di Knowle.
In ogni modo la famiglia si ritiene fortunata che egli non abbia sposato, come
già prospettava, la ragazza con la quale si accompagnava, stante che il grave
stato della sua mente non poté far in modo che il parentado potesse
prevenirlo”.
Mi
ripugna che sia una tale impietosa vignetta il nostro ultimo sguardo a colui
ch’io preferisco ricordare nella sua gioventù come “Carolus
Sackville Magister” giovane, bello, baldo e attraente, di grandi mezzi che
egli profuse nel portare avanti una tra le più grandi delle arti, la musica, e
nel regalare così facendo piacere a molti senza cercare ricompensa in denaro né
in adulazione; se egli nel fare ciò vi ha perduto una fortuna, mai fortuna fu
utilizzata per causa migliore, come il portare felicità agli altri.
LORD RAYMOND
Lord
Robert 2° Raymond d’Abbot’s Langley, unico figlio del Giudice Capo di quel
nome e titolo nacque nel 1717 e successe al titolo il 18 marzo 1732-3; non aveva
quindi più di 22 anni quando fu eletto Gran Maestro d’Inghilterra nel maggio
del 1739, mentre era appena maggiorenne quando divenne Maestro della Loggia di
Firenze, dove fu probabilmente iniziato. La scoperta del suo nome tra i membri
di quella Loggia deve considerarsi come un fatto importante, poiché le Logge
Madri d’appartenenza della maggioranza dei primi Gran maestri d’Inghilterra
sono sconosciute.
Come
diverrà apparente nel corso di questa storia, Lord Raymond non era molto
popolare in Italia, ed anzi le autorità papali provarono ad espellerlo da
Firenze.
Sebbene
non vi fosse alcun decreto ufficiale a tale fine, l’oggetto di tale odio
evidentemente fece ritorno a casa dopo breve tempo, essendo tale ritirata
strategica nei piani e nell’interesse del sig. Horace Mann, allora facente
funzioni del Residente Inglese a Firenze.
Nessuno
dei riferimenti dell’epoca a Lord Raymond sembra essere di grande spessore.
Lord Orrery, in una lettera alla moglie del 2 febbraio 1743-4, nel descrivere un
dibattito alla camera dei Lords così scrive[xviii]:
“Eri
sempre nei miei pensieri anche in mezzo all’eloquenza di Lord Ches(terfield),
la pazzia di Lord B(ath), o l’ubriachezza di Lord Raymond, del quale mi
dimenticai di scriverti prima, che sempre prima di declamare, si fa un goccetto.”
Walpole,
nel descrivere il dibattito che seguì al discorso del Re, in una lettera a Mann
del 10 dicembre 1741 così si esprime:
“Lord
Halifax si espresse in malo modo, subito ripreso dal piccolo Lord Raymond, che
non perdeva occasione per rispondergli.”
Il
20 maggio 1742 la stessa fonte ricorda Raymond nelle sue vesti di poeta come
segue:
“Debbo
raccontarti dell’ingenuità di Lord Raymond, Un’epitaffio sulla Legge per le
Indennità – prova ad indovinare chi n’è l’autore:
Sotto questo marmo, giace, interrata
La Legge sulle Indennità;
Per mostrare il bene per il quale fu formulata
essa morì per salvar l’umanità.”
Da
tutto ciò dobbiamo concludere che quali che fossero le sue opinioni sulla
religione, quelle che egli deteneva sulla metrica erano ciò non di meno
rivoluzionarie.
Come
Gran Maestro Raymond ricevette più attenzioni di quante in effetti si
meritasse, poiché Preston ebbe ad affermare che nel periodo della sua Gran
Maestranza i cambiamenti subiti dal rituale causarono notevole dissenso tra gli
“Antichi” e i “Moderni”.
Avendo
però il Preston sbagliato tale affermazione, possiamo almeno ripulire da quella
macchia il blasone di Raymond, sebbene non vi sia dubbio sul fatto che in quel
tempo la massoneria in Inghilterra non attraversasse un periodo particolarmente
felice. Egli morì il 19 settembre 1756.
IL BARONE FILIPPO
VON STOSCH
Altro
famoso membro della Loggia fu il Barone Filippo von Stosch, nato a Kustrin nel
Brandeburgo nel 1691, che acquisì in seguito la nazionalità inglese, o in ogni
modo ebbe diritto a protezione essendo divenuto un fidato agente segreto di
Giorgio II.
Si
trattava d’un uomo fuori dell’ordinario per quanto riguardava questioni
legate all’archeologia e alla numismatica, mentre la sua bella casa, in Via
dei Malcontenti a Firenze, contenente una splendida biblioteca ed una gran
collezione di rari cammei e medaglie, era frequentata dalle persone più erudite
e rispettabili della città,[xix]
così come da altri ai quali nessuno di quei due aggettivi sarebbe potuto
attagliarsi.
In
una parola, la reputazione di questo gentiluomo era lontana dall’essere salda
così come senz’altro lo era la sua cultura. Egli apparteneva a quella classe
di letterati che vivono d’intrighi e di dubbi lavori, uomini molto comuni in
tutte le epoche, con una particolare abbondanza però nel XVIII secolo.
Così,
fin dai tempi della giovinezza Stosch si dilettava nel fare la spia, prima ai
servizi del governo olandese, e poi al soldo inglese egli teneva d’occhio le
pericolose manovre, a Roma, del vecchio Pretendente, meglio noto come il
Cavaliere di San Giorgio.
All’epoca
del suo stabilirsi a Roma egli era sufficientemente ben visto da Papa Clemente
XI, tanto che divenne amico del Cardinale Alessandro Albani, nipote del papa e
bravo archeologo, con il quale mantenne una corrispondenza per tutta la vita.
Favorito
da tale protezione, Stosch si stabilì comodamente a Roma e si diede ai suoi
diversi interessi, non senza piacere e profitto, continuando in tal guisa fino
alla morte di Benedetto XIII nel 1730; ma quando il trono papale fu occupato da
Clemente XII, protettore degli Stuarts, allora la posizione di Stosch di
“informatore” cominciò a non essere scevra da pericolo. Le cose
continuarono a deteriorarsi finché nel 1731, trovandosi in pericolo
d’assassinio, il nostro si trovò obbligato a fuggire da Roma.
Horace
il calunniatore ne da la seguente versione: “Egli fu costretto a fuggire da
Roma, sebbene si sospettasse che facesse il doppio gioco”.
Walpole
n’aveva una ben misera opinione come spia: “Stosch pretendeva di continuare
ad inviare un resoconto esatto delle attività del Pretendente e dei suoi figli,
sebbene fosse stato cacciato da Roma su richiesta del Pretendente e non debba
quindi aver avuto alcun’informazione diretta o importante di quanto accadeva
in quella famiglia.”
Egli
scrive comunque, in una lettera a Mann nel maggio del 1743 che Re Giorgio aveva
mantenuto una buon’opinione del suo agente segreto: “Non posso approvare il
vostro riferirvi alle falsità contenute nei rapporti di Stosch; nessuno dà lui
credito se non il Re, il quale vi si sente gratificato, per cui Basta! (In italiano nel testo).
Stosch
si trasferì a Firenze dove, anche se non si trattava del posto migliore dal
quale continuare a spiare Roma, ebbe almeno il vantaggio di poter continuare a
dedicarsi ai suoi studi favoriti.
Egli
non ebbe mai molta popolarità tra l’aristocrazia toscana, poiché circolavano
strane storie sul suo passato. Charles de Brosses per esempio, ci racconta nelle
sue lettere,[xx]
come voce parigina, che Stosch in un’occasione visitò il Cabinet du Roi a Versailles assieme con un gruppo d’altri curiosi,
e mentre costoro erano assorti nell’osservare gli intagli di una gemma famosa,
quella improvvisamente sparì.
Allora
Hardouin[xxi]
il curatore volle che tutto il gruppo si spogliasse delle proprie vesti, uno dei
doveri di un curatore oggi caduti in disuso, e quando ciò non dette alcun
risultato, volle che fosse somministrato un’emetico a Stosch, unico straniero
presente, così che la gemma ne fu alfine recuperata.
Anche
se apocrifa, questa storia testimonia della reputazione della quale godeva
Stosch tra i suoi contemporanei.
A
Firenze alcuni pensavano che Stosch ingannasse i visitatori inglesi vendendo
loro false antichità al posto delle autentiche e che, nello zelo della sua
seconda professione, egli ne abbia falsamente denunciati taluni al governo
inglese come giacobiti.
Altri
affermano che egli era uso di menar vanto del fatto di essere una canaglia
calzata e vestita poiché secondo lui era desiderabile l’esser temuto così
come lo sono i malandrini. Tale atteggiamento, comunque, non si confà con
quell’eccesso di prudenza che egli usualmente mostrava, dando adito al fatto
che potesse invece trattarsi solamente di una diceria.
Non
vi è dubbio comunque, che anche a Firenze Stosch non fosse particolarmente ben
visto, come mostrato dalle opinioni del Dottor Cocchi,[xxii]
di Horace Walpole e d’altri suoi stessi fratelli in massoneria.
La
Loggia di Firenze aveva l’abitudine di riunirsi ogni giovedì, ma essendo
l’archeologo tedesco divenuto impopolare ai membri inglesi, ed odiandolo
alcuni di loro come si trattasse di veleno, si risolse di cambiare il giorno
delle riunioni al sabato, giorno nel quale Stosch era impegnato nei suoi affari
e non avrebbe quindi potuto partecipare alle riunioni senza procurarsi una certa
inconvenienza.
L’impopolarità
di Stosch presso gli inglesi era probabilmente anche dovuta alle sue abitudini
di ridicolizzare ogni credo religioso.
Walpole
scrisse di lui:
“Sono
stato disturbato per tutta la mattina da quel tanghero di Prideaux … egli ha
chiacchierato di tutta l’Italia e di quanto vi si trovi. Trovandoci a parlare
di Stosch gli chiesi se avesse veduto la sua collezione, al che egli mi rispose
di averlo fatto solo in parte, non potendone sopportare la compagnia e non
avendo mai udito talmente tante stupide chiacchiere pagane in vita sua.
Stosch
gli aveva infatti confidato che, a suo parere, l’anima non era altro che un
sottile velo di colla. Io mi misi a ridere con tale gusto che egli tosto mi
lasciò; probabilmente per il fatto che credesse ch’io stesso la pensavo allo
stesso modo.”[xxiii]
“Per
il fatto che Stosch possa aspettarsi di ricevere un qualche regalo da me, credo
di averlo già ben pagato per quanto mi diede e quindi non ritengo di dovergli
alcunché; Voi comunque siete stato molto gentile nell’offrirvi di
ricompensarlo.” (26 maggio 1742.)
“Mi
dispiace abbiate avuto così tanti problemi per quei gatti maltesi; caro
giovine, gettateli pure in Arno, se in questo periodo dell’anno vi è acqua
sufficiente per affogarli; oppure, meglio ancora, dateli a Stosch, in pagamento
delle spese postali delle quali parlava. Non ho intenzione di offrirli di
persona al vecchio stregone.” (10 giugno 1742).
“Il
Barone Stosch era uomo dal carattere infame sotto ogni punto di vista.”[xxiv]
“Ti
includo anche una lettera per Stosch, che fu lasciata qui con un pezzo di carta
recante le seguenti parole: -Il signor Natter desidera inviare le lettere per il
Barone de Stosch a Firenze per mezzo del sig. H.W.- non so
chi questo sig. Natter sia, né chi abbia formulato tale richiesta, ma
desidererei che il sig. Stosch cessasse immediatamente di utilizzare questo
metodo di corrispondenza poiché io non metterò a rischio le mie lettere a voi
se queste conterranno le sue, né le invierò direttamente a quel poco di
buono.”[xxv]
Nel
1739 il Granduca Francesco ordinò l’espulsione di Stosch da Firenze; Horace
Mann protestò in nome di Giorgio II e dopo molte negoziazioni, delle quali
narreremo più in dettaglio nel prosieguo, il Barone poté rimanere
indisturbato.
Antonio
Zobi, nel suo Storia Civile della Toscana
(Vol. I, p. 199) così racconta di quegli avvenimenti:
“A
quel tempo viveva a Firenze il Barone Filippo von Stosch, d’origine inglesi[xxvi],
un nobiluomo che si occupava d’antichità e di numismatica, che era in stretti
rapporti con ogni toscano erudito dell’epoca.
Crudeli
gli insegnava l’italiano e ne aveva tutta la confidenza.[xxvii]
Un
segreto impenetrabile velava le discussioni che alla sera avvenivano a casa sua,
discussioni vietate alle donne per il loro noto abito ciarliero. Tutta questa
segretezza aveva sollevato una certa curiosità, e la gente comune iniziò ad
inventare storie fantastiche su ciò che accadesse in quel luogo;
l’Inquisitore (Ambrogi) non ne era naturalmente soddisfatto e credette che
tutti i visitatori di Stosch fossero, di fatto, nemici impietosi della nostra
Santa Religione. Egli fece quanto in suo potere per far espellere il baronetto
inglese[xxviii]
il quale era però protetto a spada tratta dal sig. Mann, il Ministro
inglese.”
Nel
novembre del 1757 Stosch morì a Firenze di un attacco epilettico lasciando i
propri averi ad un nipote per mezzo di un testamento redatto nel 1754 con il
quale egli nominava Horace Mann e Buonaccorsi suoi esecutori testamentari.
Nello
scrivere a Walpole della sua morte Mann disse: “Sarebbe quindi mossa astuta se
io potessi subentrare a Stosch per quello che riguarda gli affari romani,[xxix]
nel quale caso potrei non occuparmi più a lungo di ciò che precedentemente mi
era stato affidato dal servizio segreto.”
Evidentemente
Stosch riceveva lauti appannaggi per le sue attività coperte. Una lettera
successiva di Mann del 18 maggio 1758 fece riferimento a Filippo von Stosch il
giovane, nipote ed erede del primo, il quale era stato un’ufficiale
dell’esercito prussiano ed era ora occupato a vendere quanto lasciatogli dallo
zio:
“Stosch
richiede cifre altissime per quelle stampe e quei brutti disegni cinesi, e spera
di poter un giorno o l’altro, venderli al re di Prussia.”[xxx]
I MEMBRI ITALIANI[xxxi]
Il
primo italiano ad essere ricevuto tra i frammassoni fu il famoso Dottor Antonio
Cocchi e la sua iniziazione fu celebrata, il 4 agosto 1732 con uno squisito
banchetto. Si noti che la data è di un anno antecedente a quella comunemente
riportata per la “fondazione” della Loggia da parte di Middlesex.
Tra
gli altri membri iniziali si ritrovano: un certo Galassi, del quale nulla si sa
eccetto che si trattava del Portastendardi del Granduca, un giovane senza
macchia; Tommaso Crudeli, poeta e martire dell’Arte, altro giovane non
esattamente senza macchia come il primo; Giuseppe Cerretesi, anch’egli poeta,
e traduttore in Italiano delle Epistole
Morali di Papa Alessandro; Antonio Niccolini, del quale narreremo più
avanti; Paolino Dolci; l’Abate Franceschi; l’Abate Ottaviano Buonaccorsi,
anch’egli autore d’alcune opere: di costoro solamente esiste la ragionevole
certezza si trattasse di frammassoni.
E’
comunque probabile che tra gli iniziati vi fossero anche Giulio Rucellai,
Segretario della Giurisdizione (di Stato); il Marchese Carlo Rinuccini, Ministro
dell’ultimo dei Medici e del primo Granduca della casa di Lorena; ed il Conte
di Richecourt, Primo Ministro del governo reggente del Granduca Francesco.
Tra
le altre persone per le quali si sospettava l’esser massoni o dei quali si
conosceva l’inclinazione favorevole nei riguardi di quella associazione vanno
menzionati il famoso Dottor Giovanni Lami, temuto per le sue satire, Tommaso
Perelli, studioso d’astronomia e d'idraulica, il Professor Pascasio Giannetti
dell’Università di Pisa, fiero opponente dei Gesuiti, e poi Canon Maggi, il
Dottor Avanzini, l’Abate del Nero, l’Abate Vanneschi associato agli affari
operistici di Middlesex, Cerusico Martini, Antonio e Gaetano Marcantessi,
fratelli e prosperosi banchieri di Firenze, il Dottor Luca Corsi, amico
d’infanzia di Crudeli, e l’Abate de Craon, Primate di Lorena,[xxxii]
figlio maggiore del Principe Marco di Craon, Ministro Plenipotenziario del
Granduca.[xxxiii]
Diversi
altri dottori in legge e medicina si pensava fossero membri della Loggia,
assieme con alcuni appartenenti al clero, inclusi alcuni canonici della
Cattedrale ed un certo Abate Pratesi, della Curia Arcivescovile.
“Sembrerebbe
comunque che i fiorentini non si recassero spesso alle riunioni massoniche, sia
perché trovavano rude e strana la compagnia degli inglesi, sia perché
disapprovavano l’abitudine di bere smodatamente come facevano alcuni degli
inglesi nel corso dei banchetti.”[xxxiv]
Nel
leggere i nomi di quegli italiani dei quali era nota l’appartenenza alla
massoneria inglese di Firenze se ne ritrova, con sconcerto, uno il quale non
sarebbe certo dovuto apparire tra quelli di persone così rispettabili.
Lo Sbigoli, contrariamente alle sue abitudini, non trova
niente di buono da dire sul conto di Paolino Dolci, uno dei gentiluomini di
compagnia del Granduca Gian Gastone, la più esecrata e odiata persona della
città, a parte, naturalmente Dami l’infame.
Era
grazie all’avvenenza della propria persona, avuta in dono da una madre nota
per non aver saputo relegare i propri favori ad un solo cicisbeo, così come la
moralità dei tempi comandava, che Dolci ebbe il suo primo impiego a Corte tra i
vari ganimede del sovrano.
Secondo
alcune voci, egli aggiungeva agli emolumenti ricevuti in cambio delle sue
equivoche mansioni anche i proventi di furtarelli effettuati alle spese della
gioielleria reale; il Granduca però non solamente glissava su questi
peccatucci, ma sembrava non potesse rifiutargli nulla. In tal guisa il padre di
Dolci, detenuto alle galere per peculato effettuato nel corso dello svolgimento
d’un incarico pubblico ebbe sia il perdono sia un lauto compenso, mentre
favori diversi erano accordati a tutti coloro che avessero mostrato gentilezza
nei confronti del Dolci o di sua madre.
“Un
favorito non ha amici” e non esiste modo decente di raccontare ciò che le
cronache dell’epoca dicevano di Dolci e dei suoi altri compagni.
Alla
morte di Gian Gastone egli fu cacciato da Palazzo Pitti assieme a tutti gli
altri parassiti e si accompagnò con una bella veneziana dolce più di voce che
di reputazione e, non potendo porre a tempo rimedio, ebbe a sposarla nel 1739,
giusta punizione per la sua vita passata. A causa d’altri fattacci nei quali
si trovò invischiato dovette alfine fuggire da Firenze nel 1743 recandosi a
Roma dove di lì a poco mori nella miseria più nera.
“E’
difficile capire,” dice il nostro autore, “come una persona dalla simile
cattiva reputazione possa essere stato accettata in una Società della quale si
affermava che l’unica qualità necessaria per esservi ammessi fosse quella
d’essere galantuomini”. E’ pero possibile che l’essere nelle grazie
del Duca e in una posizione di poter favorire la Società a Corte fossero la
raccomandazione sulla quale Dolci poteva far affidamento al posto dell’onore e
del buon nome.
“Non
si dovrebbe mai dimenticare che, ogniqualvolta una Società, di qualsivoglia
natura, inizia ad estendere i propri confini la sua crescita è dovuta più al
numero degli aderenti che alla loro qualità. Ad esempio, lo stesso fenomeno è
chiaramente apparente al momento della crescita della Cristianità, similmente a
quanto avviene in massoneria.
In
quest’ottica né Paolino Dolci, né il Barone von Stosch, e neppure il più
noto Casanova o alcun altro della medesima risma che ebbe ad entrare
nell’Ordine potranno servire a gettare discredito sulla Società dei
Frammassoni più di quanto possano i primi cristiani esser diffamati per aver
avuto quale loro fratello nella fede e protettore il crudele e ambizioso
Costantino il Grande.”[xxxv]
Passiamo
ora a descriverne alcuni tra i membri più conosciuti.
ANTONIO NICCOLINI
Avendo
avuto in vita una fama oggi scomparsa, Antonio Niccolini nacque a Firenze nel
1701, figlio minore di una nobile famiglia alla quale la città deve la
formazione della sua prima biblioteca.
Prese
gli ordini minori in gioventù così come esigevano gli usi del tempo, per poter
usufruire dei benefici ecclesiastici ed aver più tempo per gli studi, ai quali,
fin dalla tenera età egli era sommamente portato. Sebbene ci si riferisse a lui
come l’Abate Niccolini, non divenne mai sacerdote né procedette oltre gli
ordini minori.
Educato
presso i gesuiti al Collegio di San Giovannino, già all’età di 17 anni era
celebrato per la sua profonda cultura, ma la conoscenza acquisita solo dai libri
non soddisfaceva quello spirito inquieto portandolo a viaggiare per tutta
Europa.
Dopo
essere stato in Germania, Olanda e Francia egli si recò in Inghilterra ove fu
presentato ai più illustri uomini dell’epoca, divenne amico di molti di loro
ed allargò la propria mente con molte idee, più avanzate e moderne di quelle
all’epoca circolanti in Toscana. Egli divenne in breve ciò che potremmo
definire un cattolico liberale: giansenista era il termine allora in uso per
distinguere non solamente coloro che seguivano la dottrina del Vescovo di Ypres,
ma anche ogni persona che avversava il primato della Chiesa di Roma sul potere
temporale.
Particolare
favore fu mostrato al Niccolini, in Inghilterra, dal Principe di Galles, più
tardi Giorgio II, e quando ciò fu portato all’orecchio del Granduca Cosimo
III, bigotto sul tipo del Gran Monarca, egli decise che il Niccolini dovesse
essere un eretico e un libertino e ne proibì il ritorno in Toscana. Il decreto
di bando rimase attivo per oltre un anno finché fu revocato grazie
all’intercessione di alcuni alti dignitari della Chiesa.
Niccolini
ottenne poi una posizione presso la Curia papale a Roma, ma quell’atmosfera di
intrighi non gli si addiceva, così che fece presto ritorno a Firenze dove,
disponendo di risorse autonome sufficienti, si dedicò ai suoi studi favoriti,
sebbene ancora mantenesse le proprie abitudini clericali.
Presto
Casa Niccolini divenne famosa per i
piacevoli ritrovi colà organizzati dall’Abate Marchese. Tali ritrovi gli
facevano invero onore, ma ancor più giovavano alla sua gloria gli studi
compiuti e le cospicue donazioni che egli elargiva a favore della scienza e
della ricerca.
Carlo
de Brosses, in una sua lettera da Firenze del 3 ottobre 1739, [xxxvi]
cita il Niccolini e altri tra i suoi amici come dotti studiosi:
“Quelli
del primo gruppo che ci hanno dimostrato amicizia e buoni uffici sono i Marchesi
Riccardi; Monsignor Cerati, preside dell’Università di Pisa; l’Abate
Buondelmonti, nipote del Governatore di Roma; il Conte Lorenzi; l’Abate di
Craon, Primate di Lorena, e l’Abate Niccolini il cui fratello sposò la nipote
del Papa.
Quest’Abate
Niccolini è in verità un grand’uomo. Nei miei viaggi devo ancora incontrare
chi possa stargli alla pari come forza di pensiero, memoria prodigiosa,
prontezza di parola o con tale ampia conoscenza su ogni possibile soggetto,
dalle acconciature femminili fino al calcolo integrale di Newton. Egli avrebbe
potuto divenire qualsiasi cosa avesse voluto se non avesse deliberatamente
scelto di tagliarsi la gola portando agli estremi la propria libertà di parola
fino ad assumere la fama di giansenista, sebbene egli non lo sia per nulla.”
Molte
erano le benemerenze del Niccolini: fece effettuare a proprie spese la bonifica
delle paludi di Foligno, aiuto a creare la Società Botanica di Firenze e fu il
patrono letterario di Antonio Marini, più tardi Arcivescovo di Firenze e
conosciuto per il suo commentario sulle Scritture.
Da
alcune sue lettere pubblicate,[xxxvii]
sembrerebbe che, sebbene i suoi contatti con la massoneria siano stati di natura
temporanea, per sempre il Niccolini conservò quello spirito di tolleranza, quel
desiderio per il progresso della conoscenza umana e quella saggezza che sono le
maggiori caratteristiche della nostra grande fratellanza.[xxxviii]
Niccolini
non avrebbe mai potuto essere un uomo ordinario: sappiamo che Giorgio II lo
stimava a tal punto da pregarlo di intervenire nella sua disputa con Federico
Principe di Galles.
Perfino
Walpole non trovò nulla di disdicevole da dire a suo riguardo:
“Niccolini
cena sempre con il Principe di Galles, ed impara la Costituzione.”[xxxix]
“Non
ho notizie di Lady Orford, che non appare mai in pubblico, così come non so se
ella veda Niccolini; egli passa molto tempo con Lady Pomfret … ed altrettanto
con il Principe.”[xl]
“Niccolini
si è recato, assieme con il Principe, a Clieveden. Ho l’idea che questi non
lascerebbe mai l’Inghilterra se solo potesse cambiare la propria religione, o
se potesse persuadere, cosa che gradirebbe parimenti, il Principe a cambiare la
propria.”[xli]
Niccolini
morì a Roma nell’ottobre del 1769, tra coloro i quali piansero la sua
dipartita vi era l’Imperatore Giuseppe II.
GIUSEPPE MARIA
BUONDELMONTI
Membro
di una delle più antiche e famose famiglie fiorentine, Giuseppe Maria
Buondelmonti nacque in quella città nel 1713 ed era quindi poco più che
ventenne quando divenne
frammassone, decisione che lo espose a serio pericolo sebbene ebbe a cavarsela
solo con una gran paura.
Egli
era Cavaliere Commendatore dell’ordine di Malta, un grado che
ammetteva alle gerarchie clericali, per questo era chiamato indifferentemente
“Fra Giuseppe Maria” o “Commendator Buondelmonti”.
Astuto
e dotto, amava viaggiare ed intrattenersi in conversazione con stranieri; poeta,
oratore e filosofo, era portatore di una buona reputazione tra i propri
contemporanei, uno dei quali ebbe a chiamarlo “il più dotto genio tra la
nobiltà fiorentina”; quale tributo alla sua eloquenza fu chiamato a recitare
le orazioni ufficiali nella chiesa di San Lorenzo alle esequie del Duca Gian
Gastone nel 1737 e per i funerali dell’Imperatore Carlo VI nel 1741 e della
madre del Granduca Francesco nel 1742.
Poeta
oltre che linguista, tradusse in italiano, con l’aiuto di Andrea Bonucci
valente pubblicista, Rape of the Lock
e l’Universal Prayer di Pope,
essendo forse i suoi gusti per simile letteratura inglese indicazione delle
compagnie che egli frequentava a Firenze.
Sebbene
membro di un ordine militare non si trattava
d’una testa calda, e nell’occasione della sua elezione
all’Accademia della Crusca profferì un discorso sulla guerra, dichiarando che
i suoi orrori e le crudeltà avrebbero dovuto esser confinate allo stretto
necessario, continuando con il raccomandare una sorta di Dieta Europea per il
mantenimento della pace – in verità, non vi è nulla di nuovo sotto il sole.
Sebbene
Buondelmonti fosse strettamente controllato dall’Inquisizione, godeva di
potenti protezioni nella Chiesa poiché suo zio Filippo Manente era
Vicecamerlengo a Roma e Governatore della Città Eterna, cosa che giocò a
favore del nipote quando questi avrebbe dovuto essere arrestato in quanto
frammassone.
In
fatti, fu essenzialmente la sua attitudine di libero pensatore, anche più del
Niccolini stesso, ed il non voler farne segreto, che gli attirarono le
attenzioni delle autorità. Essendo obbligato, nella sua veste di ecclesiastico,
ad ascoltare ogni giorno messa, egli ne chiese dispensa a Roma, ma sebbene ciò
fosse usualmente concesso senza difficoltà, al Commendatore non fu permesso,
stante la sua appartenenza alla Società dei Massoni.[xlii]
Non
era dotato di buona salute e morì a Pisa nel 1757 con la propria reputazione di
studioso, così grande in vita, che non gli sopravvisse.
Al
Walpole il Buondelmonti non piaceva: “Per quel che riguarda Buondelmonti, egli
è una nullità; la sua più alta composizione ammonta ad un sonetto; discute di
non-religione coi ragazzi inglesi, di sentimento con mia sorella, e parla in un
cattivo francese con chiunque lo stia ad ascoltare.”[xliii]
Speriamo
che l’opinione di Horace fosse sua soltanto, così come sua solamente fu la
pronuncia del patronimico del Buondelmonti.
ANTONIO COCCHI
Nato
a Benevento il 3 agosto 1695, Antonio Cocchi studiò matematica a Pisa sotto il
famoso Guido Grandi e medicina sotto Antonio Domenico Bellini. Dopo gli studi
egli fu nominato medico della guarnigione dell’Elba, all’epoca dominio
spagnolo.
Più
tardi, nel 1723 divenne medico personale del Conte di Huntingdon, marito della
Contessa che Walpole chiamava “La Santa Teresa dei Metodisti”, che accompagnò
in Inghilterra.
Con
un simile nobiluomo quale suo protettore, Cocchi viaggiò attraverso la maggior
parte d’Europa, avendo molto a soffrire a cagione delle eccentricità di colui
che lo impiegava, il quale a volte gli faceva mancare i denari anche per le
necessità basiche della vita: suo compenso erano però gli incontri e le
discussioni con altri uomini di scienza in ogni luogo che visitasse. Tra gli
altri, egli incontrò Newton in Inghilterra e Boerhave in Olanda.
Dopo
aver rifiutato una vantaggiosa offerta d’impiego da parte di Carolina,
Principessa di Galles, Cocchi ritornò a Firenze nel 1726, dove il Granduca Gian
Gastone lo nominò Professore di medicina a Pisa: non avendo però egli facile
oratoria, si fece trasferire a Firenze con l’incarico di Professore
d’anatomia.
Più
tardi egli si guadagnò il rispetto e la stima del Granduca Francesco e del
Consiglio di Reggenza, dal quale ebbe molti incarichi di prestigio, anche se di
poco profitto.
Fondò,
con il Micheli, la Società Botanica di Firenze e, assieme con il Tozzetti, fu
responsabile per l’organizzazione della Biblioteca Magliabecana, che aprì al
pubblico nel 1747.
Morì
di cuore nel 1758, dopo aver previsto ben in anticipo la propria fine, che
accettò con rassegnazione filosofica.
Le
sue conoscenze erano vaste e varie: conosceva alla perfezione greco, latino ed
ebraico assieme con molti linguaggi moderni che parlava e scriveva con facilità
e fluentemente.
Sebbene
andasse a messa, si confessasse e si comunicasse il buon Dottore era visto con
sospetto dall’Inquisizione, così come ci dice egli stesso, scrivendo, in
inglese, nel suo diario:
“Benevuti
mi assicura che all’Inquisizione si sospetta che io non sia cattolico e che
una persona importante disse ad un suo amico … che io debba essere molto
cauto.”[xliv]
Fu
il primo toscano a venire iniziato frammassone, e molti insegnamenti di quella
Società si possono ritrovare nel suo carattere e nel modo di vita.
Diede
sempre un caloroso benvenuto agli stranieri che passavano per Firenze, in modo
particolare agli inglesi, e molti nostri connazionali egli annoverava tra i
propri amici, compresi Sir Horace Mann ed Horace Walpole suo corrispondente, che
parla di Cocchi con affetto, se non con troppo rispetto.
“Conosco
molto bene il Dottor Cocchi. Egli è più un buon uomo che un grand’uomo.
Onesto e semplice e di buona conoscenza. Gli inglesi, oserei dire, vi diranno
che egli è dotato di un particolare tipo di comprensione, cosa alla quale
credono sinceramente.”[xlv]
Walpole
se ne fece, in seguito, una più alta opinione:
“E’
terribile che un uomo valente e che potrebbe essere così utile alla società
debba essere tanto negletto.”[xlvi]
“Vorrei
sapere l’opinione del Dottor Cocchi e la vostra sui due nuovi libri francesi,
se li avete veduti. Uno è Esprit des Lois
di Montesquieu, che io credo sia il miglior libro che sia mai stato scritto.”[xlvii]
“A
parte il buon Dottor Cocchi, quale altro amico comprensivo avete a Firenze che
si farà carico della vostra infelicità?”[xlviii]
Il
Conte di Cork, nello scrivere al suo amico Duncombe il 29 novembre 1754 si
raccomanda che egli incontri il Cocchi dicendogli:
“Il
sig. Mann è fortunato avendo l’amicizia, la competenza e le cure del suo
medico, il Dottor Cocchi. Si tratta d’un uomo dalla vasta cultura. Capisce,
legge e parla ogni linguaggio europeo; è studioso, educato, modesto, umano e
istruttivo e dovrebbe essere sempre ammirato ed amato da chi lo conosce.
Potessi
io vivere con questi due gentiluomini solamente e conversare con nessun altro
scarsamente proverei il desiderio di far ritorno in Inghilterra per molto
tempo.”[xlix]
D’altra
parte Cocchi ebbe una grande ammirazione per la nazione inglese. Scrivendo
dall’Inghilterra ad un amico a Firenze egli disse: ”Bisogna che si renda
loro giustizia, con tutti i loro vizi e le stravaganze essi completamente
padroneggiano la prudenza, il coraggio e la cortesia.”
E,
più tardi: “Non troverete, in Inghilterra, un gentiluomo che sia un completo
ignorante, sebbene nel resto del mondo ve ne siano in abbondanza di tal
fatta.”
Cocchi
lasciò un figlio, Raimondo, che divenne anch’egli Dottore e uomo di scienza,
e secondo Walpole, anche dotato di un buon senso dell’umore, che anzi, egli si
augurava che tale dono non avesse a portargli male con l’inquisizione,
un’istituzione certo non prona agli scherzi.
Il
giovane Cocchi morì alla sola età di 40 anni nel 1777.
La
figlia d’Antonio, Beatrice, sposò Angiolo Tavanti, economista di fama e
Ministro di Stato sotto i Granduchi Francesco e Leopoldo I. Anch’essa aveva
solida educazione ed ebbe una certa notorietà per aver tradotto un libro
dall’inglese.
Così
si può dire che tutti i Cocchi fossero persone di talento, piuttosto avanzati
rispetto ai loro giorni.
GIUSEPPE CERRETESI
Un
membro della Loggia il cui nome spesso appare nel famoso processo
dell’Inquisizione fu Giuseppe Cerretesi, un altro poeta. Egli affermava essere
di nobile famiglia, sebbene dicesse anche che l’unica eredità che gli fosse
rimasta in sorte fosse quella di soffrire di gotta.
Si
diceva che fosse un frammassone, cosa che lo portò ad incontrarsi con un
giovane e sciocco nobiluomo del quale tratteremo in seguito, al momento che uno
stupido gesto condusse diverse persone in guai seri.
Si
vuole che cercando il Cerretesi rifugio dal temporale causato dal processo a
Crudeli ebbe a recarsi in Inghilterra ove fu introdotto a Sir Robert Walpole da
suo figlio Horace, ma parlando Sir Robert solamente inglese e latino e non
conoscendo il Cerretesi parola di nessuna delle due lingue, non potrà certo
affermarsi che il Primo Ministro o il suo visitatore possano aver avuto
discussioni illuminanti.[l]
Il
rifugiato non trovò in Inghilterra la Terra Promessa, avendo a soffrire colà
tutte quelle privazioni così note ai poeti bisognosi. Fece poi ritorno in
Italia dove, nel 1756 pubblicò a Milano una traduzione dei Saggi
Morali del Pope che in ogni modo ce lo rende interessante, sebbene critici
più qualificati di noi nel giudicare tale opera ebbero a dichiarare di come il
fluire dei versi eccedesse la sua stessa ispirazione.
ABATE OTTAVIANO
BUONACCORSI
Altro
membro di Loggia, anche l’Abate Buonaccorsi è spesso citato nel corso del
processo dell’inquisizione. Nacque da famiglia patrizia e divenne studioso
erudito, filosofeggiando sulle dottrine epicuree lontano dal frastuono delle
masse.
Nel
1744 pubblicò un volume in difesa di quella filosofia il quale, oserei dire,
oltraggiò molte più persone di quante ne convertisse. Le sue tendenze
edonistiche le spiegano l’amicizia con Stosch del quale fu intimo amico ed
ammiratore, nonché uno dei suoi esecutori testamentari alla morte.
A
causa di una sua grave malattia riuscì a sfuggire all’arresto da parte
dell’Inquisizione nel 1739, poiché il Ministro Tornaquinci ne ritardò la
cattura fin quando non si fosse ristabilito; poi, come conseguenza dello
scalpore sollevato dal caso del Crudeli, l’ordine d’arresto non fu mai
eseguito.
ABATE VANNESCHI
Non
vi è alcuna certezza che l’Abate Vanneschi sia stato mai membro della Loggia
di Firenze, mentre le voci che lo volevano frammassone si originarono forse dal
fatto che egli fosse in stretti rapporti con Lord Middlesex, il quale lo impiegò
per scrivere i libretti per le opere
ed aiutare nella loro produzione. Quest’occupazione lo condusse in visita a
Londra e conobbe Walpole a Calais mentre s’imbarcava, assieme con le stelle
dell’opera, alla volta dell’Inghilterra:
“Fui
sorpreso da Amorevoli e da Monticelli, che sono qui con me assieme con
Viscontina e Barberina e l’Abate Vanneschi …… che bellimbusto! Avrei
voluto parlargli dell’opera, ma egli sembra solo interessato alla politica.”[li]
“Conoscete
Vanneschi, il poeta favorito del Conte di Middlesex,” egli scrive nel novembre
del 1741, mentre nell’aprile del 1743 egli così ne fa il necrologio:
“Abbiamo udito che Vanneschi è morto. Bonducci ci assicura che egli ha avuto
successo in Inghilterra, ha prodotto opere, ingannato Lord Middlesex, cambiato
religione e sposata una Dama.”[lii]
L’ultima
volta che Horace cita il Vanneschi è il 14 aprile 1743: “Non so, veramente,
se Vanneschi sia morto; egli sposò una donna inglese del popolo tenuta
dall’Amorevoli, così che l’Abate approfittò d’ogni occasione che
l’Opera gli presentasse.”
In
realtà, Vanneschi divenne Impresario
in Inghilterra ove spesso litigava con il cantante Mingotti, si rovinò a causa
delle sue avventure teatrali, fece bancarotta e fu sbattuto in prigione, da dove
uscì solo per essere raggiunto, alfine, dalla morte.
Naturalmente,
di tutti i libretti delle sue opere
quali Il Fetonte nulla rimane, tutto
essendo stato inghiottito dall’oblio delle cose delle quali non vale la pena
il ricordo.
Tutto
considerato, se anch’egli fosse stato un frammassone, quella Società non
avrebbe avuto motivo di iscriverne il nome nel suo Libro d’Oro.
TOMMASO CRUDELI
Eccoci
dunque a considerare colui il quale possiede, peraltro, più fama di qualsiasi
altro membro della Loggia, poiché quando la Società cadde sotto la proibizione
della Chiesa egli ne fu fatto il capro espiatorio per tutta quella fratellanza
così detestata, sì che gli altri frammassoni italiani non n’ebbero dannose
conseguenze, se si esclude la paura e l’apprensione di essere tenuti sotto
stretta sorveglianza da parte del Sant’Uffizio.
Crudeli
era imprudente nelle parole così com’era attivo nella Società, e fu in
conseguenza di ciò che egli ebbe a pagare per tutti gli altri. Tra gli
avventori dei caffè e i frequentatori delle librerie fiorentine degli anni
trenta non si sarebbe potuto fare a meno di notare un giovane magro, simile a
Dante nelle fattezze incorniciate dalle ridicole parrucche dell’epoca.
Occhi
neri brillanti e mobilissimi, mento prominente e naso adunco erano segni d’un
uomo prono alla satira che era sempre pronto ad esprimere senza curarsi delle
occasioni o della compagnia. A chi n’avesse domandato si sarebbe risposto che
egli era il Dottor Tommaso Crudeli del Casentino, asmatico e tubercolotico, ma
dal fine talenta e la parlata deliziosa, popolare sia tra i fiorentini sia gli
stranieri a causa dei propri modi affabili.
Nacque
a Poppi nel 1703 da famiglia agiata, alcuni membri della quale ebbero alti
incarichi nella Chiesa. Dopo essere stato educato da buoni maestri a Firenze,
ove egli fu esposto alle nuove idee che circolavano nel periodo egli si recò, a
18 anni, all’Università di Pisa a studiare Legge.
Nel
1722 ottenne il dottorato da ambedue le Università per poi recarsi a visitare
Padova e Venezia, città nella quale divenne tutore presso la famiglia
Contarini, famiglia che aveva prodotto ben otto Dogi della Repubblica.
La
salute cagionevole lo obbligò però a far ritorno a casa e fino al 1733 egli si
divideva tra il Casentino e Firenze, città nella quale alfine si stabilì
abbandonando la pratica legale per dedicarsi ad insegnare l’italiano agli
stranieri, ed agli inglesi in particolar modo, dei quali vi era gran numero in
città.
Con
questi egli acquistò molta fama, in parte per il suo talento nell’insegnare
la bella lingua toscana ed in parte e forse più a causa dei suoi modi
piacevoli e della libertà di pensiero e d’espressione che non poteva non
piacere ai nativi del paese di Swift, Bolingbroke e Pope.
Era
nelle grazie del Residente inglese, il Ministro Charles Fane e poi di Horace
Mann del quale ne frequentava la società ed i ricevimenti; quest’ultimo si
dimostrò essere un amico costante anche nel successivo momento del bisogno.
Ci
si dice che non appena un visitatore inglese giungesse in città subito cercasse
il Dottor Cocchi per la propria salute ed il Dottor Crudeli per curare la
propria ignoranza dell’italiano.
“Neppure
i più severi attacchi d’asma riuscivano a fiaccare il suo spirito, che
rimaneva sereno e tranquillo” dice il suo biografo italiano, “né lo
dissuadevano dal cercare avventure nel dominio di Citèra, dal quale egli non
sempre ritornava indenne.”[liii]
Oltre
ad essere spiritoso ed amante della conversazione, Crudeli era anche poeta
d’una certa vena lirica leggera, così come i tempi imponevano; in breve, uno
dei molti gentiluomini che si dilettavano di scrittura.
Innamorato
d’ogni novità come la maggior parte dei suoi concittadini, quando seppe dagli
inglesi delle riunioni massoniche di Via Maggio ne bramò il poterne
partecipare, anche se per un certo periodo la paura di incorrere nelle ire della
Chiesa ve lo tenne lontano.
Avendo
però udito che personaggi come Cocchi, Galassi, il Portastendardi del Duca, e
due frati agostiniani irlandesi del convento di S. Spirito erano divenuti membri
della Loggia egli si risolse a chiedere l’iniziazione nel 1735 e tale fu il
suo entusiasmo per le nuove cerimonie e per le discussioni che avvenivano ai
successivi banchetti che presto divenne uno dei fratelli più zelanti della
Loggia, al quale fu affidato l’ufficio di Segretario.
Per
quanto invece riguardava il mondo in generale, egli viveva senza ambizione di
eccellere in alcunché di particolare né di diventare poeta di fama,
accontentandosi di trascorrere i suoi giorni tra amici scelti senza riguardo al
domani che, essendo questo incerto per ogni uomo, vieppiù lo era per lui.
Distrazioni
e divertimenti erano lo scopo della sua vita, ancor più di quanto fosse stato
saggio indulgervi per il suo buon nome, mentre nelle sue composizioni satiriche
egli talvolta eccedeva i limiti imposti dalla stessa decenza e dalle buone
maniere.
La
corte e la città di Firenze gli fornivano sufficienti modelli d’iniquità da
bacchettare e, nel farlo, il Crudeli non vi andava certo coi piedi di piombo.
Era usanza dell’epoca il non lesinare nel rimarcare errori e peccatucci altrui
in modo pesante, così come abbiamo ripreso oggi a fare e non vorrò certo
essere io a negare la rudezza delle espressioni del Crudeli nel mettere alla
berlina, in modo spesso rapido e pesante, le manchevolezze di più d’un figlio
della Chiesa, specie, questa, contro la quale volentieri si accaniva con
particolare indulgenza, essendo alcune di queste grezze tirate ricordate in
seguito per anni dopo il proprio pentimento.
Il
di lui biografo Sbigoli ci racconta di un paio d’aneddoti dovuti alla lingua
senza freni del Crudeli, il primo relativo all’avviso alquanto profano da lui
rivolto ad un padre gesuita alla ricerca d’un libro sacro in un negozio
specializzato in pubblicazioni d’altro genere, ed il secondo relativo al suo
stuzzicare un ignorante prete di campagna.
Senza
dubbio, Crudeli era sempre troppo pronto a cercare una vittima clericale da
prender per i fondelli, abitudine che fu infine annotata da chi di dovere così
che, al momento debito, sia il Nunzio sia l’Inquisitore principiarono a porsi
dei dubbi sia sulla fede sia sulla morale di quel poeta scapestrato e buffone.
Dei
risultati di tali ricerche ne saprete più che abbastanza prima della fine di
questo saggio.
UNA SECONDA LOGGIA
A FIRENZE?
Lo
Sbigoli, senza rivelarne le fonti, ci riferisce[liv]
di un’altra comunione massonica che si riuniva a Firenze in quegli anni senza
che vi fosse alcuna connessione eccetto quella della comune fratellanza, con la
Loggia di Middlesex. Se tali fatti corrispondessero a verità, si sarebbe
trattato d’una associazione meno aristocratica e conos iuta dell’altra.
“Durante
gli ultimi anni del Granduca Gian Gastone viveva a Firenze un certo signor Reid,
il quale essendo male in arnese, e conoscendo la sete di curiosità dei
fiorentini, si teneva sempre aggiornato e ben informato sulle dicerie e le voci
di città per eventualmente poterne trarre un qualche vantaggio.
Non
appena a Firenze si ebbe notizia della Loggia e del segreto inviolabile imposto
sui suoi membri, molti cittadini ne cominciarono a chiedere notizie, mentre non
pochi n’agognavano l’ingresso. Il Reid, anch’egli massone, non fu certo
lento nel soddisfare quei desideri, riuscendo a far ammettere alcuni tra i più
facoltosi di costoro in quella Società misteriosa.
Secondo
la documentazione[lv]
vi erano circa 60 membri fiorentini i nomi di molti dei quali sono sconosciuti
mentre non vi è certezza che i pochi nomi noti appartenessero realmente a
membri di quella Società.”
Ecco
che qui abbiamo nuovi elementi di speculazione. Forse il bisognoso Sig. Reid
inaugurò ciò che i nostri fratelli d’oltre oceano chiamerebbero una
“campagna vendite” per conto della Loggia di Middlesex, ma in tal caso quei
nuovi membri sarebbero forse stati i benvenuti forniti d’una raccomandazione
di tal fatta? Oppure il Reid si costituì una propria Loggia di tipo irregolare?
Allo stato attuale delle informazioni in mio possesso non sono in grado di
fornire alcuna risposta.
LA BURRASCA
S’APPRESTA
Abbiamo
visto di come molti dei fiorentini dei quali si sapeva l’appartenenza alla
Loggia fossero uomini d’educazione liberale e idee avanzate per quei tempi.
L’italiano medio però, ed in particolar modo gli appartenenti al clero
dovettero aver considerato quella nuova società in modo tutt’altro che
benevolo poiché essa proveniva dall’Inghilterra, e non era forse quel paese
la Mecca d’innumerevoli eresie?
Vi
era però appoggio anche da parte della Chiesa. Nel 1735, prima cioè che la
Società fosse proibita dal Papa, la Loggia iniziò due frati agostiniani del
convento di Santo Spirito di nome Denij e Flud;[lvi]
ambedue irlandesi ed ambedue oggetto, con particolare riferimento al secondo, di
severa persecuzione nel loro paese ai danni della religione Cattolica romana.
Ad
ogni modo, l’esempio dato dall’ingresso di simili pie persone contribuì a
por fine ai dubbi di coloro che fossero voluti essere ammessi alla Loggia ma se
ne trattenevano per paura o per scrupolo.
In
generale, quegli italiani che lasciarono prevalere il loro senso di prudenza
sulla curiosità si dimostrarono più saggi degli altri perché entro un paio
d’anni dall’ingresso di Middlesex la Loggia divenne oggetto d’attenzione
da parte dell’Inquisizione, e l’essere sotto osservazione del Sant’Uffizio
era l’ultima cosa che ogni italiano avrebbe voluto attrarre su se stesso.
Il
Lagomarsini, un gesuita, fece apertamente allusione ai frammassoni nel periodo
della guerra dei libri che si svolse tra il suo ordine e quello degli Scolopi[lvii]
a Firenze nel 1737 asserendo che a quella Società, sebbene ancora non proibita
da Roma, non sarebbe stato concesso di esistere a lungo in Italia, avendogli il
Papa posto gli occhi addosso.[lviii]
Naturalmente
il Lagomarsini attribuiva strane dottrine alla nostra fratellanza: egli dichiarò
che una delle pietre miliari della frammassoneria era quella di non permettere
la lettura di alcun libro che fosse stato scritto da gesuiti ma anzi, al
contrario, comprare e leggere scritti dei loro opponenti, e conseguentemente
nelle nostre Logge le Lettere Provinciali
di Pascal erano considerate alla stessa stregua della Bibbia: tutto ciò può
apparirci ridicolo, sebbene si possa dire di come le controversie non abbiano
mai alcun senso del comico.
Il
Dottor Lami, anch’egli ritenuto essere un massone, replicò con una satira
feroce a questa diatriba, una satira nella quale egli inserì una difesa dei
frammassoni.[lix]
Le loro riunioni, egli disse, sono segrete, ma rette sono le aspirazioni ed il
comportamento, e stupido è da parte dei loro opponenti l’attaccare “ questi
nuovi misteri eleusini” alla celebrazione dei quali egli peraltro non aveva
mai assistito.
Il
Lami terminava poi suggerendo, in accordo coi gusti e le maniere del secolo,
l’uso molto basilare cui gli offesi massoni avrebbero potuto destinare il
libro del Lagomarsini e gli altri dello stesso genere.
I
gesuiti contrattaccarono bruciando pubblicamente la satira del Lami ed arrivando
fino ad influenzare Clemente XII, cieco e malato, succube del nipote il
Cardinale Corsini, il quale, nel giugno 1737 convocò a Roma l’Inquisitore
Capo di Firenze Paolo Antonio Ambrogi che incontrò i Cardinali Ottobini,
Spinola e Zondadari a proposito della nuova fratellanza sulla quale si
raccontavano strane vicende.
Nel
corso di tale consesso si dice che un’attenzione particolare fosse data al
segreto osservato dai frammassoni nonché ai giuramenti ed alle varie pene a
quelli associate che venivano estratte agli iniziati.
Il
risultato ultimo di questo conclave fu il redigersi della famosa bolla
pubblicata il 28 aprile dell’anno successivo dove, per la prima volta, la
Società dei frammassoni veniva proibita e scomunicata. Il 25 giugno 1737 è la
data alla quale la Società veniva condannata nel corso di una riunione
dell’Inquisizione tenutasi a Roma.[lx]
L’INQUISIZIONE
PASSA ALL’AZIONE
Molto
tempo prima dell’accadersi degli eventi ai quali abbiamo fatto riferimento,
l’Inquisitore Capo Ambrogi teneva costantemente informato il Sant’Uffizio a
Roma riguardo alle riunioni dei frammassoni.
Egli
aveva già ricevuto diverse denuncie di quella società, anche se non è dato
sapere se si facesse riferimento a fatti realmente accaduti o a dicerie riferite
da voce di popolo, e ad un certo momento del 1737, la data precisa del quale non
sono stato in grado di scoprire, egli riuscì ad ottenere l’aiuto del Braccio
Secolare (Braccio Regio) contro i Frimmessons,
nome con il quale la società dei frammassoni era nota a Firenze.
Non
avendo avuto alcun successo nel convincere l’Auditore Pini, si risolse a
recarsi direttamente a Palazzo Pitti dove, nell’anticamera del Granduca ebbe
un incontro con Rucellai[lxi],
al quale si rivolse con gran veemenza a proposito della Loggia (congrega),
riferendosi a quella come a pericolosa setta ereticale.
Non
avendo ottenuto le risposte desiderate da parte del Rucellai, dopo molta
insistenza ottenne udienza personale da Gian Gastone, ormai moribondo. Alla sua
richiesta al Duca di garantire, così come avrebbe fatto il Santo Padre,
l’intervento del Braccio Secolare contro la società dei frammassoni,
n’ebbe, suo malgrado, netto rifiuto, ed anzi l’assicurazione che, nel corso
di quelle riunioni, nulla di male vi fosse perpetrato[lxii].
Antonio
Zobi nel suo Storia Civile della Toscana[lxiii]
inserisce il seguente passaggio a proposito dell’Inquisitore Paolo Antonio
Ambrogi, ed io ne faccio riferimento più che altro per la relativa tempistica
piuttosto che quale indicazione delle determinazione con cui egli si adoperava
per i propri scopi dopo la morte di Gian Gastone, allorquando Francesco di
Lorena prese possesso del Ducato:
“Un
motivo più segreto ne influenzava (ad
Ambrogi) lo spirito inquieto, la sua intenzione di scoprire i segreti della
frammassoneria. Egli approfittò dell’arrivo del Duca per accusare tutti i
Ministri, con la sola eccezione del Segretario di Stato, di avere scarso
rispetto per la Chiesa, e supplicò l’arresto di tre persone. Il Dottor
Tommaso Crudeli, poeta e letterato, che l’Inquisitore odiava da lunga data, fu
la prima vittima designata … e venne tradotto alle prigioni
dell’Inquisizione nel famoso Convento di Santa Croce. Fu solo una coincidenza
se anche Giuseppe Cerretesi non venne arrestato, poiché il Conte di Richecourt,
stizzito per il destino del Crudeli, si oppose a quel nuovo arresto con le
unghie e coi denti. Il nome della terza vittima potenziale non venne mai
rivelato, anche se il probabile candidato al sacrificio era l’Abate Ottaviano
Buonaccorsi, che venne risparmiato a causa del proprio pessimo stato di
salute.”
Tutto
ciò, naturalmente, avvenne un anno dopo, ma è qui importante il rammentare che
mesi prima dell’apparire della famosa Bolla In
Eminenti contro i frammassoni, la società era già divenuta molto sospetta
agli occhi della Chiesa Cattolica Romana.
E
non fu solamente tra il clero e i devoti che la Loggia appariva sospetta: molti
tra gli uomini di stato, infatti, si sentivano messi a disagio dalle nuove idee
di governo, allora aliene all’istituzioni italiane, che quella avrebbe potuto
propagandare. Il Diodati infatti, inviato della Repubblica Lucchese a Firenze,
scrisse, in quello stesso anno del 1737 diverse lettere al proprio governo in
relazione agli accadimenti della Loggia e dei suoi membri.
Il
colloquio tra l’Inquisitore e Gian Gastone dette la stura a numerose
chiacchiere ed illazioni, alle quali il Diodati tentò di dar forma e senso in
una lettera del 16 giugno ai suoi capi, lettera che è per noi importante per le
informazioni in quella contenute sulla Loggia ed i suoi appartenenti[lxiv].
Eccone un breve resoconto.
“A
Firenze si è stabilita un’assemblea di frammassoni, ad imitazione di simili
società esistenti in Inghilterra, per l’opera di Lord Middlesex, di un altro
inglese il cui nome resta sconosciuto, del Barone Stosch di Hannover, e di un
Ebreo, anch’esso ignoto. A questi membri originali si sono aggiunti alcuni
toscani comprendenti membri della nobiltà e del clero, e semplici cittadini”.
L’Inviato
aggiungeva che, anche se il governo avesse risolto di dissolvere quella società
a Firenze, la cosa non sarebbe certo stata facile a causa del disordine che
regnava nell’apparato statale e dell’incerta condizione politica creatasi a
conseguenza della condizione morente del Duca.
Una
delle conseguenze della lettera del Diodati fu che le autorità lucchesi si
attivarono subito per prevenire la possibile nascita di una loggia nella loro
repubblica, e poiché gli abitanti di Lucca del diciottesimo secolo non erano
certo inclini alle novità come invece lo erano stati quelli del sedicesimo, non
vi è segno, allora ed in seguito fino agli ultimi giorni della repubblica,
dell’esistenza dei frammassoni in quel piccolo stato italiano.
DISSOLUZIONE DELLA
LOGGIA A FIRENZE
A
Roma, dopo lunga deliberazione venne emessa da Clemente XII, il 28 aprile 1738
la Bolla In Eminenti. Del documento ne sono disponibili molte traduzioni, sarà
quindi sufficiente il ricordare che in questo decreto il Papato attribuisce alla
fratellanza carattere sovversivo a causa del segreto che veniva osservato nel
corso dei nostri lavori usando queste parole: nisi
enim male agerent, tanto nequaquam odio lucem haberent. In una parola, la
Chiesa condannava la Massoneria in quanto pericolosa per l’anima, proibiva ai
cattolici di unirsi all’Ordine, ed ordinava a Vescovi ed Inquisitori di
considerare eretici i membri di quell’associazione e perseguirli come tali.
Al
Consiglio di Reggenza fiorentino, così come ai frammassoni stessi, la Bolla non
fece certo piacere: non venne in ogni modo concesso di applicarla in Toscana,
poiché il governo del Duca Francesco, considerando la massoneria una società
civile e non una religione, si oppose a quest’interferenza nel potere dello
stato.
L’effetto
però sull’uomo della strada fu grande ed immediato ed i fiorentini che erano
stati ammessi all’Ordine, una volta venuti a conoscenza del veto papale, vuoi
per scrupolo religioso, vuoi per tema del Sant’Uffizio, cessarono di praticare
le riunioni della Loggia.
Anche
il Signor Collins, nella cui casa i massoni si riunivano, si spaventò e dopo
essersi consultato con Crudeli, che all’epoca fungeva da segretario, i due si
risolsero a parlarne con Charles Fane, il Residente inglese.
Tutto
ciò si spiega facilmente con il fatto che essendo stato Middlesex sostituito
alla guida della Loggia da Lord Raymond, uno scriteriato giovinastro, vi era
motivo di ritenere che questi non sarebbe stato in grado di evitare lo scandalo.
Con
l’assistenza delle virtù diplomatiche del Fane, che deve aver ben realizzato
la delicatezza della situazione nella quale i frammassoni inglesi si ritrovavano
in seguito all’emissione della Bolla papale, si riuscì a persuadere Lord
Raymond a dissolvere la Loggia. Da quel momento sappiamo che né inglesi né
fiorentini ebbero più a riunirsi come riunione massonica coperta (in assemblea ordinata).
Se
mai si possa provar soddisfazione alla chiusura di una loggia massonica, pure in
questo caso possiamo forse indulgere in tale sentimento, poiché l’intero
incidente rimane un tributo al buonsenso che ha spesso distinto la
frammassoneria inglese.
Quando
infatti i fratelli scoprirono che la pianticella che essi avevano trapiantato su
suolo italiano non era adatta a quel clima, piuttosto che permettere che
degenerasse dall’originale radice generosa in qualcosa di più simile ad una
pianta tossica, essi saggiamente preferirono d’estirparla.
Nel
far calare il sipario su quest’episodio vorrei far notare di come si tratti
dell’unico caso del quale io sia a conoscenza della frammassoneria che possa
aver causato disturbo ad una qualsivoglia Cancelleria europea poiché, come
vedremo, il guaio fatto non ebbe a dissiparsi interamente con la dissoluzione
della loggia.
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PARTE 2.
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L’INQUISIZIONE
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L’ULTIMO DEI
MEDICI
Il
9 luglio 1737 Gian Gastone, ultimo Gran Duca della famiglia dei Medici moriva a
Firenze. La sua morte dette al partito clericale nuove speranze di ottenere più
poteri nello stato di quanti già n’avesse al momento della sua incoronazione
nel 1723.
Tale
speranza si basava in massima parte sull’influenza che si sapeva esistere da
parte dell’Elettrice Palatina in tutto ciò che riguardava il nuovo regno,
poiché il Granduca Francesco di Lorena n’aveva ammirazione a punto tale che
ebbe a offrirle in due occasioni la Reggenza di Toscana, e anche dopo che ella
ebbe rifiutato, si notò nondimeno che il Principe di Craon, capo del nuovo
governo reggente, fu sempre pronto nel mostrarle la più gran deferenza dal
primo momento del suo arrivo in Toscana.
Questa
devota signora, Anna Maria, figlia di Cosimo III e sorella di Gian Gastone al
quale fu sempre tuttavia estranea, era la vedova di Giovanni Guglielmo, Elettore
Palatino.
Estremamente
ricca, si dedicò a patrocinare ogni forma d’arte, essendo essa stessa
pittrice di qualche talento, sebbene il grosso delle ricchezze ed energie essa
dedicasse ad opere di bene.
Al
momento della sua morte, il 18 febbraio 1743 si stimò che ella spendesse 1000
corone alla settimana per la costruzione della cappella di San Lorenzo, mentre
per molti anni in precedenza aveva dedicato almeno 1000 zecchini al mese alle
opere caritatevoli.
Il
di lei senno, tatto, e gentilezza di cuore sono perfino evidenti nel testamento,
così come Mann ebbe a scrivere a Walpole riguardo a quel particolare documento:
“Si
dice in città che v’è una donazione per il re d’Angheterra (in italiano
nel testo), ma ho paura[lxv]
si tratti di qualcuno che essa chiama così a Roma …tutto ciò io
m’aspettavo, sebbene sia da notarsi la delicatezza e la circospezione del dono
– un anello – per il Principe, figlio di Re Giacomo II d’Inghilterra”.
Se
un simile personaggio si fosse dedicato alla politica, allora sì che il clero
avrebbe potuto ben cullare più alte speranze di incrementare la propria
influenza, vieppiù che confidente e confessore di questa “Eroina del suo
secolo” era padre Ignazio Giacomini, della Società dei Gesuiti.
LA SITUAZIONE A
FIRENZE DAL 1737
Perfino
dopo che i frammassoni ebbero cessato di riunirsi a Firenze, si continuò a
sospettare che essi avessero potuto introdurre nuove e pericolose idee sulla
religione e sul governo nella società; si capirà facilmente quindi di come,
nel periodo degli ultimi mesi di vita della loggia fiorentina, ecclesiastici
della vecchia scuola rimanessero molto interessati a scoprire quanto possibile
dei segreti massonici.
Secondo
lo Sbigoli, l’Arcivescovo di Firenze ed il Nunzio papale, assieme con
l’Arcivescovo di Corinto Stoppani erano da annoverarsi tra coloro che più
perseguivano tale fine mentre l’Inquisitore Ambrogi, che ebbe non secondaria
parte nell’applicazione della Bolla papale, si adoperava attivamente in cerca
d’ogni segnale di possibile informazione.
Per
quello che riguarda gli eventi successivi, non è facile essere precisi con le
date relative ad ogni specifica occorrenza. Degli accadimenti che si
susseguirono noi sappiamo da documenti giurati, mentre troppo spesso l’anno ed
il mese, per non dire il giorno è lasciato alla congettura, conferendo al tutto
un’aura di vaghezza, che nessuno deplora più di me medesimo, la quale offusca
ed affievolisce le manovre messe in atto dai cani da guardia
dell’Inquisizione.
E’
in ogni modo certo che alcuni tra il clero minore, forse più loquaci che
discreti, categoria nella quale ho tema debbano annoverarsi i nostri frati
irlandesi, furono condotti alla prigione di Santa Croce in quanto sospettati di
essere a conoscenza di fatti inerenti alla misteriosa fratellanza dei
frammassoni; il 9 giugno 1738 un prete di nome Bernini venne a lungo interrogato
dall’Inquisizione sui suoi contatti coi visitatori inglesi e sottoposto alla
solita pressione fatta di minacce e lusinghe per indurlo a rivelare quanto
sapesse.
Alcune
delle domande che gli furono rivolte mostrano chiaramente cosa ci si aspettava
che questi rivelasse, poiché gli si chiese se Tommaso Crudeli, gli Abati
Franceschi e Buondelmonti ed il dottor Luca Corsi erano dei frammassoni. Il
Bernini in ogni caso, anche se sapeva qualcosa, cosa sicuramente incerta, non
disse alcunché, ma quest’incidente rimase ad indicare le linee d’azione
lungo le quali ci si muoveva.
Nel
frattempo si preparavano in segreto, contro certi fiorentini, le accuse che poi
sarebbero state rese pubbliche al momento opportuno, cioè quando il governo
avesse finalmente concesso il permesso per il loro arresto.
Ciò
che però l’Inquisizione aveva più di tutto a cuore era l’ottenere un
decreto di bando da Firenze d’alcuni stranieri, in primo luogo inglesi.
All’inizio della lista, quale capo dei criminali, eravi il Barone
Filippo von Stosch poiché quest’antiquario e tessitore d’intrighi era
odiato e temuto assieme, e riuscire ad espellerlo avrebbe significato, secondo
l’Inquisizione, recidere alla radice la cospirazione, naturalmente senza
prendere in considerazione ciò che il Residente Inglese avesse avuto da dire
sulla vicenda.
In
pratica, l’infido Barone Prussiano era al servizio del governo inglese, anche
se malvisto dagli inglesi residenti in città, cosa che gli assicurava un certo
grado di protezione; tale status fece sì che la sua espulsione, dopo essere
stata decretata, fosse differita inizialmente di qualche tempo alfine di
acquietare le proteste di Sir Horace Mann, e poi posposta sub
silenzio alle calende greche[lxvi].
La
difesa di Mann del Barone non cadde su orecchie sorde poiché il Consiglio della
Reggenza era composto da uomini poco inclini ad inginocchiarsi ai voleri ed alle
interferenze clericali negli affari secolari.
Il
lorenese Conte Emanuele di Richecourt, Primo Ministro virtuale ed il fiorentino
Giulio Rucellai, Segretario del Regio
Diritto, dipartimento che si occupava delle relazioni tra la Chiesa e lo
Stato, erano ambedue aperti opponenti dell’usurpazione clericale[lxvii];
ed anzi si mormorava trattarsi di frammassoni.
Erano
invero valenti e risoluti uomini di stato, degni di ricoprire incarichi ben
maggiori di quelli offerti dal piccolo Granducato di Toscana.
Mentre
la tempesta ancora si addensava sul capo dei frammassoni, il governo reggente,
nell’agosto del 1738 già incrociava le spade con il Sant’Uffizio per uno
scandalo causato dal comportamento di un indegno prete di Siena, ed iniziava
un’inchiesta sulle procedure adottate dal Sant’Uffizio stesso in Toscana
alfine di preparare un rapporto per in nuovo Granduca, che non aveva ancora
avuto alcun’opportunità di essere messo a parte di quei metodi nella sua
nativa Lorena, ove il Sant’Uffizio non fu mai operativo; queste frizioni
tendevano a diminuire ulteriormente il poco affetto esistente tra la Reggenza e
l’Inquisizione a Firenze.
Francesco
fece la sua prima apparizione nel Granducato, assieme con sua moglie Maria
Teresa il 19 gennaio 1739 ricevendone un caloroso benvenuto dalla popolazione,
che fu felice di conoscere il nuovo sovrano e sperò che egli rimanesse a
Firenze se solo gli avessero dimostrato lealtà. In ogni modo, burle in versi
dell’epoca mostrano di come la dinastia dei Lorena e i lorenesi in genere i
quali formavano il governo non fossero popolari con coloro che ricordavano il
passato regime mediceo:
“Lotto, lusso, lussuria e lorenesi,
Quattro
L c' han rovinato i miei paesi”
Ed
anche
“Co’ Medici un quattrin facea per sedici;
Dacché abbiamo la Lorena, non si desina né si cena”.
Le
osservazioni del viaggiatore francese Carlo de Brosses, che visitò Firenze
nell’ottobre del 1739, serviranno a commentare codeste rime popolari[lxviii]:
“Invero
la Toscana ha sofferto gran perdita con la fine dei Medici. I fiorentini essendo
così convinti di ciò che non vi è alcuno che volentieri non darebbe un terzo
dei propri averi per vederli risorgere dai morti, ed un altro terzo per
liberarsi dai Lorenesi. Niente può eguagliare il dispregio con il quale questi
ultimi son visti a Firenze, se non l’odio mostrato dai milanesi ai piemontesi
… così che, a Firenze, noi francesi siamo ben visti ovunque, ed i lorenesi in
alcun luogo … E’ vero che i lorenesi li hanno maltrattati, e ciò che è
peggio, disprezzati. Il Signor de Richecourt di Lorena, quale plenipotenziario
del Maestro suo, è uomo di risorse e di talento, come ognuno sa, ma mi si dice
che egli non abbia avuto molto tatto nel gestire un governo fatto da stranieri.
Si direbbe che i lorenesi guardino alla Toscana come ad una terra di soggiorno
temporaneo, ove si debba prendere tutto ciò che si può senza curarsi del
futuro.”
A
parte lo scarso successo del suo governo, Francesco era uomo d’idee liberali
che sperava poter fare del suo meglio per i nuovi sudditi, a patto non fosse
costretto a viverci assieme.
Nei
fatti di religione si mostrava molto tollerante, ma come re intendeva essere
padrone in casa propria, male accettando le pretese dell’Inquisizione di
ergersi a legge in se stessa.
Non
vi è dubbio che esistesse un reale timore del Sant’Uffizio, e di come questo
timore fosse ancora più forte nel caso di stranieri, così come dimostrato dal
comportamento del famoso archeologo Valentino Jamaray Duval[lxix],
amico e protégé di Francesco, che lo
accompagnò a Firenze, ed avendo udito di come l’Inquisizione permeava la vita
d’ogni giorno della società toscana fu spaventato a tal punto che chiese
permesso di far ritorno a Nancy all’istante, né si calmò alla solenne
promessa fattagli dal Granduca di proteggerlo in ogni caso dal Sant’Uffizio.
Il Duval obbiettando, infatti, che per quanto gli fosse dato sapere, ogni
protezione sarebbe stata insufficiente; al che Francesco si risolse a adoperarsi
per far terminare un simile stato di cose.
Parole
coraggiose, sebbene il Duca non fosse, in effetti, libero di fare come avrebbe
voluto, com’ebbe presto a scoprire. Vi era, infatti, un naturale timore
d’offendere la Chiesa, ferendola nella propria stretta ortodossia, cosa che
egli sempre rispettò. Il Granduca dovette inoltre considerare la noia che
dimostravano toscani ad esser assoggettati ai loro padroni stranieri: essi non
avrebbero accettato alla leggera cambiamenti d’antiche usanze, non importa
quanto fastidiose; sono fattori come questi che probabilmente fecero scaturire
dei dubbi nella mente del sovrano ed incertezze nella sua politica.
PUPILIANI E
L’INQUISIZIONE
La
curiosità, così almeno ci assicurano i bene informati, è sempre stata un
tratto caratteristico del temperamento dei fiorentini; così che, dissolta la
loggia inglese, l’interesse venne ora a concentrarsi sulla biblioteca di
Stosch, dove alcuni dei vecchi membri continuarono ad incontrarsi a porte
chiuse. Molti curiosi si sforzavano di scoprire che cosa mai accadesse nel corso
di questi incontri, poiché essendo Stosch uno straniero ed un protestante, o
peggio, un libero pensatore, ed essendo stata la sua condotta morale alquanto
riprensibile, egli forniva abbastanza materiale speculativo riguardo a sospetti
e supposizioni da poterne interessare una moltitudine.
Uno
tra i più attivi ricercatori delle conoscenze segrete di questo tipo era un
certo Bernardino Pupiliani di Firenze, medico di una certa notorietà e che
diverrà in seguito professore presso di una delle scuole mediche della città.
Essendo
costui buon amico dell’Abate Ottaviano Buonaccorsi fu per il di lui tramite
che il nostro addivenne alla conoscenza del Barone Enrico von Stosh, fratello
minore dell’archeologo. Il Barone Enrico occupava un’appartamento nel
palazzo del fratello e nel fargli visita, in diverse occasioni il Pupiliani si
avvide di un certo numero di persone che frequentava quei quartieri ad orari
diversi sia del giorno che della notte.
Domandatone
la ragione al Buonaccorsi, ed in particolare se si trattasse dei frammassoni, ne
ebbe come risposta che costoro si ritrovavano negli appartamenti del Barone
Filippo per discutere questioni di teologia e filosofia quali: se la terra si
muovesse, se l’animo fosse immortale, se il mondo fosse governato da Dio o dal
caso, dell’esistenza del purgatorio e via di seguito. Ma se in quella casa si
svolgessero lavori massonici veri e propri, però, il Buonaccorsi non seppe
dire.
Il
Pupiliani si diede a ripetere in giro quanto aveva saputo, abbellendolo vieppiù
con conoscenze più o meno personali riguardo alla massoneria, così da far
intendere che egli stesso fosse parte della confraternita. Simili peccatucci di
vanagloria, sebbene non passassero inosservati, avrebbero anche potuto non dare
adito a serie conseguenze non fosse stato per un’affare di sottane, che portò
infine il Pupiliani all’esilio e peggio.
La
Dalida di Pupiliani si chiamava Caterina Giardi, e quando essa si accorse che il
focoso amante andava via via raffreddandosi, e che anzi non aveva alcuna
intenzione di menarla in isposa, trovò un modo migliore per trattate con quel
villano che non limitarsi all’altero silenzio e lo denunciò quindi al
tribunale per averla sedotta.
D’un
tratto il Pupiliani si trovò a confrontarsi con una serie d’alternative,
tutte alquanto fastidiose: sposare la donzella o dotarla di una dote, oppure
ancora essere bandito dalla città o imprigionato, poiché tali erano le
condanne civili che pendevano siccome spada di Damocle sui Casanova fiorentini
dell’epoca.
Come
se ciò non bastasse, il caso aveva attirato anche l’attenzione del
Sant’Uffizio sul nostro giovane, cosa che procurava al bravo dottore non pochi
grattacapi.
Egli
era in tale palude impantanato quando, per la ricorrenza della domenica di
Pasqua, il 29 marzo 1739 il Pupiliani, in omaggio all’uso di confessarsi
invalso per quell’occasione anche tra coloro che usualmente ne facevano a
meno, decise di recarsi da un suo amico, il Canonico Guadagni, per la
confessione pasquale.
Il
Canonico offrì il proprio religioso conforto all’amico consigliandolo quindi,
prima di procedere alla confessione vera e propria, di passare un breve periodo
di riflessione in una certa casa che i gesuiti mantenevano a quei fini. Colà
egli si fece confessare da Padre Pagani il quale, sentendo dal suo penitente che
si poteva trattare di fatti in qualche modo inerenti la fede, dichiarò di non
possedere, in quel caso, potere d’assoluzione, ed anzi Pupiliani avrebbe
dovuto autodenunciarsi all’Inquisizione.
Il
dottore, però, era di tutto fuorché contento di dover andare a sfrucugliare in
una tana di leoni e prese tempo, fintantoché le insistenze dei gesuiti e del
Guadagni non lo convinsero a confessarsi con un giovane Frate del Sant’Uffizio
fatto arrivare apposta per la bisogna.
L’inquisitore
gli domandò se egli non avesse mai discusso di certe dottrine con persone quali
il Crudeli, Buondelmonti, Franceschi, Buonaccorsi e Rucellai, che si pensava
fossero massoni, e quando non riuscì ad ottenere nulla d’importante a questo
proposito, passò a chiedere delle conventicole che si tenevano in casa di
Stosch, domandando se le persone suddette fossero frequentatori del luogo. In
particolare si chiedeva se Pupiliani non avesse mai udito il Crudeli offendere
la religione, ed avendone ancora ricevuta risposta negativa, se il Pupiliani lo
considerasse essere un buon cattolico, al che la risposta fu: “Beh, così e
così!”.
Dopo
aver scritto tutte le risposte, l’Inquisitore impose al Pupiliani l’obbligo
di segretezza e gli amministrò l’assoluzione, congedandosi dal proprio
penitente.
Dopo
alcuni giorni Pupiliani, su consiglio del Canonico Guadagni lasciò Firenze per
Livorno per qualche tempo, mettendosi in salvo dalla signorina Giardi ed
evitando di attirarsi nuove attenzioni da parte del Sant’Uffizio.
In
questo modo si ottenne materiale prezioso per l’accusa a Stosch, Crudeli e
agli altri nei libri neri dell’inquisizione, cominciando a montare il caso
secondo cui il Barone prussiano era un disseminatore d’eresia, mentre gli
altri dovevano essere suoi accoliti e sostenitori.
In
ogni modo, l’Inquisitore Capo Ambrogi non aveva intenzione di perseguire i
frammassoni solo per eresia senza allo stesso tempo accusarli di turpitudine
morale, così com’era stato fatto prima di loro, per i templari e per le sette
eretiche in generale, compresi gli stessi primi cristiani.
Ogni
bastone è buono per battere un cane, ed ogni prova sufficiente per una
condanna, se già si è certi della colpevolezza del reo: così pensava il Padre
Inquisitore, e quando la fortuna gli mise tra le mani un certo Sir Andrew
Aguecheek, toscano, egli prontamente lo accettò come testimone chiave per il
processo.
MINERBETTI
Andrea
d’Orazio Minerbetti era a buon ragione da annoverarsi tra i genuini
discendenti di coloro che, in epoca elisabettiana, furono noti con il termine di
“Cavalieri Stolti”.
Di
nascita considerevolmente migliore del proprio cervello, questo giovane
gentiluomo era noto a Firenze, così come appare dalla dichiarazione giurata
d’un contemporaneo, per essere uno stolto calzato e vestito, la cui vanità
faceva il paio con la di lui dabbenaggine.
Avendo
appreso, da voci di popolo, di come molte tra le persone più in vista della
città fossero divenute membri della Società dei Frammassoni, egli fece del suo
meglio pur di ottenere un simile privilegio, spargendo nuova ad ampie mani, e
senza riserbo alcuno, del suo desiderio di far parte della società: un metodo
questo, di cercar l’iniziazione, che dimostra di come, in effetti, la sua
nomea di grullo della città fosse ben meritata.
Naturalmente,
egli alfine succedette nel trovare ascoltatori più che bendisposti a trattarlo
come si meritava; la sua ricerca della vera luce divenne infine la favola della
città, disposto com’era a bersi le panzane più sonore al riguardo di ciò
che succedeva in una loggia massonica.
L’iniziazione
in loggia, o l’ammissione alle conventicole che si tenevano in casa Stosch
erano per lui la stessa cosa, ed i suoi tormentatori gliele facevano volentieri
entrambe balenare d’innanzi come accadimenti fantastici ed elusivi.
Tra
coloro ai quali il Minerbetti si rivolgeva alla ricerca d’informazioni
sull’Ordine Massonico (così come appare dalla suddetta deposizione) vi era un
certo nobile e rispettato Protestante, il cui nome non è registrato, il
quale riempì la testa del povero giovane d’un mucchio di sudicie ed indecenti
scempiaggini su quanto avvenisse nell’abitazione di Stosch.
Il
Cocchi stesso, nel suo diario (21 settembre 1739), suggerì che l’autore di
simili pornografiche sciocchezze altri non fosse che il Barone Stosch medesimo,
che egli dipinge come “uomo invero maligno, narratore di fole da egli stesso
inventate, che possono aver originato tale supposizione.”[lxx]
In
ogni caso, che Stosch o qualche atra testa matta s’inventassero tali panzane
per accertarsi della creduloneria del Minerbetti o quale mezzo per smorzarne le
aspirazioni, il sempliciotto le accettò come se si trattasse della sacrosanta
verità. Le riporterò lo stesso, ad onor del vero, in appendice a questo stesso
articolo nell’originale lingua italiana, essendomi perfino ignobile e
disgustosa la traduzione letterale.
Lo
sconosciuto informatore del Minerbetti iniziò dicendo che la gente si riuniva
nella magione di Stosch per disquisire liberamente di religione e di scienza, e
nel corso di tali discussioni, opinioni blasfeme ed eretiche erano apertamente
profferite, mentre ben poco rispetto si teneva al diritto divino del Granduca.
Quando
un neofita doveva essere ammesso a quella società il
presidente gli ordinava di prostrarsi sul pavimento, e dopo una cerimonia
alla quale sarà d’uopo non far altro cenno, gli si richiedeva di
sottoscrivere il giuramento fatto alla società con un liquido adatto a tale
uso. Dopo aver in siffatto modo trascritto il giuramento, egli avrebbe dovuto
ratificarlo stando seduto in una posizione alquanto ridicola.
Questa
storia oscena ed idiota, che non avrebbe mai potuto passar per vera da parte di
alcuno con un po’ di sale in zucca, sembrò al nostro sempliciotto
meraviglioso segreto di gran valore, ed egli si diede a riferire ciò che aveva
udito a chiunque si fosse degnato d’ascoltarlo, atteggiandosi inoltre come
colui il quale abbia avuto modo di personalmente aver veduto, udito e fatto
l’intera cerimonia; spargendo così tali falsità al solo scopo di gratificare
la propria vanità e di apparire d’una qualche importanza.
In
un certo qual senso egli vi riuscì in ogni caso, poiché un ascoltatore riferì
tali racconti al proprio Confessore l'inquisitore Ambrogi il quale prese nota
del soggetto in caso gli potesse tornar utile come testimone contro persone meno
stupide ma senz’altro più pericolose.
Così
come aveva fatto il Pupiliani, verso la fine della quaresima del 1739,
Minerbetti si recò in cerca della propria assoluzione annuale, ma il suo
Confessore si rifiutò di ascoltarlo, dichiarando che egli avrebbe invece
dovuto, a causa di ciò che aveva sentito, autodenunciarsi al Sant’Uffizio per
aver commesso gravi crimini. Tale severità venne però temperata
dall’assicurazione che egli non avrebbe dovuto aver tema per la propria
personale sicurezza. Il prete gli diede quindi una lettera di presentazione per
il Capo Inquisitore Ambrogi, che lo ricevette il giorno 4 aprile con tutta la
cortesia dovuta ad un visitatore benvenuto.
Ambrogi,
già al corrente dei fatti per via della lettera di presentazione, chiese al
Minerbetti ragione di quanto questi andasse dicendo dei frammassoni, e
particolarmente dell’oscenità di quei riti, e l’eresia delle opinioni, e
della loro mancanza di rispetto per il capo dello stato.
Il
Minerbetti, alfine conscio della falsità di quei racconti, iniziò negando ogni
conoscenza di tali occorrenze. L’Inquisitore però, già convinto di quanto i
frammassoni fossero nemici della Chiesa, non era certo disposto a perdere questa
ghiotta occasione per attaccarli, ed esortava il testimone a narrare liberamente
e senza tema: egli non avrebbe certo potuto negare, disse l’Ambrogi, di aver
udito con le proprie orecchie, molte volte ed in luoghi diversi, tali eresie, ed
aver veduto le orge coi propri occhi; molto meglio, allora, rendere confessione
piena e completa.
Il
Minerbetti iniziò quindi a capire in che mare di guai si era cacciato, essendo
l’Inquisitore ovviamente ben al corrente dell’intera vicenda. Cominciò
allora a temere che, se avesse perseverato nel negare quei fatti, sarebbe stato
arrestato e torturato pur di giungere alla confessione. Così dopo lungo
tentennare, giurò di aver veduto e udito tutto ciò che egli stesso andava
raccontando dei frammassoni.
L’Inquisitore
allora menzionò una serie di nomi di persone fino a quel momento sconosciute,
domandando se questi fossero stati presenti ed avessero assistito alle stesse
scene presso l’abitazione di Stosch. Il delatore, mezzo morto di paura,
rispose in modo affermativo per ogni nome che gli fosse detto.
Gli
fu poi chiesto chi lo avesse introdotto a quell’accozzaglia di sporchi
malfattori. Egli replicò dando il nome di Giuseppe Cerretesi, uno di coloro che
gli avevano imbottito il capo di stupidaggini per prendersi gioco di lui. Ciò
che segue è la traduzione di quella deposizione.
“
Era novembre o dicembre 1736 che io mi trovava ad essere, un giorno, al Caffè
Pannone, vicino Ponte Vecchio assieme con Cerretesi ed alcuni dei suoi amici,
quando d’un tratto egli si rivolse ai compagni e fissandoli, principiò ad
alzare gli occhi e volgere il corpo in modo alquanto strano. Mi accorsi quindi
che si trattava di un Desmason, cioè
uno dei frammassoni, e ciò vedendo e udendo quelli tanto discutere della
questione, mi risolsi a chiederne di farne parte.
Mi
diedi allora a convincere il Cerretesi per essere ammesso, ma all’inizio
questi si rifiutò, adducendo non poche difficoltà. Finalmente, egli promise di
accontentarmi, ed, infatti, mi mandò a chiamare di lì a poco dopo la
mezzanotte, e mi ammise alla casa del Barone Stosch in Piazza di Santa Croce,
ove fui ricevuto in quell’assemblea con i riti e le cerimonie già a
conoscenza di Vostra Paternità
Reverendissima.
Ebbi
a visitare quell’accademia una dozzina di volte, sempre alla notte; vi erano
presenti le persone già mentovate dalla Reverenza Vostra, e sempre il Dottor
Crudeli che esprimeva, in latino, dubbi sulla religione, e dopo aver profferito
molte eresie ed aver chiamato “somaro” San Giovanni il Battista, ci si
recava a giocare e quindi ad una sontuosa cena”.
Ad
una simile messe di nonsensi e bugie, spesso per compiacere all’inquisitore, e
parzialmente per salvarsi la buccia, il Minerbetti giurò, sebbene egli non
avesse mai conosciuto Stosch nemmeno di vista, né non n’avesse mai varcato la
soglia, com’ebbe in seguito a giurare, ritrattando la prima deposizione.
Sebbene
le dichiarazioni di una simile persona, specie se ottenute in siffatta maniera
potrebbero sembrarci di scarso valore, l’Inquisitore ne fu soddisfatto e si
congedò dal delatore in pace, anche se non siamo sicuri si potesse trattare di
pace di coscienza.
LE MACCHINAZIONI
D’AMBROGI
Le
denunce estorte al Pupiliani e al Minerbetti furono le fondamenta sulle quali si
costruì il processo contro Crudeli, Cerretesi e Buonaccorsi, con la speranza
che questo potesse essere di terribile monito ai frammassoni in generale. Per
qualche ragione, si pensò in ogni caso non essere prudente o fattibile, in quel
particolare momento, agire contro l’intera fratellanza.
Naturalmente
si badò a rastrellare molte altre imputazioni minori contro il Crudeli, così
che parole in libera uscita usate dallo stesso in diverse occasioni nei dieci
anni precedenti vennero tutte ad arte utilizzate contro il dottore casentinese.
Sarebbe inutile qui il descriverne ogni dettaglio, ci basti però sapere che lo
stesso fratello del Crudeli, tale Jacopo, reso ostile nei suoi riguardi a causa
di certe dispute familiari, lo aveva già denunciato all’Inquisizione nel 1735
per aver letto libri messi all’Indice, e questa denuncia era stata tenuta
d’acconto per utilizzarla in future occasioni propizie, tali quali ora si
presentavano.
Ambrogi
ebbe a riconoscere in ogni modo che, a dispetto della documentazione agli atti
non era cosa facile il poter mettere le mani su Crudeli, poiché si trattava di
domandarne l’arresto da parte dell’Autorità Civile; l’unica possibilità
allora essendo quella di convincere direttamente il Granduca, che era uno
straniero in Toscana, e quindi non troppo avvezzo agli usi
dell’Amministrazione.
Il
momento per mettere in atto tale finesse
era propizio poiché Francesco stava per recarsi a Vienna, dove suo cognato,
l’Imperatore Carlo VI, ne richiedeva la presenza per assumere il comando di
un’armata da inviare in Ungheria contro i turchi, ed una volta che egli si
trovasse fuori dalla Toscana sarebbe stato difficile per Richecourt o per il
Rucellai fargli fare marcia indietro, qualora avesse accondisceso alla richiesta
dell’Inquisizione.
Ci
si dovrebbe a questo punto render conto che, rancori personali a parte,
l’effettuare l’arresto di Crudeli da parte del Sant’Uffizio era cosa
altamente desiderabile da parte dell’Ambrogi, poiché ciò sarebbe stato
considerato come un recuperare, per l’Inquisizione, parte del proprio
prestigio e dell’autorità che ultimamente si era andata alquanto affievolendo
a causa di diversi scandali, nonché a causa della legislazione statale che ne
limitava l’efficacia.
Senza
alcun dubbio Ambrogi deve aver sperato che anche crudeli, vistosi in gran
pericolo, e non più protetto dall’Autorità Civile sarebbe potuto essere
indotto, con minacce e promesse, a rivelare i misteri di quella pericolosa
Società, della quale si pensava egli fosse segretario ed animatore.
Così,
non appena l’Inquisitore ebbe nelle proprie mani le deposizioni del Pupiliani
e del Minerbetti egli informò dell’intera questione il nipote del Papa, il
Cardinale Neri Corsini il quale esercitava immenso potere civile e religioso
alla corte papale, a causa del cattivo stato di salute di Papa Clemente XII.[lxxi]
In
seguito a tale comunicazione, il Corsini scrisse, il 16 aprile 1739, una lettera
al Granduca che suonava alla stregua di un ultimatum, sebbene redatta in forma
estremamente suadente e rispettosa.[lxxii]
LA LETTERA DEL
CARDINAL CORSINI SULLA FRAMMASSONERIA
La
lettera iniziava dicendo di quanto la Religione fosse, a Firenze, in grave
pericolo. Il Barone von Stosch, già noto in Olanda e a Roma per la propria
empietà e mancanza d’ogni morale, aveva organizzato nella sua casa nella
capitale toscana una scuola di Deismo assolutista frequentata da i più corrotti
tra i professori ed immorali licenziati dell’Università di Pisa, i quali
mescolavano alle loro perfide dottrine, pratiche della peggior turpitudine.
Questo
Barone ateo, sotto la protezione dell’Inghilterra sebbene odiato da ogni
inglese rispettabile, tutto osa pur di addivenire ai propri fini; e alfine di
prevenire ogni inchiesta su quanto avviene nella propria dimora, ha chiamato
frammassoneria la propria conventicola, una società fondata in Inghilterra per innocui fini ricreativi, ma che in Italia è tristemente
degenerata per divenire scuola contraria alla religione e strumento di
perversione morale.
La
lettere continuava poi pregando il Granduca di udire ciò che l’Inquisitore
Ambrogi aveva appreso dalle bocche medesime di membri fuoriusciti dalla setta i
quali, presi da rimorso, si erano autodenunciati ed avevano rivelato i nomi dei
loro complici; pregandolo vieppiù di mostrare pietà per quei giovani
dissennati i quali si erano andati imbevendo d’iniquità come se si trattasse
d’acqua fresca; poiché non solamente presso il Barone Stosch, ma anche nei
caffè e nei luoghi pubblici di Firenze la fede e la morale erano sotto attacco;
la Santa Trinità, l’Immortalità dell’Anima; l’Autorità della Chiesa –
tutto apertamente si negava; ed ogni peccato dei sensi, eccezion fatta per la
sodomia, si condonava; Così che Sua Altezza ben fatto avrebbe a mostrare
attenzione a ciò che il Grand’Inquisitore avrebbe dovuto comunicare al
riguardo di tali accadimenti.
Il
Cardinale continuava ammonendo il Duca ad estirpare tali nefandezze alfine di
ottenere la benedizione celeste nella propria prossima campagna contro i turchi.
Si domandò poi che sia il Barone von Stosh che Lord Raymond, che aveva
reputazione di essere un libero pensatore, fossero banditi dalla Toscana, mentre
si sarebbe dovuta dare autorità all’Inquisizione di procedere all’arresto
di due o tre tra i peggiori colpevoli alfine di recidere di netto le radici
dell’eresia e favorire quindi il pentimento di altri.
Seguiva
poi il suggerimento di bandire dall’Università di Pisa coloro dei quali
l’ortodossia potesse anche solo lontanamente esser messa in dubbio.
Infine,
il Cardinale si premunì di informare il Granduca che, qualora i consigli non
fossero stati accolti, la Santa Sede si sarebbe vista costretta a richiamare il
Nunzio Apostolico da Firenze, chiudendo tal elaborato documento diplomatico con
l’esortazione a combattere a casa i nemici della Fede con lo stesso zelo col
il quale si accingeva a trattare la canea degli infedeli in Ungheria.
LA DECISIONE DI
FRANCESCO
Nessun
regnante che avesse sposato la figlia ed erede del Sacro e Romano Imperatore
poteva permettersi di ignorare la minaccia del richiamo del Nunzio Papale dai
propri domini, e ad Ambrogi fu quindi concessa udienza il 21 aprile, quando egli
si adoperò a dettagliare quanto il Cardinale aveva espresso solo in linee
generali; e sebbene il Duca dapprincipio si esitasse nel mettere in pratica
quanto richiesto, avendo subita ulteriore pressione clericale, egli si vide
infine costretto a bandire Stosch ed autorizzare l’arresto di Crudeli e
Buonaccorsi sulla base, almeno per quest’ultimo, delle deposizioni del
Pupiliani.
Per
quanto invece attenne al Crudeli, il suo arresto fu motivato dal fatto che lo
stesso si fosse lamentato e rivoltato al Principe per l’eccessiva tassazione.
Esiste
anche la possibilità che il Granduca pensasse che, liquidando Stosch e
arrestando gli altri avrebbe forse potuto spegnere i riflettori da quella società
della quale si diceva egli stesso fosse membro, essendo stato il nome suo
talvolta associato al gruppo equivoco dello Stosch; dopo tutto, la deposizione
del Minerbetti richiedeva che si agisse in modo fermo e deciso.
Ad
ogni modo, il 27 aprile Francesco ordinò al Ministro Tornaquinci di eseguire
gli arresti così come Ambrogi avrebbe istruito, dando nel frattempo mandato al
Generale Braitwitz, comandante delle truppe austriache in Toscana, di ordinare
al Barone von Stosch di lasciar la Toscana entro tre giorni; avendo in tal modo
atteso agli affari italiani, Francesco se ne partì da Firenze lo stesso giorno
27 aprile 1739.[lxxiii]
STOSCH RESISTE
La
campagna dell’Ambrogi non si svolse lo stesso secondo i piani. Egli, infatti,
era stato troppo ambizioso nel voler aggiungere il nome di un’inglese (poiché
tale il Barone von Stosch risultava) alla lista dei proscritti.
Profondamente
scosso dall’improvviso quanto inaspettato ordine d’espulsione il Barone, il
quale trovava la vita fiorentina adatta ai propri gusti, così come ingenti
erano i profitti che gli derivavano dalla professione d’antiquario, si
precipitò da Horace Mann per chiederne l’intervento immediato.
Il
Mann, all’epoca facente funzioni del Residente Inglese a Firenze Charles Fane,
al quale avrebbe poi dovuto, ancora giovane, succedere, era tutto fuorché
contento al pensiero di doversi privare degli utili servigi d’un ribaldo ben
istruito nelle arti dello spionaggio e di simili sporche incombenze alle quali
certo non era opportuno dedicarsi personalmente; cosicché egli immediatamente
richiese ed ottenne dal Granduca una sospensione dell’ordine d'espulsione,
all’inizio per una settimana, ed in seguito per tutto il periodo necessario a
ricevere risposta dal Re Giorgio II ad una lettera spedita da Francesco per
giustificare la propria azione.[lxxiv]
Spesso,
in questi casi, ottenere tempo è ottenere tutto: la grazia d’una settimana fu
estesa indefinitamente permettendo a Stosch di continuare a vivere indisturbato
a Firenze e di attendervi alle proprie arti e mestieri fino all’anno della
propria morte nel 1757, quando lasciò al proprio erede la collezione di rare
opere d’arte, ed al mondo intero la propria reputazione, non proprio
completamente senza macchia.
Naturalmente
fu una delusione per l’Inquisitore che il Barone tedesco sfuggisse dalla rete,
dovendosi però accontentare degli altri pesci ivi rimasti imprigionati.
ASRRESTO DI CRUDELI
E CONSEGUENZE DELLO STESSO
Sabato
9 maggio 1739 il Crudeli ritornando nottetempo a casa da una riunione, fu
arrestato da un gruppo di sbirri, la polizia di stato dalla fama di ruffianeria,
e condotto prima alle comuni galere e quindi tradotto alle prigioni
dell’Inquisizione nel Convento di Santa Croce.
Alcuni
dei suoi amici, tra i quali lo stesso Mann e Rucellai, furono informati il
giorno seguente degli accadimenti notturni, sebbene la notizia non raggiungesse
Cocchi che al lunedì successivo, trovandolo dapprima incredulo. La novità
divenne tuttavia ben presto pubblica, causando gran rumore.
Tutti,
compreso l’irreprensibile Dottor Lami, che si era sempre ben guardato dal
dichiararsi anticlericale ne furono terrorizzati e si diedero a disertare i caffè
e le librerie dove prima erano soliti dispensare a
gratis le loro opinioni: ecco che il Sant’Uffizio aveva già
immediatamente raggiunto uno dei propri scopi, lasciare che tutti sapessero chi
comandava….
Si
cominciò a sussurrare ad un fil di voce di
come la Chiesa di Roma si fosse decisa a farla finita coi frammassoni: e siccome
ognuno sapeva che Crudeli era uno di loro, il suo arresto fu considerato come
l’inizio della persecuzione nei riguardi di tutti coloro che fossero in
qualche modo connessi con quella setta eretica inglese.
Si
disse di tutto: che l’Inquisitore richiedeva l’arresto anche di
Buondelmonti, ma essendo questi parente di Rinuccini, uno dei Ministri di Stato,
si era per il momento salvato; che nuovi arresti erano da prevedersi, la cui
lista già era giunta da Roma. Il risultato fu che tutti i fiorentini che nel
passato ebbero il loro nome associato a quello della Loggia ormai demolita
ebbero a temere per la loro libertà se non per la vita, e più d’uno si
rivolse a Mann per cercarvi protezione.
Ambrogi
amplificava ad arte la portata del timore collettivo facendo espresso
riferimento, in ogni suo discorso pubblico, al gran trionfo ottenuto, e come
risultato di tale comportamento ogni fiorentino che aveva l’abitudine di
frequentare ospiti inglesi si sentì in pericolo di essere fatto oggetto delle
attenzioni del Sant’Uffizio.
“Gli
inglesi sono gente pericolosa” divenne la frase più usata del periodo.
La
stampa straniera, così come ci si poteva attendere, non fece nulla per
alleggerire la tensione, anzi pubblicò diverse esagerazioni su cosa stesse
accadendo in Toscana; così la Gazzetta di
Berna[lxxv]
del 19 maggio 1739 ebbe a dire in una corrispondenza da Firenze che Crudeli era
stato imprigionato per essere un tempo stato massone, e tutti i suoi scritti
banditi mentre il Granduca aveva garantito, in base ad una precisa richiesta
papale, pieni poteri ad Ambrogi di procedere contro tutti i sospetti di aver
avuto qualsivoglia connessione con la frammassoneria.[lxxvi]
Queste
dicerie raggiunsero l’orecchio di Horace Mann il quale, nell’apprendere che
la causa della prigionia di Crudeli potesse essere rintracciata nella di lui
appartenenza ad un’associazione inglese, ed avendo avuto diversi colloqui al
riguardo con visitatori inglesi, chiese udienza al Conte di Richecourt, col
quale non era certo in rapporti amichevoli, facendogli presente che ciò che
accadeva era un affronto pei suoi compatrioti e per la nazione, chiedendo la
liberazione di Crudeli, e domandando che per il futuro ci si astenesse da simili
insulti alla Gran Bretagna.
Egli
terminò la propria protesta aggiungendo che l’ordine di bandire Stosch
sarebbe stato profondamente deplorato a Londra da Re Giorgio II se questi avesse
saputo, così come sembrava acclarato dagli eventi recenti, che il Governo
fiorentino nel fare ciò agiva agli ordini della Curia Papale, un’istituzione
alla quale il suo Re mai e poi mai avrebbe piegato il capo in quanto amica degli
Stuart e nemica mortale della Chiesa d’Inghilterra.
Il
Richecourt, che probabilmente era disturbato così come il Mann dalla piega che
gli accadimenti andavano prendendo, rispose in modo conciliatorio, e sebbene si
professasse incapace di ordinare il rilascio del Crudeli, promise di fare ciò
che fosse stato possibile.
L’intervento
di Mann, però, servì più che altro alla causa del Barone Filippo von Stosch,
che si vide l’espulsione differita sine
die, il massimo che il Residente Inglese probabilmente potesse sperare
d’ottenere.
Gli
effetti della protesta di Mann, in ogni modo, non si fermarono qui poiché le
ulteriori richieste dell’Inquisitore, quali l’arresto di Cerretesi e la
perquisizione della dimora del Dottor Giuseppe Attias, studioso ebreo livornese
alla ricerca di libri proibiti, non autorizzati dal Governo, mentre s’ingiunse
ad Ambrogi, e questi accettò, di trattare il Crudeli con ogni possibile
clemenza nel periodo della sua prigionia.
LA PRIGIONIA DEL
CRUDELI
Essendo
il Crudeli sofferente d’asma cronica, ne informò l’Inquisitore al momento
dell’internamento nel carcere di Santa Croce, chiedendo che se ne tenesse
conto. Fu risposto che si sarebbe provveduto ad assicurare trattamento umano ed
una stanza arieggiata.
Egli
fu invece confinato in un freddo abbaino, con una piccola finestrella per la
luce ed aperture per la ventilazione che davano sul corridoio; si trattava di
una cella infestata da parassiti con servizi igienici primitivi. Ciò gli provocò
un attacco del suo vecchio male che lo pose in pericolo di vita.
Quando
i suoi amici seppero di tale stato di cose si rivolsero insistentemente ai
Rucellai, il quale inviò all’Inquisitore un ammonimento ad essere
caritatevole col prigioniero. Cinque settimane dovettero però passare prima che
il Crudeli fosse trasferito ad una stanza migliore, sebbene anche questa avesse
la finestra oscurata e non permettesse il passaggio dell’aria.
Al
prigioniero non erano concessi libri, materiale per scrivere, né gli si
permettevano visite da parte di parenti o amici, ivi incluso un suo fratello
minore, ecclesiastico ed in buoni rapporti con il Sant’Uffizio.
Il
Rucellai, uomo d’indole fiera, avrebbe voluto che il Granduca approfittasse di
tali severità come scusa per abolire l’Inquisizione nei propri domini, ma i
tempi non erano maturi per simili cambiamenti; la Curia aveva, infatti, grande
influenza alla corte di Vienna, influenza che certo non ometteva di utilizzare
al meglio, mentre Francesco, sapendo di quanto il suo governo in Toscana fosse
impopolare essendo amministrato da stranieri, esitava ad aumentare quella
impopolarità immischiandosi in argomenti ritenuti di natura religiosa. Alla
fine, l’unica cosa che si fece contro l’inquisizione fu di proibire
l’arresto di Cerretesi e del Buonaccorsi.
Crudeli
nel frattempo si spegneva lentamente in prigione senza essere interrogato, e
dopo due mesi la sua salute era ridotta talmente male da comprometterne i
polmoni.
A
questo punto il Richecourt, commosso da una petizione scritta dai vecchi
genitori del Crudeli, la fece pervenire al Granduca assieme con una lettera
personale da parte di Rucellai.
Quest’ultimo
documento, in sostanza, suggeriva di come il Granduca fosse stato indotto a
prestarsi ad una vendetta della Chiesa
nei confronti dei frammassoni, il vero scopo del Sant’Uffizio essendo
l’usurpazione delle funzioni del braccio secolare. Il Ministro quindi
consigliava a Francesco di proporre alla Curia la presenza di un Commissario
secolare nei tribunali dell’Inquisizione; qualora il Papa avesse dovuto
rifiutarsi di consentirlo, cosa probabile, allora si sarebbe dovuto negare
l’aiuto del braccio secolare nell’autorizzare arresti. Tale lettera non ebbe
però alcun seguito.
I
nostri resoconti massonici mostrano di come gli amici del Crudeli in Inghilterra
non si dimenticassero di lui e ne disponessero l’aiuto finanziario.
“La
Supplica del Fratello Tommaso Crudeli, prigioniero dell’Inquisizione a Firenze
a causa della Massoneria, cui si faceva riferimento nel corso dell’ultimo
Comitato per la Carità è stata letta e discussa da parte di molti Fratelli e
particolarmente raccomandata dal G.M.
Si
ordina al Tesoriere di pagare la somma di ventun sterline all’Illustrissimo e
Venerabilissimo GM da essere utilizzate a conforto del postulante.” (Minute
della Gran Loggia d’Inghilterra, 12 dicembre, 1739).
INIZIA IL PROCESSO
All’iniziarsi
delle procedure processuali amici e particolarmente nemici di Crudeli furono
chiamati a deporre ed a rispondere a domande riguardanti la sua condotta ed il
suo modo di vivere. Alcuni si espressero in termini essenzialmente generali,
mentre altri si mostrarono ben contenti di poterne aggravare la posizione,
mutando ora in accuse ciò che fino a quel momento era stato detto solamente per
celia, sebbene di pessimo gusto.
Ecco
che un padre deluso di non aver potuto maritare sua figlia col Crudeli testimoniò
di averlo udito esecrare una madonna le cui reliquie erano oggetto di
pellegrinaggio, mentre un certo Fantacci, suo nemico giurato, depose di averlo
udito mentre questi affermava che San Giovanni Evangelista era un asino.
Diversi
nullafacenti dei vari caffè della città testimoniarono di aver udito lui ed
altri frammassoni usare linguaggio sovversivo nei riguardi del Papa per aver
egli proibito i loro incontri.
Questo
era il materiale, per quanto insignificante, sul quale poter sorreggere le
traballanti deposizioni del Pupiliani e del Minerbetti, poiché si volle
insinuare che tali deplorevoli espressioni delle quali si accusava Crudeli
fossero in realtà saldi e vitali principi della Società della quale egli era
stato membro.
La
maggior parte di quelle denunce altro non erano che voce di popolo, fatto questo
ripugnante alle nostre idee inglesi di ciò che possa essere ammesso quale prova
inconfutabile, ma invero accettabili in alcuni paesi latini; non ne farò in
ogni modo in questa sede altra menzione, per non offendere ulteriormente con
simili sciocchezze la pazienza dei miei lettori.
Vi
era però una difficoltà oggettiva dell’Accusa alla quale devesi far
riferimento.
La
Reggenza non aveva autorizzato l’applicazione della Bolla In
Eminenti in Toscana, con la giustificazione che la Frammassoneria fosse una
società secolare non sottoposta in modo alcuno al controllo clericale. Ecco che
allora l’Inquisizione non avrebbe potuto procedere direttamente contro Crudeli
per il solo fatto di essere stato massone senza inimicarsi ulteriormente il
Governo Toscano e causarne ritorsioni a scapito del proprio potere.
Inoltre,
la Bolla stessa non prevedeva condanna per quei frammassoni che, avendone
obbedito i dettami, si fossero ritirati da quella Società, così come, in
effetti, i fiorentini avevano fatto.
L’Inquisitore
avrebbe allora dovuto avere una deposizione diretta da parte di un noto massone
con argomenti “esecrabili” da portarsi contro l’Ordine Massonico stesso,
dando quindi l’occasione inoppugnabile di sopprimerlo per motivi di religione
e di morale.
Ora,
tutti sapevano che Crudeli fosse indubbiamente stato massone, e che quello era
ovviamente il vero motivo del suo arresto, ma siccome questo semplice motivo non
doveva apparire ufficialmente nell’accusa, l’Inquisitore non poteva
rivolgere quindi al Crudeli accuse dirette e specifiche riguardo alla
frammassoneria in se stessa.
Si
scelse allora di assalire l’imputato con tutta una serie di domande sulla
massoneria e di redigerne le risposte come se si trattasse di una deposizione
spontanea: se vi fossero state delle critiche a tali deposizioni facilmente si
sarebbe potuto rispondere che il Sant’Uffizio non aveva espressamente
richiesto tale tipo d’informazione, ma non avrebbe neanche, d’altra parte,
potuto esimersi di porla agli atti qualora resa spontaneamente dall’accusato.
Finalmente,
dopo tre mesi di prigionia, Crudeli fu condotto, il 10 agosto 1739 alla cappella
del Sant’Uffizio ed interrogato dall’Inquisitore Capo Ambrogi e dal suo
Cancelliere, il Frate Antonio Maria Montefiori.
Gli
si chiese dapprima se egli conoscesse il motivo del proprio arresto e quando lui
rispose di non conoscerne la ragione, ad un’ulteriore più ferma richiesta,
affermò che forse avrebbe potuto essere per quella volta che aveva mangiato
carne in un giorno di digiuno, aggiungendo però di avere una dispensa che lo
autorizzava a nutrirsi a causa della propria salute cagionevole. A tale
proposito egli disse inoltre:
“Almeno,
io così pensava nei miei primi giorni in prigione, ma più tardi, dopo averci
ben riflettuto, credetti di essere stato arrestato poiché appartenni alla
Loggia dei Frammassoni sebbene avessi obbedito alla Bolla, ed anzi avessi più
volte insistito col Ministro Inglese di porre fine a quegli incontri,[lxxvii]
ed infatti essi terminarono; così mi sembrerebbe di non meritare la prigionia
per quel fatto.”
In
quella deposizione il Crudeli segnò punti a proprio favore per essere stato
strumentale nel dissolvimento della loggia, e ciò è probabilmente vero poiché
indubbiamente i suoi amici inglesi avrebbero preso in seria considerazione il
consiglio di un fratello che certamente meglio di loro sapeva cosa accadesse a
Firenze in quei giorni, mentre l’aver tirato in ballo il Ministro Inglese a
quel riguardo getta nuova luce sul perché a quel punto, un gruppo d’inglesi
non più appoggiati dal loro Ministro avrebbero comunque scelto di tener aperta
la loro loggia contro i voleri del Papa e senza il favore dell’opinione
pubblica.
Per
quanto candida e giustificabile, la deposizione del Crudeli dette però
all’Inquisitore l’occasione che questi aspettava per chiedere che cosa
accadesse nel corso di quelle riunioni.
Crudeli
rispose che non vi accadeva nulla se non un banchetto e “bagattelle da
ridere” – probabilmente una descrizione accurata di quanto accadeva in una
Loggia “alla moda” del periodo.
Vi
furono poi alcune obbiezioni al diritto dell’Inquisitore di esaminare il
prigioniero a questo riguardo, ma egli insistette a porre al Crudeli almeno
quarantacinque domande a proposito della massoneria,[lxxviii] alla quali il Crudeli
rispose o adducendo perdita di memoria o confessando molte cose delle quali già
il Sant’Uffizio era a conoscenza, ma senza mai fare nomi di alcuno a parte
quelli di pubblico dominio, anch’essi naturalmente noti all’Inquisizione.
In
generale il Fratello Crudeli mantenne in quel frangente la propria linea,
attenendosi ai consigli dei propri amici.
Un’ulteriore
alterco avvenne quando al Crudeli fu chiesto di firmare il verbale come se si
trattasse di deposizione spontanea, cosa che alla fine egli fece, anche se
protestando; a guisa di scherno finale, la corte gli fece giurare la segretezza
“di quella vera, e non di quella cui erano usi i frammassoni nei loro
giuramenti.”
Quattro
giorni dopo, il 14 agosto il Crudeli fu sottoposto ad un nuovo interrogatorio
sulle stesse questioni. Nel frattempo però egli era riuscito a trasmettere una
lettera al proprio amico Corsi informandolo di quanto era accaduto, informazioni
che furono tosto passate al Rucellai, il quale immediatamente avvertì il Primo
Ministro della Reggenza che un suddito del Granduca era trattenuto prigioniero a
causa del suo essere frammassone.
Intanto
anche il Corsi, il Residente Inglese e lo stesso fratello del prigioniero
facevano appello per conto di Crudeli alla medesima Autorità, tutti suggerendo
la fuga dello stesso ed il successivo suo arresto e detenzione in una prigione
di stato finché egli non avrebbe provveduto a dimostrare la propria innocenza
pei crimini che gli fossero stati imputati.
Il
Conte di Richecourt non era sfavorevole ad una simile linea di condotta, ma
prima di garantire la propria connivenza alla fuga pensò fosse proprio dovere
informarne il Granduca a Vienna e chiederne consiglio. Egli inviò quindi un
lungo ed esauriente messaggio cifrato nel quale si spronava Francesco a dare il
proprio assenso al piano proposto dagli amici del Crudeli.
Anche
l’Inquisitore aveva però già scritto al Nunzio Papale di Vienna
raccomandandogli di usare ogni influenza possibile per ottenere dal Duca
l’autorizzazione all’arresto di Buonaccorsi, del Cerretesi e di chiunque
altro si fosse reso necessario tra i membri di quella società fuorilegge.
Il
Duca si trovò quindi tra due fuochi, simile alla posizione della polizia a
Belfast nei brutti giorni degli scontri tra gli orangisti e i verdi.
Mentre
a Vienna si intrigava, Ambrogi continuava senza sosta ad interrogare il Crudeli
su questioni della massoneria esortandolo a fare i nomi non solo dei membri
della loggia, ma anche di tutti coloro che proteggevano quella società, ivi
compresi, se del caso, Principi stessi, assicurandolo che il Sant’Uffizio mai
avrebbe rivelato una singola sillaba di quanto avesse saputo sotto il sigillo
della segretezza, ma, a parte le proprie professioni d’innocenza, il F.llo
Crudeli continuava a tenere un basso profilo.
Metterei
ora a dura prova la vostra pazienza nell’elencarvi la lunga sequela di domande
circa i motteggi irriverenti che gli erano stati attribuiti ed i libri proibiti
che aveva letto; passiamo quindi a descrivere che cosa egli ebbe a dire per
risposta alle accuse che erano mosse nelle deposizioni giurate di Pupiliani e
Minerbetti, naturalmente il vero motivo di quel processo.
Quando
gli fu chiesto se egli conoscesse ove fosse la residenza di Stosch e che tipo
d’incontri vi si svolgessero di notte, Crudeli fece presente di quanto il
Barone fosse detestato dai visitatori inglesi a Firenze a causa della propria
furfanteria e del cattivo sangue che esisteva tra questi ed il Residente Inglese
Charles Fane. Il Crudeli però non negava di essere stato spesso a casa di
Stosch, ma sempre di giorno, per accompagnarvi gentiluomini inglesi desiderosi
d’ispezionarne il museo ed acquistare gioielli ed ornamenti. Probabilmente
Crudeli era utilizzato come interprete.
“L’ultima
volta che entrai in quella casa, la quale è vicino Santa Croce, fu pochi giorni
avanti all’arrivo del Granduca, e mi recai colà con Lord Charles Fitzroy
(figlio del Re) il quale voleva acquistare il “Meleager” una gemma
incastonata, ed aveva il timore di essere raggirato essendo egli figlio del Duca
di Grafton. Così io lo accompagnai, ed avendo chiesto di quella gemma in
particolare, Stosch riferì di non essere intenzionato alla vendita, e che lo
avrebbe fatto solamente se non avesse avuto altro mezzo per procurarsi il
cibo.”
Crudeli
continuò dicendo di non saper nulla delle riunioni notturne che avvenivano da
Stosch, e quando gli fu chiesto se ai partecipanti a quelle conventicole fosse
richiesto un giuramento egli rispose:
“Si
tratterebbe allora di Frimesson, ma io
non sono a conoscenza che i frammassoni si siano mai ritrovati a casa di
Stosch.”
E
quando gli si richiedeva delle cerimonie disgustose che si pensava avessero colà
avuto luogo, indignato il Crudeli rispose:
“E’
la prima volta ch’io odo di simili infamie!”
L’Inquisitore
gli chiese allora dei metodi ridicoli ed indecenti pei quali si diceva fosse
amministrato il giuramento. “Anche tutto ciò mi è nuovo” fu la risposta,
ed anzi egli aggiunse che sebbene la moralità dello Stosch fosse quanto di
peggio fosse possibile, egli non lo riteneva capace di simili degradanti
bassezze.
E
quando nuovamente l’Inquisitore ritornò su cosa si diceva avvenisse a quei
convegni da Stosch, il Crudeli rispose:
“Bisognerebbe
domandare simili questioni a quelli che vi hanno preso parte e sono amici di
Stosch, non miei, poiché io non frequento la sua casa e mi vanto di non
essergli amico.”
E
alla domanda su chi fossero i protettori e i difensori della conventicola in
questione egli profferì similmente:
“Lo
dico ancora una volta, che io non so se quelle riunioni vi fossero fatte, e
conseguentemente non ne conosco i protettori.”
Tutto
ciò non soddisfece l’Inquisitore, che insisteva a che il Crudeli rendesse
completa confessione, ma quello non aveva nulla da dire.
Egli
fu allora ricondotto alla sua cella, ed essendo malato, sembrava che la morte lo
avrebbe presto liberato da quei ripetuti tentativi di estorcergli conferma della
storia del Minerbetti, ma né le promesse d’un immediato rilascio, né le
minacce della prigionia perpetua potettero scuotere la sua fermezza.
L’unica
sua consolazione durante quel periodo, resa possibile dalla venalità d’uno
dei famigli posti di guardia, era la possibilità di scrivere agli amici; e
quando Fra Giovanni Boni pur continuando ad intascare i denari, smise di
recapitare le lettere, si studiò un nuovo metodo, e le lettere erano calate con
una cordicella nel chiostro dove attendeva, ad orari prefissati, il fratello più
giovane e devoto di Crudeli.
Settimane
e mesi passarono durante i quali i Cardinali della Congregazione a Roma
attendevano a quel caso, e le opinioni rimanevano divise; alcuni membri
propendevano per comminare una leggera condanna e poi liberare il reo, mentre
altri, capeggiati da Monsignor Feroni, Segretario del Sant’Uffizio ed autore
della Bolla In Eminenti insistevano per
una prosecuzione del processo: furono infine questi ultimi ad avere la
maggioranza.
Tutto
ciò era equivalente a condannare il Crudeli al carcere perpetuo, poiché i
lavori si sarebbero potuti ritardare ed estendere ad
infinitum secondo i voleri del tribunale, e sembrava in effetti improbabile
che l’Ambrogi si volesse comportare diversamente.
GLI INTERVENTI
Fortunatamente
per la giustizia, le manovre utilizzate dal Sant’Uffizio per estorcere le
deposizioni dal Pupiliani e dal Minerbetti arrivarono all’attenzione del De
Richecourt.
Il
Pupiliani era stato appena arrestato a Livorno per essere processato a causa dei
suoi trascorsi malaugurati affari di cuore. Venendo a conoscenza dell’arresto,
il Richecourt lo fece interrogare al riguardo di tutto ciò che era accaduto
prima della sua partenza da Firenze, nominando Commissari incaricati
dell’interrogatorio il Vicario del Sant’Uffizio a Livorno ed il Generale
Braitwitz, comandante della guarnigione austriaca in quella città.
Quando
fu scoperto l’intrigo clericale che era stato posto in essere nel caso del
Pupiliani il Primo Ministro andò su tutte le furie, ed egli inviò
immediatamente copia degli ultimi interrogatori e delle rivelazioni colà
contenute al Granduca.
Un’altra
persona importante intervenne nella questione con efficacia. Il Duca di
Newcastle, divenuto Segretario agli Esteri nel governo Walpole, scrisse al
Residente Inglese a Firenze perché questi si informasse di come stesse
procedendo il processo nel quale si temeva vi fosse rischio per la reputazione
di diversi gentiluomini inglesi di rango, oltre che per la libertà di Crudeli.
A
Mann fu allora richiesto di informare il Richecourt che il governo di Sua Maestà
considerava un affronto alla dignità dell’Inghilterra la detenzione dello
sfortunato prigioniero per il solo fatto di essere stato frammassone ed amico
degli inglesi.
Mann
tosto consegnò quel messaggio, e Richecourt lo assicurò, sub
rosa, di star facendo quanto in suo potere per quell’amico degli inglesi;
si trattava, ciò non di meno, di un suddito toscano, e non poteva quindi egli
esimersi dal meravigliarsi di questo intervento inglese a suo sostegno.
Con
frasi melliflue e luoghi comuni, Mann parlò allora della cordiale amicizia
esistente tra le due corti esprimendo augurio che Sua Grazia il Granduca
certamente volesse nutrire e rinfocolare quei sentimenti di stima e dignità per
l’Inghilterra avvertibili nei suoi domini.
Poi,
abbandonando la diplomazia fece chiaramente intendere di essere a conoscenza,
così come il Richecourt medesimo, di cosa in realtà si trattasse; e cioè che
si intendeva trovare un pretesto per espellere Stosch dalla Toscana; il Barone
era però riuscito a convincere il governo inglese d’essere vittima di una
macchinazione ordita oltretevere, e di conseguenza questi godeva ora di molta
stima e favore coi Reali, che ultimamente gli avevano perfino aumentato
l’appannaggio per certi scopi non specificati, alias
servizi segreti, termine questo usualmente non utilizzato nelle
conversazioni diplomatiche.
In
breve, il Mann riuscì ad appiccicare un che di serio ed internazionale
all’intera vicenda, cosicché il Richecourt promise d’informarne
immediatamente il Granduca, cosa che invero fece, scrivendo una lettera
nell’ottobre del 1739.
Francesco
certo non aveva l’intenzione di offendere Re Giorgio, anche perché la gran
parte delle tasse esigibili dallo stato erano a carico dei mercanti inglesi
residenti a Livorno e in altre città toscane; allo stesso tempo, naturalmente,
intendeva guardarsi bene dal recare offesa al Papa.
Pensò
allora di giungere ad un compromesso, e scrisse autorizzando la Reggenza alla
connivenza per un’eventuale fuga di Crudeli dalle carceri dell’Inquisizione.[lxxix]
Come
uomo, egli aspirava alla giustizia, come sovrano, non intendeva inimicarsi altre
corti, mentre come marito d’una cattolica devota egli intendeva mantenere
buoni rapporti con Roma.
Non
mi intratterrò a lungo sul piano concepito per attuare la fuga del Crudeli
prevista per il mese di dicembre del 1739 poiché questi lo respinse, scrivendo
a suo fratello: “Non intendo perdere la mia patria e vivere come uomo che
abbia gabbato la giustizia.”
Ecco
che tanto sentimento ci parla di un cuore che nessuna difficoltà potrà mai
privare di patriottismo o di coraggio, sebbene il fratello non si lasciasse
convincere dal Crudeli e continuasse attivamente a pianificarne la fuga, ed alla
fine, a causa della sua poca discrezione, il confino del Crudeli finì per
divenire ancor più gravoso.
LA DIFESA
Finalmente
venne il tempo per Crudeli di organizzare la propria difesa. Le regole
consentite per la difesa, in un tribunale dell’Inquisizione erano severe ed
ingiuste ai nostri occhi se paragonate alla procedura adottata in Inghilterra
pei casi criminali.
Il
prigioniero non era libero di scegliersi un avvocato, ma doveva utilizzarne tra
quelli approvati dall’Inquisitore per operare in quel tipo di Tribunale. Poi,
dopo essere stato scelto ed istruito, il collegio di difesa aveva l’obbligo di
non rivelare i nomi dei denuncianti e dei testimoni, né di mostrare ad alcuno
gli atti processuali, mentre alla fine del processo tutto il materiale sarebbe
dovuto essere restituito al Sant’Uffizio.
Inoltre,
il difensore avrebbe dovuto giurare che, qualora si fosse convinto della
colpevolezza del proprio cliente,
egli immediatamente avrebbe abbandonato la difesa, e rivelato i nomi degli
eventuali complici che potesse aver scoperto durante lo svolgimento del caso.
Vi
erano anche altre restrizioni, ma non vi ci soffermeremo oltre.
Il
processo iniziò il 28 marzo 1740 con quattro tra i denuncianti chiamati a
ripetere, dopo molte discussioni, la loro testimonianza. Tra questi eravi
Pupiliani e Minerbetti sulle cui parole si basava l’accusa che Crudeli avesse
frequentato la conventicola di Stosch.
Ometterò,
in ogni modo, di riportare le testimonianze di coloro che accusarono il Crudeli
di comportamento irreligioso e generalmente riprovevole.
Pupiliani,
che nella propria prima deposizione ebbe ad affermare di come il Crudeli avesse
espresso dubbi riguardo alla religione negli incontri a casa Stosch, ora, il 15
aprile 1740 si rimangiò tutto, giurando di non aver mai udito il prigioniero
parlare contro la fede, e che anzi si trattava solo di congetture personali sia
nel caso di Crudeli che per tutti coloro che aveva precedentemente citato come
frammassoni, non avendo egli alcuna conoscenza personale della vicenda.
Confessò
comunque che, secondo il proprio modesto giudizio, il Crudeli non era certo un
buon cattolico – affermazione, quest’ultima, sicuramente difficile da
confutare anche per noi.
Quando
poi venne il turno del Minerbetti egli si diede ad affermare, negare, e non
ricordare a casaccio, contraddicendo quindi la sua precedente deposizione ed
esonerando il prigioniero.
No,
non lo aveva mai udito parlare contro il Santo Padre e l’autorità della
Bolla; mai lo aveva veduto a casa di Stosch; nulla sapeva delle cerimonie e dei
giuramenti osceni alla conventicola del Barone; e non aveva mai assistito a
fatti di tale sorta.
A
questo punto l’Inquisitore, pazzo di collera coi testimoni chiave, principiò
a trattare il Minerbetti in modo ostile. Minacciato di tortura il Minerbetti,
che aveva ritrattato per tema degli amici di
Crudeli, cedette alla minaccia più reale ed imminente ritrattando la sua
ultima ritrattazione con le parole che ancora gli uscivano dalle labbra,
giurando nuovamente che tutto quanto riportato nella sua prima deposizione era
più vero del Vangelo.
E
quando gli fu chiesta ragione di quest’iniziale ritrattare, egli addusse
motivi di scarsa memoria, non offrendo peraltro spiegazione alcuna sul come mai
i ricordi fossero invece subitaneamente ricomparsi. Che incubo sarebbe stato per
un giovane avvocato alla sua prima arringa in pubblico!
Ma
tra tutte quelle contraddizioni ed equivoci del Minerbetti e degli altri, ancora
Ambrogi non voleva convincersi dell’innocenza di Crudeli ed il 29 aprile
nuovamente lo interrogava sul cosa accadesse presso la residenza di Stosch.
Questa
fu la risposta: “L’intera verità essendo ch’io non sono amico di Stosch,
non ne frequento la casa, né mai vi fui nottetempo, non ho mai udito alcunché
sulle riunioni, né colà né in altro luogo, e le deposizioni sono piene di
menzogne, ed io ne proverò la falsità così come la mia innocenza.”
Tutto
ciò non impressionò certo l’Ambrogi, che già da tempo aveva deciso che si
sarebbe potuto tranquillamente sacrificare il Crudeli.
L’avvocato
della difesa si accinse tosto all’opera sua, ma impedito com’era dalle
restrizioni e dai lacciuoli di cui abbiamo riferito si risolse a percorrere
l’unica strada che non gli fosse stata preclusa e cioè si diede a chiamare
quanti più testimoni possibile che potessero affermare di come, a cominciare
dalla giovinezza più tenera il prigioniero sempre si fosse dimostrato esemplare
nell’attendere ai suoi doveri religiosi e morali, naturalmente per quanto
questi ne sapessero.
Non
è mai difficile ottenere stuoli di testimoni pronti a parlar bene di un uomo in
difficoltà e così se ne presentarono talmente tanti che la sola stesura delle
deposizioni minacciò di mandare avanti indefinitamente la questione.
IL MINERBETTI
RITRATTA ANCORA
In
quel tempo il vecchio Marchese Luca Casimirro degli Albrizzi, ex Maestro di
Camera del Principe Ferdinando,[lxxx]
ex ambasciatore in Baviera, ed ex Maggiordomo della Principessa Violante,
ritiratosi molti anni prima da ogni incarico di corte, viveva nei palazzi di
quella via chiamata col nome della sua famiglia, compiacendosi di patrocinare e
proteggere i dolci interpreti della musica italica, attività la quale, nel
corso di una lunga vita, lo aveva condotto a dilapidare un’ingente patrimonio.
Il
21 Aprile 1740 il vecchio gentiluomo ricevette la turbolenta ed inaspettata
visita di suo cugino Andrea d’Orazio Minerbetti il quale, cadendo a terra in
violenta crisi nervosa, esclamò tra pianti e singhiozzi: “Son
morto, son dannato!”[lxxxi]
Il
Marchese, ben a conoscenza del fatto che il cugino non fosse particolarmente
dotato di sagacia, pensò dapprima che questi avesse completamente perduta la
ragione, cercando di scoprire, con pazienza e persuasione, i motivi di siffatto
comportamento.
Il
Minerbetti era stato colpito da rimorso e l’idea dello spergiuro commesso non
voleva saperne di lasciarlo tranquillo: egli era quindi giunto dal Marchese per
ottenerne la protezione e qualche buon consiglio.
Si
dice che la fortuna favorisca gli stolti, ad ogni buon conto in questo saggio
uomo di mondo il povero Minerbetti ebbe a trovare un competente medico per la
propria mente disturbata.
Dopo
aver calmato il meschino, Albrizzi promise che avrebbe aggiustato la cosa così
che lo spergiuro non avesse a pagar gabella, trasportando quindi il giovine alla
propria villa di campagna ove avrebbe potuto calmarsi appropriatamente.
Il
Marchese poi si rivolse ai suoi compari e tutti assieme decisero che la cosa
migliore sarebbe stata per il Minerbetti di rivelare le sue malefatte nel
segreto del confessionale, comportandosi poi così come il prete avrebbe
prescritto.
All’uopo
egli scelse Padre Niccolò da Scansano, allora professore all’Università di
Pisa e poi Vescovo di Sovana il quale, dopo aver ascoltato la confessione gli
ordinò di far ammenda per lo spergiuro ritrattando nuovamente, presso
l’Inquisizione, tutto ciò che vi aveva giurato in precedenza.
Sebbene
sempliciotto, il Minerbetti aveva però ben sviluppato un forte senso
d’autoconservazione, ed immediatamente si rifiutò di porre nuovamente piede
al portone del Sant’Uffizio.
Dopo
ulteriore considerazione quindi, i suoi consiglieri decisero che egli avrebbe
preparato una ritrattazione scritta, che sarebbe dovuta essere trasmessa
all’Autorità Pontificie a Roma da persona fidata, poiché nessuno tra i
consiglieri del povero malcapitato aveva alcuna speranza che la cosa fosse
d’efficacia nel far cambiare l’opinione preconcetta di colpa del Crudeli da
parte di Ambrogi.
L’INTERVENTO DEL
NUNZIO
Ecco
che ora mi compiaccio non poco nell’annotare che la persona che si fece carico
di consegnare la dichiarazione giurata del Minerbetti alla Corte d’Appello del
Sant’Uffizio di Roma fu nientemeno che il nuovo Nunzio Apostolico di Firenze,
il prelato milanese Alberigo Archinto, Vescovo d’Apamea, poi Segretario di
Stato di Papa Benedetto XIV.
La
sua condotta in questo frangente mostra di come si trattasse di persona di
elevate doti morali e grandezza d’animo per l’alto uffizio al quale egli era
stato consacrato e gli importanti incarichi che ebbe nella Chiesa.[lxxxii]
I
francesi hanno, a questo proposito, l’espressione coup
de théàtre per descrivere un inaspettato corso degli eventi che confonde i
calcoli degli statisti così come i pronostici dei saggi; ed infatti vi fu
sorpresa teatrale per l’Inquisitore Ambrogi, che intanto si preparava a
estendere la durata del processo fino al giorno del giudizio, infischiandosene
dell’inquietudine del Granduca, l’opposizione dei suoi ministri, la
seccatura causata a Re Giorgio d’Inghilterra, le proteste del Signor Horace
Mann, le suppliche degli amici del prigioniero e le maledizioni, profonde ma
biascicate sottotono, di chiunque avesse rancori nei confronti del
Sant’Uffizio; avrebbe probabilmente portato a compimento il proprio disegno, e
Crudeli sarebbe morto in prigione a processo ancora aperto se il Nunzio fosse
stato meno Cristiano e più politicante.
In
ogni modo, egli inaspettatamente intervenne in difesa della giustizia, e come
conseguenza di quell’intervento, anche se la giustizia non venne mai
completamente restaurata, Crudeli fu alfine rimesso in libertà.
Anzi,
di più: quando fu in possesso dei fatti, l’intercessione personale di
Archinto assicurò che al prigioniero venissero migliorate le condizioni di
vita, il fratello venne autorizzato a visitarlo nel corso d’una grave
emorragia, ed in maggio 1970 il Crudeli fu finalmente trasferito in una stanza
meglio arieggiata e sottoposto a adeguata attenzione medica.
Tali
miglioramenti erano il risultato di ordini diretti dati da Archinto ad Ambrogi
che quest’ultimo, seppur a malincuore, non poteva rifiutarsi d’obbedire.
Faremo
bene a non dimenticare che il primo frammassone perseguitato per esser membro
dell’Arte ebbe a trovare il suo più abile difensore in un prelato di quella
stessa Chiesa che aveva bandito l’Ordine; curioso paradosso della storia che
ci ricorda, per dirla con Sir Roger de Coverley, di come, nel contendere, molto
possa esser detto delle due parti in causa.
INTERLUDIO
Ora,
anche a rischio d’esser definito advocatus
diaboli, debbo indulgere al mio desiderio di giustizia suggerendo che, anche
se massone, Crudeli non era certo un santo, mentre Ambrogi, sebbene Inquisitore
del Sant’Uffizio, non era poi completamente diabolico.
Gli
erano state addotte prove che un certo membro del suo gregge non soltanto
esprimeva concetti blasfemi, ma per soprammercato indulgeva in riti osceni, ed
era attivamente impegnato nel seminare eresia nello stato.
Essendo
egli responsabile per la morale e l’ortodossia in quello stesso stato
sicuramente era proprio dovere l’investigare quelle accuse, facendo uso di
tutti i mezzi a propria disposizione, o tutto ciò che egli avrebbe potuto
procurarsi o estorcere; sebbene quindi egli possa sembrarci un nemico, altro non
faceva che il proprio dovere, così come prescritto dalla Chiesa.
Lasciamo
allora le cose così come si trovano, astenendoci da ogni dibattito sull’etica
del caso, poiché così facendo ci ritroveremmo facilmente a discussioni su
faccende inaccettabili in una loggia inglese.
D’una
cosa non dobbiamo dimenticarci: né l’Italia dell’epoca, né tantomeno il
mondo cattolico in generale trovava nulla a che ridire con il Sant’Uffizio.
Anzi, in alcuni casi il segreto del quale tale tribunale si circondava poteva
anche esser giudicato un bene.
Leggete
la nota che segue d’un viaggiatore francese contemporaneo quale indicazione di
come spirasse il vento:
“La
libertà di pensiero, e talvolta di parola su materie afferenti alla religione
è a Roma pari se non superiore a quella di qualsiasi altra città ch’io
conosca. Non si deve infatti dare per scontato che l’Inquisizione sia quella
bestia nera che tutti dipingono; non ho udito di alcuno che abbia sofferto per
essere stato arrestato o trattato con rigore.
Il
Sant’Uffizio è situato vicino a San Pietro, ma la Congregazione si tiene alla
Minerva. Questa è composta da 12 Cardinali ed un Cardinale Segretario; il Gran
Penitenziario presiede su quel tribunale; suo dovere essendo quello di riferire
al Papa in tutti i casi nei quali si voglia ascoltarne l’oracolo.
Così
come i Cardinali altri prelati sono membri del tribunale, assieme con un
Commissario, un Assessore e diversi Teologi tra i quali invariabilmente vi è un
francescano e tre domenicani.
I
Teologi assieme col Commissario e l’Assessore presentano i fatti ai Cardinali;
questi ultimi … decidono sul caso, se non reputano che debba essere inviato al
Papa nel giorno successivo; essi però lo informano del risultato del voto e ne
chiedono di confermare l’editto.
Ogni
tipo di interferenza è proibita in questo tribunale, e se a un giudice vengono
fatte pressioni, egli ne deve informare la Congregazione facendo il nome della
persona che lo ha avvicinato.
Si
dice che nessuno possa essere imprigionato prima che se ne sia provata la
colpevolezza, e i delinquenti che si autodenunciano se ne vanno sempre assolti.
Il segreto è inviolabilmente osservato, e per questo motivo i casi vengono
portati a quella corte solo quando vi si desidera segretezza, anche per cause
che nulla hanno a che vedere in materia di fede.”[lxxxiii]
Tali
osservazioni, scaturite dalla penna d’un attento viaggiatore che certo non
potrà essere biasimato d’eccessiva indulgenza nei confronti del potere
ecclesiastico, ci fanno riflettere, anche nei confronti di scrittori più
“romantici”, come ad esempio Edgar Allan Poe, che sicuramente avrà certo
avuto meno occasioni del suddetto viaggiatore di sincerarsi di persona di come
veniva svolta l’opera dell’Inquisizione.
FINE DEL PROCESSO
Papa
Clemente XII, della famiglia dei Corsini e nativo di Firenze morì il 6 febbraio
1740 dopo dieci anni di pontificato. Lo Zobi[lxxxiv]
così scrive del di lui successore al Soglio di Pietro:
“Dopo
lungo e tempestoso Conclave protrattosi per quasi sei mesi tra i favorevoli
all’esaltazione del Cardinale Aldovrandi, finalmente venne eletto Papa
Prospero Lambertini di Bologna il giorno 7 agosto.
L’intera
cristianità mostrava impazienza per quelle tattiche dilatorie e brontolava
avverso al Collegio Cardinalizio … Botta, nel suo Storia
d’Italia, così scrisse del nuovo Papa: - Egli scoprì che, nel voler
perseguire giuste cause, il modo migliore è quello di non irritare gli
avversari. I tempi avevano proprio bisogno d’un Papa di tal fatta. Da allora
le controversie con Roma non furono più battaglie, ma discussioni; e
l’ateismo, allora rampante nel mondo, venne prevenuto dall’avvento d’un
Papa così amabile e spirituale. –“
Crudeli
dovette la sua scarcerazione finale dall’Inquisizione nell’aprile del 1741
principalmente ai buoni uffici del Nunzio, ed in secondo luogo alla sagacia di
Papa Lambertini, Benedetto XIV.
All’estero
correva notizia che il nuovo Papa fosse appartenuto all’Ordine massonico, ma
tali voci sono probabilmente dovute a malizia, poiché si diceva anche che fosse
un giansenista; ad ogni modo egli rinnovò la scomunica alla massoneria
fulminata dal predecessore, ed in nessun modo si può affermare che abbia
favorito quella Società[lxxxv].
I
dissapori tra il Nunzio e l’Inquisitore continuarono per qualche tempo, il
primo a insistere che si giungesse ad una conclusione del processo, l’altro a
ritardarne i lavori. La morte di Clemente XII, rigido sostenitore del potere
ecclesiastico e nemico dei frammassoni, aiutò il Nunzio, poiché nel lungo
periodo di interregno prima dell’elezione di Prospero Lambertini, e cioè
quasi sei mesi, l’establishment clericale fu maggiormente soggetto a più miti
consigli.
Il
9 giugno il Nunzio riuscì a far trasferire Crudeli dalle prigioni
dell’Inquisizione al Castello di San Giovanni battista, per attendere il
verdetto finale in custodia secolare.
Sebbene
le pene del Crudeli non cessarono con l’essere trasferito in una prigione di
stato, egli aveva comunque fatto passi da gigante sulla strada della propria
libertà, ed il resto della sua storia può essere velocemente sintetizzata
senza indulgere in dettaglio.
Il
20 agosto 1740 Crudeli venne condotto alla chiesa di San Piero Scheraggio, dove
fece abiura privata delle eresie che gli erano state imputate. Si trattò di un
affare trattato a porte chiuse ove non vennero ripetute le accuse né lette le
deposizioni dal Minerbetti, così da non gettare discredito né ai massoni né
tantomeno al Granduca.. a causa di tale riservatezza, l’udienza non era
composta che da sette persone.
Una
volta ottenuta l’abiura si lesse il verdetto, che lo faceva colpevole di
diverse espressioni eretiche, ordinandone l’esilio a Poppi nella propria
dimora ed ingiungendogli inoltre di versare un’obbligazione di 1000 scudi, che
avrebbe perduto qualora si fosse allontanato da quel luogo senza permesso.
Vi
fu poi un duro scambio di frasi risentite tra lui e l’Inquisitore, dopodiché
egli giurò di sottomettersi ed osservare la sentenza, e venne alfine
rilasciato.
Il
confino alla propria casa di Poppi era comunque una forma di prigionia, poiché
il Crudeli era obbligato a restare a casa tranne che per sentir messa, e anche a
casa egli rimaneva soggetto a visite giornaliere dell’inquisitore locale Padre
Cochini, il quale costantemente lo spronava a rimettere l’obbligazione di cui
abbiamo detto, con il Crudeli che invece adottava ogni possibile mezzo per
ritardarne il pagamento, cosa che egli faceva su consiglio del Richecourt,
ancora irritato per aver dovuto cedere all’Inquisizione.
A
Poppi, però, “Ogni vento che scende dall’Appennino è una minaccia” per
le malattie polmonari, sì che costantemente s’aggravava l’asma cronica del
poeta. Per questo motivo egli inviò un memoriale al Sant’Uffizio richiedendo
di potersi trasferire a Pisa, ma settembre passò senza alcuna risposta.
Gli
amici, e tra questi particolarmente Antonio Niccolini, fecero quanto possibile.
Richecourt sarebbe stato incline a farlo trasferire e sopportarne le
conseguenze, ma avendo il Crudeli giurato di sottomettersi alla sentenza,
quest’ultimo conservava scrupoli e remore ad agire senza autorizzazione, e così
passò anche novembre.
Infine,
egli fu convocato a Firenze per informarlo dell’autorizzazione al
trasferimento a Pontedera, paese con un clima senz’altro migliore, anche se
privo di attrattive per un uomo come Crudeli. Così, non appena arrivato alla
sua nuova residenza, ecco che gli amici ancora una volta si mossero per
ottenerne il passaggio a Pisa.
E’
senz’altro possibile che l’interesse di Richecourt nell’intera vicenda
fosso dovuto, più che al Crudeli di per sé, all’ostilità che lo animava nei
riguardi dell’Inquisizione, ostilità da quelli contraccambiata per interposta
persona, che ne faceva le spese.
Infine,
si riuscì ad ottenere un permesso che autorizzava Crudeli a stabilirsi ovunque
egli volesse in Toscana, con la sola esclusione delle città di Firenze, Siena,
Pisa e Livorno: alla fine egli decise di rimanere a Pontedera, almeno per
quell’inverno.
Il
buon Vescovo Archinto non aveva però dimenticato quel pietoso caso e tanto
intercedette con Benedetto XIV, che alla fine, nell’aprile del 1741, ottenne
la libertà completa per Crudeli.
Egli
allora fece immediatamente ritorno a Firenze ai suoi amici di sempre, ai
ricevimenti di Sir Horace Mann e al dolce far niente nei caffè, nei giardini e
nelle biblioteche della città.
MORTE DI CRUDELI
Uno
dei suoi migliori amici, il Dottor Cocchi, si accorse subito di aver di fronte
un uomo morente ed alla fine, tra alti e bassi, il Crudeli si spense nella sua
casa di Poppi il 27 gennaio 1745.
“L’amore
e l’odio che egli aveva suscitano negli altri, però, non svanirono quando
smise di respirare”, narra il suo biografo, infatti: “Amici e nemici,
frammassoni e bigotti, continuarono a tesserne le lodi e ad esecrarne la
memoria.”[lxxxvi]
Il
tempo ha inghiottito tutto ciò che ne dicevano i detrattori, ma gli amici si
possono ancora udire che parlano in suo favore, in un volume di versi pubblicato
postumo, dedicato a Horace Mann ed illustrato da un bel ritratto. Il poeta però
non potrà sapere se tali versi incontreranno il favore del pubblico o meno.
“Autant en emporte le vent.”
Secondo
la tradizione, egli spirò con una rima tra le labbra mentre parlava con Padre
Doni, vallombrosano, che gli offriva conforto spirituale nell’ora della morte:
“Padre Doni, Padre Doni,
Preghi Dio che ci perdoni.”
La
forma di quest’ultima frase, così tipica dell’uomo, può darsi abbia
meravigliato coloro che la udirono in quel triste momento, ma non dobbiamo aver
tema di comprenderne lo spirito ed il sentimento vero; noi tutti invochiamo la
pietà, così come il pubblicano della parabola, poiché davvero non esiste,
all’orecchio, miglior parola di passo di quella Pietà che è Eterna.
SOPPRESSIONE
DELL’INQUISIZIONE IN TOSCANA
La
storia che abbiamo narrato ci rivela quanta frizione esistesse tra le autorità
civili e religiose in Toscana; tutto ciò ebbe finalmente a cessare.
Una
confisca illegale di libri da parte dell’Inquisizione convinse alfine il
governo della Reggenza ad abolire la censura della stampa, amministrata fino ad
allora dal Sant’Uffizio con più zelo che tatto.
Nulla
si fece fino al 1743, quando fu promulgata una legge preparata dal Rucellai per
l’abolizione della censura da parte dell’Inquisizione. Alle proteste del
Nunzio si rispose che la nuova legge non usurpava alcun diritto della Chiesa.
La
Congrega Universale del Sant’Uffizio, allora, emise una Bolla di condanna di
quella legge tanto detestabile mentre Benedetto XIV fu indotto, si dice contro
il proprio volere, a lagnarsene in una lettera apostolica indirizzata al
Granduca.
In
questa lettera si affermava che i ministri toscani, ed il Rucellai in
particolare, continuamente s’intromettevano nei diritti della Chiesa, e non
solamente nella questione della stampa, aprendo così vecchie ferite mai del
tutto rimarginate. I caratteri accesi degli uomini fecero il resto e Francesco
replicò al Pontefice richiedendo l’abrogazione di quella Bolla di condanna la
quale, a suo dire, s’intrometteva nei suoi diritti temporali di sovrano.
Le
autorità ecclesiastiche romane si rifiutarono di cambiare anche una singola
parola del testo.
Il
Duca ordinò di sospendere ogni tipo d’attività d’ogni tribunale del
Sant’Uffizio in Toscana, stato questo di cose che si protrasse poi per undici
anni.[lxxxvii]
Non
era stata ancora abolita l’Inquisizione in Toscana che già i frammassoni
tornarono a far capolino a Firenze sebbene, per quanto ne sappiamo, non ancora
organizzati in una Loggia, dandosi a pubblicizzare le loro azioni, anche se
avrebbero potuto tranquillamente farne a meno.
“Nella
notte del 13 febbraio 1747 si è tenuto un gran ballo in via della Pergola, al
quale ballo molti degli Inglesi si diedero a rappresentare la Frammassoneria.
Gli abiti erano eleganti e Denis, il primo ballerino, che è un Maestro
Muratore, compose una danza per l’occasione che ebbe molto successo. Agli
italiani la danza piacque e la presero per una mascherata, poiché tal essa
sembrava, danzandola due volte con grandi applausi.
Alla
terza volta la danza fu interrotta e quelli se ne ritennero offesi. Gli animi ne
furono riscaldati, ma la calma fu ristabilita dal Generale Salvi. Ho udito che
gli Impresari ne rimasero oltraggiati (io non mi ero trattenuto sino a quella
tarda ora) e Lord March[lxxxviii]
si arrabbiò talmente con loro che propose che ciascuno dei nove frammassoni
avrebbe dovuto battersi con uno degli impresari. Essi avrebbero voluto
presentarsi con quegli stessi abiti al ballo di giovedì notte, ma il trambusto
provocato fece loro cambiare idea.”[lxxxix]
Quest’incidente
può essere citato in relazione alla saggezza dei nostri precursori della Gran
Loggia d’Inghilterra che due secoli or sono proibirono l’uso in pubblico di
paramenti massonici, una legge ben salutare.
Il
5 giugno 1753 il Vaticano revocò la Bolla emessa 10 anni prima dal
Sant’Uffizio che aveva portato a bandire l’Inquisizione in Toscana. Lo Zobi
concede alto credito a Benedetto XIV per quest’atto di sfida agli estremisti
di corte.
Essendo
così venuti meno i motivi del dissidio tra il Papa e l’Imperatore,
l’Inquisizione venne di nuovo autorizzata in Toscana, nel settembre del 1754,
ma solo nella forma permessa nella Repubblica di Venezia, formando cioè collegi
giudicanti misti, ove sedevano assieme giudici dello stato e giudici religiosi.
Le vecchie prigioni del Sant’Uffizio furono chiuse e gli accusati trasferiti
alle ordinarie galere di stato.
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APPENDICE I
I GIACOBITI IN
ITALIA
Alcuni
tra i visitatori inglesi in Italia procurarono diverse noie al loro stesso
governo. Il Mann scrive in una lettera a Walpole del 18 gennaio 1745 che alcuni
leali sudditi inglesi avevano abbandonato Roma al disgusto causato dalla
deferenza d’alcuni loro compatrioti al Vecchio Pretendente il quale aveva la
propria corte in quella città.
Bisognerebbe
però notare che a quel tempo la rivolta non era ancora sopita, e la questione
rimaneva irrisolta.
Scrivono
così quei sudditi: “Bouverie, Phelps, Holt e Monroe rimangono in gran favore
a corte poiché pubblicamente tributano onore al sovrano da burletta, col quale
essi hanno cenato. Il primo era un valente discepolo di Holdsworth[xc],
il secondo è un’importante studioso d’Oxford: egli non ha nulla da perdere
e viaggia alle spese di Bouverie, ma poiché ha le idee giuste, è trattato come
un gran cavaliere. Holt invece proviene da Suffolk e dicono che abbia estesi
possedimenti. Monroe[xci]
è il figlio del medico dei pazzi, ed è medico anch’egli.
Costoro
sono persuasi che le cose andranno nel modo in cui essi stessi si augurano poiché,
ti dico, frequentano pubblicamente il Pretendente e la sua gente. Quando vorrà
il governo rendersi conto di tutto ciò?”
(Citato
da Doran in Mann and Manners alla Corte di
Firenze, vol. i, p. 229.)
APPENDICE II
Documenti di stato
italiani dove si fa riferimento alla frammassoneria a Firenze
(Trascritto
dagli archivi di Lucca e Firenze da Ferdinando Sbigoli, ora tradotto in inglese
per la prima volta. Si noti che la trascrittura dello Sbigoli riproduce
integralmente modi di dire ed errori degli originali, che non erano pochi, così
che la traduzione apparirà più letterale che elegante).
(1)
Lettera di Diodati,
Ministro Residente della Repubblica di Lucca a Firenze al proprio Governo
Firenze, 12 giugno 1737
All’Illustrissimo
Signor Giuseppe Niccolini
Ebbi
recentemente ad annunciare alla Signoria Vostra che un corriere speciale fu
consegnato a Roma dall’ufficio del Segretario di Stato qui a Firenze senza che
io ne intendessi il motivo e non fu che più tardi che n’ebbi a sospettare la
causa.
Da
qualche tempo il Governo Spirituale è in allarme a causa di diverse massime che
troppo audacemente sfidano la nostra santa religione, correntemente discusse tra
i letterati di qui e derivate in massima parte dalle scuole di Pisa, ivi
propugnate da alcuni virtuosi sul modello di quelli che si dicono frammassoni,
che provarono a stabilirsi in Francia, e furono soppressi perché simili a
quelli che esistono in Inghilterra, nelle cui riunioni, si dice, sia
amministrato un giuramento che copre tutto quanto sia colà fatto o detto.
La
Corte di Roma ha deciso di inviare a Firenze due Delegati Apostolici o Delegati
dell’Inquisizione per studiare la questione, ed altri messaggeri, si dice,
sono stati inviati con notizie a quel riguardo, non sappiamo ancora a quale
scopo, se per intralciare il lavoro di quelli o per spronarli a strappare la
mala pianta sul nascere, poiché se questa si espandesse fatali conseguenze ne
deriverebbero.
Per
quanto ho potuto verificare Sua Altezza Serenissima l’Elettrice stessa n’è
grandemente disturbata, ed essendone a lei obbligato, al momento, il Consiglio
di Stato, è possibile che la Corte di Roma sia qui aiutata, a patto che non si
attacchino diversi notabili locali i quali hanno gran credito e supporto in
questo stato; il tempo ci aiuterà a scoprire la verità e specialmente quanto
sia vero che il richiamo del Generale Wachtendon[xcii]
ieri da parte di Sua Altezza il Granduca abbia questo obiettivo particolare, e
con tutti i rispetti rimango servo obbediente e devoto di Vostra Grazia
Lorenzo Diodati[xciii]
(2)
Diodati a Niccolini
Firenze, 16 giugno 1737
Al
Signor Niccolini di Lucca
In
risposta alla gentile lettera di Vostra Grazia del 14 vi dirò di come la
congregazione dei frammassoni fu istituita, secondo quanto si sa, da un certo
Milord Mildesses (Middlesex) con un
altro inglese di cui ignoro il nome, un certo Barone Stoches di Hannover ed un
ebreo; a tale società molti fiorentini si aggiunsero, della nobiltà, del
clero, e della borghesia, e particolarmente coloro che dicono essere uomini di
lettere.
In
ogni modo, siccome normalmente le cose, in Firenze, sono molto esagerate nel
corso della conversazione, sono sicuro che quell’influsso non è così forte,
a dispetto di ciò che se ne decanta e dello scrivere. Ad oggi non è chiaro
quali siano le dottrine di tale convocazione, poiché quelli si legano per mezzo
di un giuramento solenne e si dice anche, sebbene cosa incredibile in se, che
coloro si danno licenza l’un l’altro di assassinare quelli tra loro che
debbano divulgare il segreto.
Ho
udito però che quando si provò a fare quella società a Torino, si scoprì che
si basava sui seguenti tre detestabili principi, e cioè la conoscenza carnale
di donna non è peccato; la Confessione non è necessaria, essendo il pentimento
sufficiente a restituire lo stato di grazia; e che la carne può essere mangiata
anche di venerdì e di sabato.
Se
queste persone abbiano tali opinioni non è noto, è però vero che se ne parla
in giro, e ripetutamente, da parte di coloro che potrebbero essere membri
segreti di quella società, e quindi si può immaginare che queste idee siano
reali, anche perché è professato senza esitazione o riserva, che i letterati
non dovrebbero avere pregiudizi, e solo gli idioti dovrebbero avere fede cieca,
così che un buon cattolico è visto da molti di loro come un’ignorante.
Vedremo
se i due domenicani giunti segretamente ieri da Roma da parte
dell’Inquisizione scopriranno alcunché di definito.
Sia
il Nunzio che l’Arcivescovo si adoperano per la dissoluzione di quella
compagnia, o almeno d’esiliarne i capi; ma ad oggi non è stata presa
decisione alcuna, ed il momento è, in effetti, brutto, data l’attuale
situazione del governo.
L’attenzione
mostrata da Vostra Grazia per la vicenda è lodevole, poiché credo che la gente
stia tentando di spargere questo veleno per tutte le città italiane, ed essi
avranno successo nell’arruolare membri in gran segreto, anche se le Logge
potranno non apparire in alcuna città, con il pretesto che tutti i membri
formano un corpo unico con la prima Loggia formata in Inghilterra … sarà mio
pensiero costante il rimanere in guardia per tenervi informato su quanto sia
portato a mia conoscenza, nel desiderio d’aiutare a distogliere questo gran
male dal nostro paese; e nel frattempo resto obbedientemente, ecc….
Lorenzo Diodati
I
più importanti fiorentini che si dice siano associati, non potrei dire se a
ragione o torto sono: l’Abate Niccolini, l’Abate Buondelmonti, impiegato
all’Ufficio del Segretario di Stato e nipote del Signor M. Rinuccini;
l’Abate Franceschi; il Senatore Rucellai, Segretario di Stato; il Dottor
Giannetti, Professore a Pisa; alcuni Canonici della Cattedrale, diversi Dottori
in Legge e in Medicina, ed altri del clero.
(3)
Consiglio Generale di
Lucca. Archivi Segreti
18 giugno 1737
Vista
una lettera del 16 giugno da Diodati al Cancelliere riguardo i piani contro la
religione Cattolica diffusi a Firenze, e specialmente da parte di una
convocazione di privati cittadini. Vista una lista d’alcuni individui che si
dice siano infettati da tali opinioni, si decide che la suddetta informazione
sia tenuta segreta …. E si ordina che la somma di 500 scudi sia utilizzata …
per lo scopo di tenere la città e lo stato liberi da dottrine contrarie alla
nostra Santa Religione …
(4)
Diodati a Niccolini
Firenze, 29 giugno 1737
Non
ho disturbato Vostra Grazia ultimamente con la faccenda dei frammassoni poiché
nulla è successo da portare all’attenzione vostra, ma siate sicuro che se
dovessi udirne ne riferirò senza fallo. Sono sicuro che molti individui
scriveranno un’infinità di cose, molte delle quali lontane dalla realtà,
questi gentiluomini seguono i modi del paese aumentando a dismisura ogni cosa, e
talvolta anche inventando.
Cosa
si sa di certo è che quell’adunanza esiste a Firenze, sebbene io ancora creda
che il numero dei membri non sia grande come si dice, essendo quella ristretta
ad alcuni letterati contro i quali non sarà presa alcun’azione, a causa dello
sfascio del governo attuale.
Epperò
tutti gli stranieri autori di questa fondazione rimangono in piena libertà e
nessun letterato è minacciato, mentre solo alcuni frati di minor conto sono
stati carcerati dall’Inquisizione, i quali forse mai sono appartenuti a quella
lega, a dispetto di ciò che è stato detto o scritto che gran numero di persone
di riguardo, persino signore, sia stato arrestato; E i miei Signori il Nunzio e
l’Arcivescovo molto si adoperano per dissolvere la società e proibirne gli
incontri, ma invano.
E’
una vera sfortuna che la cosa sia venuta alla luce in questo particolare
frangente, poiché se non si applicano all’inizio i rimedi necessari il veleno
può spargersi e rendere incurabile il male, e finché la nazioni eretiche siano
ricondotte a credere che tutto ciò possa aver effetto pregiudizievole se non
sulla religione che quelli professano, almeno sul buon governo, e molti di
quelli hanno scritto avverso a tali incontri.
Nel
darvi ricevuta delle vostre due ultime missive, ecc.
(5)
Diodati a Niccolini
Firenze 2 luglio 1737
Milord
di Mildesses, che paga ogni spesa dell’Opera magnifica che si dà questa
stagione al Teatro di Via della Pergola, mi ha informato di esser disposto ad
inviare la stessa compagnia a Lucca verso la fine di Agosto per recitare colà a
proprie spese.
Ma
poiché non intende apparirvi di persona, egli vorrebbe che io gli facessi la
gentilezza di trovare qualche gentiluomo di rango per agire come suo deputato ed
organizzare tutto quanto attiene alla produzione, mentre la perdita o il
profitto rimarrebbero affar suo; ed egli mi richiede di avvicinare, come primo
nome, il Cavalier Bernardini, ma prima ch’io faccia il passo credo opportuno
informare Vostra Grazia, poiché questo gentiluomo, si dice, sia dei
frammassoni.
A
parte questa considerazione, è certo che la proposta beneficerebbe il nostro
stato, poiché senza alcuna spesa pei cittadini Lucca offrirebbe intrattenimento
capace d’attrarre stranieri, che spesso lasciano alquanto denaro addietro;
tanto più che il Generale Vachtendonck nel lasciare Livorno mi disse che gli
sarebbe piaciuto assistere a tale opera in settembre, ed egli ne avrebbe
approfittato per visitare la città e stabilire rapporti con la nobiltà.
Non
mi parrebbe esservi alcun pericolo in tutto ciò, poiché Milord non è mente da
far gran raggiri, ed il vero intrigante qui è il famoso Barone Stoches, e al
massimo si tratterebbe solo di alcuni giorni, durante i quali egli sempre
sarebbe accompagnato da un astuto cittadino, che lo seguirebbe con il pretesto
d’aiutarlo nell’Opera, come potrebbe essere il Cavalier Bernardini o altri
al posto suo.
Ciò
detto, Vostra Grazia agirà nel modo reputato più opportuno e prudente, avendo
io pensato essere mio dovere adoperarmi per informazione e guida, e così se vi
vogliate compiacere d’istruirmi alla mia risposta, rimango, nel frattempo,
ecc.
(6)
Archivi Segreti di
Lucca
5 luglio 1737
Avendo
letto una missiva del Signor Diodati del 2 luglio al Gran Cancelliere ove si
informa che un Milord inglese gradirebbe far arrivare in città una compagnia di
comici per un’opera teatrale.
Si
dispone … di istruire il Ministro a che egli si adoperi per sviare il suddetto
disegno, così che non possa aver luogo.
(7)
Lettera non firmata, ma
evidentemente da Diodati a Niccolini
16 luglio 1737
Non
è provato che l’Imperatore abbia conferito con il Marchese Bartolomei
riguardo alle novità delle quali si parla a Firenze, e molti dei messaggeri
inviati da quella Corte a Roma avevano a che fare col Vescovado di Pescia, il
quale è stato affidato in spregio alle procedure usuali di Sua Santità, la
quale innovazione riguarda il Duca di Lorena, che appartiene, assieme con altri
patrizi di quel luogo alla società dei frammassoni d’Inghilterra, la quale è
molto antica, e si dice che, a parte lo stretto segreto osservato dai membri,
non abbia altre caratteristiche di rilievo.
Potrebbe
anche darsi che ciò fosse vero, poiché essi ammettono ogni genere di persona
senza distinzione di rango o di nazione, e si pensa che il segreto, in verità,
non sia nulla, e i loro incontri senza alcuna importanza. Se però a Firenze la
cosa ha prodotto conseguenze più grandi di tutto ciò, allora si dovrà
certamente fare attenzione per salvarne la nostra nazione.[xciv]
(8)
Archivio di Stato di Firenze.
Estratti da una lettera scritta da Sua Eminenza il Cardinale Neri
Corsini a S.A.R. Francesco di Lorena, Gran Duca di Toscana.[xcv]
16 aprile 1739
Egli
(Il Cardinale) significa che si ritiene lusingato per il rispetto e
l’attenzione che S.A.R. ha dimostrato da quando divenne Granduca, e che S.A.R.
riceverà benignamente la rappresentazione che si intende fargli, con la
speranza di non essere sospettati di poca sincerità o motivi ulteriori.
E
che tutti i suoi concittadini potrebbero testimoniare a S.A.R. del modo con il
quale egli ebbe a servire gli ultimi Granduca, suoi predecessori, e dell’amore
che egli ha per il suo paese, amore che condivide con Sua Santità, che sempre
è stata suo protettore, e agli ordini del quale egli presentemente si arrischia
a scrivere a S.A.R. che la religione è ora in pericolo nel suo paese, dove il
male si allarga rapidamente.
Pietà
e saggio governo potrebbero arrestarne il corso, e si assicura che non si tratta
di visioni o infondati timori da parte dello scrivente, né allarmismo causato
da un male ancora lungi da venire, e se ne dimostreranno i fatti a S.A.R.
S.A.R.
deve essere informata che il Barone Stock, il quale egli conosce da lungo tempo
sia in Olanda che a Roma per essere uomo senza morali o religione tiene alla sua
dimora scuola di puro deismo assieme ad alcuni tra i più corrotti professori
dell’Università di Pisa, e gli studenti più perversi provenienti da quella
stessa Università hanno sposato quei principi con la dissolutezza più
assoluta.
Stock
si crede salvo, sotto la protezione di quella Corte[xcvi]
che oggi regna in Inghilterra, (sebbene egli sia odiato dalla gente onesta di
quel paese). E perché non si chieda cosa accade in quella società egli l’ha
chiamata dei frammassoni, e così se ne coprono le malefatte per quelli che
credono che questa società sia stata formata come innocuo passatempo in
Inghilterra, ma non sanno come si sia degenerata in Italia e divenuta scuola di
empietà.
Invero
in Inghilterra, ove quella si originò, non vi è bisogno di pretesto o
copertura, e tutte le sette vi sono tollerate, sebbene non così sia in Italia.
E ciò che è accaduto sarà esposto in modo certo a S.A.R. se ella si compiacerà
di ascoltare le deposizioni fatte all’Inquisizione da persone toccate dal
rimorso delle loro coscienze, che vennero a denunciarsi e a fare i nomi dei loro
complici.
Egli
vorrebbe pensare che non tutti coloro sono perduti, anche se ve ne è il grande
pericolo, particolarmente pei giovani, poiché essi potrebbero senza saperlo
ingurgitare iniquità come se si trattasse d’acqua fresca.
Le
denunce ricevute dall’Inquisizione recitano che presso la casa del Barone
Stoch, così come in altri caffè e negozi pubblici siano sparse dottrine
contrarie alla fede e alla purezza della morale.
E
si nega la trinità e l’immortalità dell’anima e l’autorità della
Chiesa, e per quanto riguarda la morale, si asserisce che non esiste peccato dei
sensi se non la sodomia, così come S.A.R. potrà chiedere in più dettaglio al
Padre Inquisitore, se si degnasse di convocarlo ed ascoltarlo …
(Il documento prosegue facendo riferimento all’incombente campagna di
Francesco contro i turchi, suggerendo ch’egli debba prima far ordine in casa
propria, in modo da meritarsi i favori del Cielo contro gli infedeli.)
L’unico
rimedio essendo per questo male, così che si possa mantenere la purezza della
religione e della morale nel paese, cosa che ogni principe dovrebbe fare, di
espellere immediatamente dai propri territori il Barone Stoch e Milord Raymond,[xcvii]
e permettere all’Inquisitore di arrestare due o tre tra i principali colpevoli
così da poter strappare le radici della setta ed indurre gli altri alla
penitenza.
(Il Cardinale suggerisce poi di ripulire dall’eresia l’Università
di Pisa. La lettera termina, infine, facendo cenno agli svantaggi che
sorgerebbero qualora il Papa si dovesse vedere costretto a richiamare il Nunzio
di Firenze, tacitamente alludendo al fatto che tale sarebbe la conseguenza, se
il Granduca dovesse permettere all’eresia di prosperare indisturbata nei
propri domini.)
(9)
Archivi Fiorentini
Dal Granduca di Toscana al Duca di Newcastle.[xcviii]
Autorizzato: espulsione del Barone Stock dallo Stato di Toscana.
Firenze, 26 aprile 1739
Il
bene del mio ufficio e dei miei sudditi avendomi obbligato ad ordinare il dì 22
di questo mese al Barone Stock, che qui dimorava da alcuni anni, a lasciare i
miei territori entro tre giorni; essendo il Signor Mann venuto a rimostrare su
tale decisione si è deciso di allungare il termine agli otto giorni, ed avendo
egli nuovamente fatto presente di come si trattasse di persona sotto la
protezione particolare del Re suo maestro, non si è esitato a sospendere
l’esecuzione dei miei ordini, a dispetto degli urgenti motivi che mi hanno
indotto ad impartirli, a causa dell’affetto che provo per Sua Maestà.
Vi
prego quindi, signore, di rappresentare a Sua Maestà la deferenza ch’io ho
per i suoi desideri, ch’io spero egli voglia, dal suo senso di giustizia,
considerare che io soltanto ebbi ad impartirli per buoni motivi, e cioè per il
bene del mio ufficio e dei miei sudditi, e che non me ne voglia se gli ordini
saranno eseguiti, cosa ch’io comunque non farò sino a che non otterrò
risposta vostra.
Faccio
conto sull’amicizia vostra, signore, per rendermi questo gran servigio, poiché
io molto desidero di conservare i favori e l’amicizia preziosa del Re, nel
mentre svolgo i doveri richiesti ad un sovrano da parte del suo popolo. Essendo
ecc.
(10)
Archivi Fiorentini
Dal Granduca di Toscana al Cardinal Corsini.[xcix]
Autorizzato: sulle diverse vedute a riguardo dell’Inquisizione con
la Corte Papale.
Firenze, 27 aprile 1739
Non
posso a sufficienza testimoniare all’Eminenza Vostra come io sia sensibile a
tutto ciò che dite nella vostra del 16 mese corrente. Prego che riterrete
questi stessi sentimenti per quanto mi concerne, e per ciò che riguarda me
medesimo, il mio stato ed i sudditi siate sicuro della mia gratitudine.
L’Inquisitore
informerà l’Eminenza Vostra di quanto io abbia fatto; la mia partenza mi
impedisce, al momento, di adoperarmi ulteriormente, ma ho preso e prenderò
ulteriori misure per prevenire ciò che Vostra Eminenza giustamente teme.
Ciò
che il Nunzio comunicherà a Vostra Eminenza dimostrerà, io spero, di quanto io
desideri, dalla mia parte, rimuovere ogni ostacolo e trattenere qui un Ministro
del suo rango. Non ho dubbi che la Corte di Roma dal canto suo impiegherà mezzi
eguali; e sempre mi avvarrò di ogni occasione per mostrare l’attaccamento
profondo che mi lega all’Eminenza Vostra, ecc.
(11)
Estratto da una missiva[c]
del Granduca di Toscana al suo Primo
Ministro il Conte di Richecourt a Firenze.
Non vi è indirizzo. Probabilmente scritta da Vienna.
24 ottobre 1739
Il
resto della vostra comunicazione si riferisce al caso di Crudeli, il quale
sembra vi stia molto a cuore; Anche se non la vediamo esattamente come voi,
alfine di farla finita e non udirne più, ammesso che ciò sia possibile, siamo
d’accordo nel permettergli la fuga, ma alla condizione che egli lasci i Nostri
territori; egli potrà allora inviarci un memoriale col quale protestare la
propria innocenza e fornire ogni prova che riterrà opportuna, e richiedendo che
gli sia concesso di far ritorno a Firenze; allora emetteremo un decreto redatto
in forma tale da non comprometterci con Roma; Considerate tutto ciò ben in
anticipo ed esprimete dunque il vostro parere; non dovrà sembrare che la fuga
sia stata tollerata ed ancor meno insinuata, cosa che non potrebbe avvenire se
egli rimanesse nei Nostri territori.
(12)
Archivi Fiorentini.
Estratti da un documento vergato da Giulio Rucellai, Segretario di Stato
21 luglio 1739
Rapporto
fornito dal Senatore Rucellai al Conte di Richecourt sui diversi motivi per i
quali, a suo parere, egli consideri la carcerazione di Crudeli esser contraria
alla legge ed un abuso di potere.
Lettera
scritta al Conte di Richecourt dalle mie stesse mani ch’io chiusi il giorno
medesimo in un dispaccio per Sua Altezza Reale.[ci]
Gli
ospiti inglesi, i quali a causa delle ingenti somme che spendono sono qui molto
popolari, si lagnano poiché vedono aumentarsi la loro paura e lo scontento a
causa di alcune frasi lasciate cadere dall’Inquisitore presso le magioni di
alcuni dei più in vista tra loro (a casa Vitelli egli disse che, sebbene non
sia riuscito a far bandire Stosch, riuscì comunque ad avere il Crudeli
arrestato);
Queste
sue affermazioni hanno portato a credere che uno dei maggiori crimini del
Crudeli sia stato quello di essere nella società degli inglesi, dai quali egli
ne traeva il pane insegnando loro il nostro linguaggio; e dal comportamento
dell’Inquisitore e dal modo nel quale parlava, era evidente ch’egli sarebbe
stato ben felice se la gente pensasse che i diversi effetti contemporanei tutti
fossero prodotti dalla medesima causa.
Tali
sospetti hanno continuato ad aumentarsi, poiché era noto non solamente che egli
cercasse di spiare su quanto era detto ed avveniva nelle case di alcuni tra i più
rispettati inglesi di Firenze, ma anche che si controllavano i passi di altri a
Siena, così che egli ebbe quasi successo nel proibire ad un certo Dottor
Valentini, che insegna italiano in quella città, di frequentare quella società,
dicendo che questi inglesi son molto
pericolosi, ed aggiungendovi altre osservazioni equivoche.
Così
ognuno che si è accompagnato con gli inglesi è sospetto, mentre è fuor di
dubbio che alcuni dei nostri concittadini hanno detto agli inglesi che non li
posson più frequentare in sicurezza, cosa che ha allarmato questi ultimi e dato
la stura a varie supposizioni.
Di
tali supposizioni la più plausibile essendo che il vero crimine di Crudeli sia
stato l’esser uno dei frammassoni.
Io dico sia la più plausibile perché, in primo luogo: perfino durante il regno
di Gian Gastone, nell’anticamera del Duca il medesimo Inquisitore ebbe a
parlarmi con molta foga di questa società, che egli chiamava setta, in modo
ch’io mi accorsi che evidentemente egli doveva aver ricevuto ordini precisi
sulla faccenda; e quando io seppi tutto ciò credetti fosse mio dovere, al
momento dell’emissione della famosa Bolla, informarne il Consiglio di
Reggenza, il quale deliberò che la detta Bolla non era né da stamparsi né da
offrire in vendita al pubblico a Firenze.
In
secondo luogo il 9 giugno 1738 un prete di nome Bernini fu interrogato
dall’attuale Inquisitore espressamente su questi frammassoni, chiedendogli se
Crudeli fosse uno di loro, così come l’Abate
Franceschi, l’Abate Buondelmonti, e il Dottor Corsi.
Il
Dottor Pupiliani fu interrogato a riguardo dei frammassoni, e della persona di
Stosch e tenuto cinque giorni in prigione senza che il Governo nulla sapesse.
In
terzo luogo poiché alcune lettere da Roma dicono, al di là d’ogni dubbio,
che questo è il vero motivo.
Ed
infine perché per mezzo dell’ultima corrispondenza ricevuta da Roma ho saputo
per certo che due privilegi usualmente garantiti in via ordinaria sono stati
rifiutati a due gentiluomini: all’Abate
Giulio Buondelmonti è stata rifiutata la dispensa a dire messa, ed il Cardinal
Corsini disse il motivo essendo che questi era frammassone.[cii]
Al Canonico Maggi fu rifiutata dispensa di accedere ai Santi Ordini, ed
io ho veduto il rescritto eseguito dal Cardinal Corsini e più tardi cancellato,
che gli fu inviato per il tramite del Cardinal Riviera.
L’unica
scusa data essendo che uno di quelli appartenne ai frammassoni, e l’altro
invece vi era associato ed anzi ne raccomandò il Crudeli, e la dispensa fu
rifiutata al secondo dopo che il relativo mandato era già stato approvato.
(13)
Archivi Fiorentini.
Estratti da una lettera dal Granduca di Toscana al Conte di Richecourt.[ciii]
Autorizzato; tener d’occhio il comportamento del Barone Stosch.
Vienna, 21 novembre 1739
Essendo
voi stato informato delle ragioni che hanno determinato la Nostra decisione al
riguardo di Stosch, che solo fu ritardata dalla lettera giunta
dall’Inghilterra, della quale avete copia, sarà nostro dovere d’informarsi
se quest’uomo si dedichi a discorsi o abbia discussioni contrarie alla Nostra
Religione, il che il Re d’Inghilterra non permetterebbe, e come a voi non
sfuggirà, dobbiamo esser sicuri dei fatti ed aver prova convincente per fare ciò
che le circostanze richiedono; per ciò vi ordiniamo di fare quanto pensate sia
necessario a questo fine, cosa che forse non sarà ardua, poiché l’affare
sembra di essere di pubblico dominio.[civ]
(14)
Archivi di Stato, Firenze.
Estratto dell’interrogatorio amministrato dal Vicario del
Sant’Uffizio a Bernardino Pupiliani.
Il
mio nome è Bernardino Pupiliani, Dottore in Medicina, di anni 28, nato a
Firenze, dove ho genitori e fratelli ... Occasionalmente sono stato alla dimora
del Barone Henry Stosch.
Come
avete fatto a divenire visitatore della casa del suddetto Stosch?
Vi
fui presentato dall’Abate Buonaccorsi.
Mentre
visitavate il Barone Stosch, siete mai stato colà in compagnia di suo fratello?
Mai,
né io mai ne entrai gli appartamenti in quella casa.
Chi
faceva visita al Barone Stosch, fratello del suddetto barone Henry, a che ora, e
tutti assieme o alla spicciolata?
Molte
persone vi andavano le quali io non conosco, mi capitò di vedere però, mentre
ero dal Barone Henry, uscire dalle stanze del fratello l’Abate Buonaccorsi, i
due fratelli Marcantelli, Cerusico e Martini, andarvi a trovare il fratello. Ho
anche sentito dire, che l’Abate Vanneschi, l’Abate Buonducci, il Cancelliere
Pomi, il Crudeli ed il Corsi, oltre ad altri il cui nome non mi sovviene, tutti
questi visitavano quel luogo.
Sapete
cosa tali persone facessero a tali conversazioni nella casa di Stosch?
Non
lo so, poiché infatti io non vi fui mai, ma suppongo essi parlassero o
leggessero, mentre alcuni come l’Abate Buonaccorsi e i due Marcantelli vi si
trattenevano talvolta a cena.
Sapete
cosa avvenisse a quelle conversazioni e di cosa si discutesse?
Non
essendovi stato lo ignoro con precisione, ma ho sentito dire vi si discutesse
questioni quali se la terra si muova, se l’anima sia mortale o immortale, se
il mondo sia comandato da Dio o dal caso, se esista o no il Purgatorio,
l’autorità del Papa, l’esistenza di Dio, di come la religione altri non sia
che vivere come essere civilizzato, ed altre simili tesi ch’io non ricordo:
tutto ciò mi è stato detto dall’Abate Buonaccorsi ieri sera.
Sapete se in quelle conversazioni vi sia alcuna assemblea formale e che
tipo di riti particolari questa abbia?
Io
non lo so, solo credevo che queste persone potessero essere frammassoni.
A
proposito di frammassoneria, sapete se in alcuna di quelle conversazioni si
discutesse della Bolla che scomunica la frammassoneria?
Non
lo so, ma se ne discusse alla casa dell’Abate Buonaccorsi, ed egli mi disse di
aver consigliato Sua Eccellenza il Principe di Craon di non permetterne la
pubblicazione qui, poiché si trattava d’una follia.
Sapete
in qual modo è arredata la stanza dove si tengono quelle conversazioni?
Non
l’ho mai veduta, ma l’Abate Buonaccorsi mi disse trattarsi d’una
biblioteca con alcuni tavoli da lettura, ecc.....
Avete
mai parlato con alcuno di queste conversazioni da Stosch, e se si, con chi e
cosa fu detto?
Poiché
tutta Firenze diceva che i frammassoni si riunivano a quelle conversazioni,
oserei dire che anch’io mi unii a quelle chiacchiere con gente che non
ricordo, poiché anch’io credevo che i frammassoni si riunissero in quel
luogo; e si diceva, e si credeva ch’io pure fossi frammassone, e mi si diceva
che quelli discutevano questioni di religione, ed erano atei e peggio, cose
ch’io talvolta contraddicevo.
Vi
hanno mai chiesto se sapevate cosa accadesse alla casa di Stosch?
Diverse
persone mi dissero, come vi ho detto, che si trattava di incontri di
frammassoni, ed erano sicuri ch’io vi partecipassi, ma nessuno mi domandò
nulla di specifico ... e quando io mi confessai a Fra Giovanni del
Sant’Uffizio egli mi domando se avessi mai udito dire da alcuno ... che la
Religione è un’invenzione dei preti, che Dio diede autorità a San Pietro
solamente, e che il Papa non ne ha alcuna, e la Bolla contro i frammassoni non
debba essere accettata ed è un inganno; e poi mi domandò ... se fossi
frammassone, cosa ch’io negai.
(15)
Archivi di Stato di Firenze.
Accusa
di Crudeli da parte del Sant’Uffizio[cv]
Articulos
infrascriptos dat, exibet, atque producit Dominus Oratius Bassi Procurator
Fiscalis Sanctae Inquisitionis Civitatis Florentiae in Causa, quem habet contra
et adversus Doctorem Thomam Crudeli Careratum in Carceribus dictae S.
Inquisitionis ex adverso principalem, quos ad probandum recipi, et admiti juxta
stilum Sanctii Officii, et super illis infrascriptos testes diligenter examinari
petiit, et instat, ad superfluam tamen probationem nullatenus se adstringens, de
quo solemniter et expresse protextat: omni meliori modo ecc.
In
primis dictus Procurator Fiscalis, quo supra nomine hoc loco articulorum
repetit, et reproducit omnia, et singula in processu, causa hac tenus deducta
praesertim confessiones dicti Inquisiti in parte tamen, et partibus in favorem
Fisci, et contra dictum Doctorem Thomam Crudeli facientibus et non alias, nec
alio modo, de quo expresse protextatur omni meliori modo.
Ex quibus sic repetitis clarissime constare dicit de bono Jure Fisci, et
malo Jure dicti Thomae Crudeli, et quatenus non plane constaret praefatus
Dominus Fiscalis, et probere vult, et intendit. Primo qualiter praedictus Thomas
Crudeli male sentiens de Sacra Theologia Scolastica, de Sacramento Confessionis,
et de S. Officio locis, temporibus et occasionibus prout in Actis asseruit.
Si
tratta di Filosofia Scolastica inutile, superflua, chimerica e contenente falsità.
Che gli Angeli Custodi stiano al finestrino ad osservare i moti del cuore
allorquando la Teologia Scolastica sia in discussione.[cvi]
Che
egli avrebbe voluto confessarsi per far fare al confessore la figura del
sempliciotto, e dopo la confessione dirgli: “Sei un somaro”.
Che
il Sant’Uffizio sia ingiusto, accettando le accuse e non permettendo gli
accusati di difendersi, ed esaltando la Francia, ove non vi è Sant’Uffizio.
Secundo
Item qualiter praedictus Thomas Crudeli animo prorsus hereticali dixit, et
affirmavit occasione discursus, che una persona abbia in animo di recarsi in
pellegrinaggio alla Madonna dell’Impruneta al solo scopo di buggerarla.
Tertio
Item qualiter praeductus Thomas Crudeli intervenit in una casa ove eravi molti
libri rari, e dove si conversava di Filosofia e di Religione, e la discussione
prese una piega agnostica e spregevole a dimostrazione del fatto che egli fosse
ateo.
Quarto
Item qualiter dictus Thomas Crudeli prese parte ad una riunione in una casa di
Firenze alla quale, quando tutti vennero accettati, qualcuno al suo primo
ingresso avrebbe detto, abbracciandolo: “Benvenuto amico, per grazia di Dio e
della brava gente avete abbracciato questo Rito”, dopodiché il nuovo membro
si sarebbe prostrato a terra e qualcun altro mannejando
ad esso il membro virile usque ad seminis effusionem col detto seme scriveva poi
in certa carta così: io, così e così, giuro alla presenza degli associati
che mi manterrò fedele in fare tutto quanto gli altri facciano, e se fallissi
prometto di sottomettermi ad ogni possibile mortificazione del corpo.
Che
il detto nuovo membro poi prendeva posto in una sedia senza braccioli, ed alzata
una gamba in aria, ratificava il giuramento.
Le
discussioni che colà hanno luogo parlano di Filosofia e di Teologia, ma con
molti errori contro alla nostra Santa Fede come, per esempio, che nessun atto
carnale sia peccaminoso ad eccezione della sodomia.
Che
non vi è Purgatorio né indulgenze, ecc.
Che
il papa non ha potere poiché Gesù Cristo lo diede a San Pietro e non ai suoi
successori. Che le tre Persone Divine siano tre Deità.
Che
nel Sacramento dell’Eucarestia non vi sia presente il vero corpo di Gesù
Cristo.
Che
Dio sia l’autore del male, poiché ne permette l’esistenza. Che Dio non sia
verità. Che la vera regola di fede sia di credere ciò che sia mostrato reale
dalla ragione. Che San Giovanni l’Evangelista fosse un asino.
Che
sia stato normale il non andare a messa, eccetto di volta in volta per salvar le
apparenze, ed inginocchiarsi talvolta al Santo Sacramento, e per la stessa
ragione saltuariamente confessarsi.
Che
tutto possa essere legale ciò che tale appare ad un uomo civile, ed illegale ciò
che non gli aggrada.
Che
sia legittimo il ribellarsi contro il Re se questi impone gravi fardelli.
Che
allorquando la Bolla di Clemente XII nella quale la società dei frammassoni
veniva condannata era pubblicato, al Papa venne imputato d’aver bandito
qualcosa senza aver alcuna conoscenza dei suoi principi fondamentali, e che gli
estensori di quel documento fossero dissennati, stupidi ed avventati ecc.
Quinto
Item qualiter supra dicta omnia et singula fuerunt, et sunt vera, publica,
notoria et manifesta. Hoc autem ecc. salvo jure ecc. non se abstringens etc.
protextat, ecc. omni meliori, ecc.
(16)
Archivi di Stato di Firenze
Estratti dalla ritrattazione di Andrea Minerbetti. Giurato 4 luglio 1740
Giuro
e dichiaro che avendo qualche tempo addietro udito molto parlare della Compagnia
dei Frammassoni altrimenti detta dei Frimmessons,
e volendo esservi ammesso, ed a quello scopo aver interpellato diverse persone
ch’io credea potessero aiutarmi al mio obbiettivo, essi mi fecero capire e
m’imposero molte cose a riguardo della detta compagnia, dimodoché per qualche
tempo, cosa ben nota in città, ne rimasi abbagliato, ed avendone alfine chiesto
ad un personaggio di nascita e di rango, Protestante, all’epoca residente in
città, anch’egli mi raccontò molti dettagli immaginari della detta
compagnia.
E
poiché, non ostante ciò, non riuscii mai ad ottenere quello che desideravo, e
volendo almeno apparire come se ne facessi parte, anche se così non era, ed
essendomi stato detto tra le altre cose che quelli si riunivano alla casa del
Barone von Stosch, che molte oscenità vi venivano commesse, ed opinioni
eretiche ed atee espresse, ed il rispetto dovuto al Sovrano ne era attaccato;
ecco che ai miei soli scopi, ovunque io fossi, parlavo di tali supposizioni come
se vi fossi stato presente di persona per vedere, udire e praticarle. Allora
queste mie affermazioni debbono essere state riportate al padre Inquisitore.
Egli
iniziò domandandomi delle cose ch’io aveva detto riguardo ai frammassoni ed
in particolare dei loro riti osceni, dottrine atee ed eretiche, e frasi
sovversive contro al Sovrano.
Sapendo
io che non era vero ch’io fossi stato personalmente presente a vedere, udire o
praticare tali cose, dapprima negai, ma quando il padre Inquisitore insistette
ch’io le aveva invero dette, e sapendo io stesso d’averle dette ebbi paura
d’essere arrestato se le avessi negate, ed allora decisi di ripetere al
processo le mie invenzioni, così come avevo fatto in precedenza a Firenze; ed
anzi, udendo il Padre Inquisitore pronunciare il nome di molte persone che
sarebbero state coinvolte in tali cose, ed avendo ormai raccontato una storia
che era falsa dall’inizio alla fine, e basata solo su ciò che mi era stato
detto, mi decisi a confermarne i nomi, che certamente mai prima avevo
menzionato, come se fossero in effetti stati implicati .... poi venni al momento
congedato.
APPENDICE III
Traduzione
d’un passaggio dal GRUNDLICHE NACHRICHT
Dopo che quest’articolo è stato scritto e pubblicato ho
avuto la fortuna d’ottenere, per la biblioteca di Gran Loggia, la copia di un
libro raro nella sua seconda ed ampliata edizione. Il titolo è, in tedesco, sua lingua originale: Grundliche Nachricht von den Frey-Maurern nebst beygefugter historischen
Schutz-Schrift. Zweyte vermehrte Auflage. Franckfurt am Main / In der
Andreaischen Buchandlung. MDCCXL.
La
pagina iniziale riporta inoltre una riproduzione della medaglia di Sackville.
La
parte più interessante delle “Notizie dei Frammassoni” sono le informazioni
che il compilatore ebbe a mettere assieme sulle fortune dell’Arte
nell’Europa di quei giorni; ne riporterò una traduzione di quella parte che
si riferisce all’Italia. (Capitolo x, pp. 135 e seg.)
Poiché
nei precedenti capitoli abbiamo narrato dei fatti dell’Ordine Massonico in
Inghilterra, Olanda e Francia, dovremmo ora brevemente menzionare il fatto che,
secondo alcune notizie recenti, non molto tempo addietro è sorta in Italia una
società denominata La Cucchiara,
parola che significa cazzuola da muratore.
Si
dice inoltre che la Congregazione del Sant’Uffizio abbia scoperta la società
a Roma e n’abbia arrestati i membri appartenenti a quelle famiglie che avevano
contatti con la suddetta società per impararne gli scopi, ma le inchieste non
dettero frutti.
Similmente
si sa che a Firenze Lord Charles Sackville, Duca di Middlesex, figlio del Duca
di Dorset, abbia colà fondato una Loggia e la fratellanza dei frammassoni,
avendone fatto incidere una medaglia per l’occasione. Su un lato campeggia il
suo busto in stile romano con l’iscrizione: CAROLUS SACKVILLE, MAGISTER
FLORENTINUS. Sull’altro vi si mostra Arpocrate, dio pagano del silenzio in
forma di nudo maschile, con un fiore sul capo, un dito della mano destra posato
sulle labbra ed una cornucopia dell’abbondanza nella mano sinistra riempita di
fiori e frutta. vicino, al suo lato, sono tutti gli strumenti del muratore,
mentre all’altro si nota la gabbia segreta col serpente.
Poco
prima della morte dell’ultimo granduca della casa medicea fu espletato un
determinato tentativo di aprire un’inchiesta diretta ai frammassoni, dopodiché
non si seppe più nulla della vicenda fino all’anno 1737 quando giunsero,
dall’Italia, le notizie che seguono:
“Nel
Granducato di Toscana, sia nella capitale Firenze sia a Livorno i frammassoni
tornano ad aumentare dopo esser stati proibiti dall’ultimo Granduca. Ma essi
fecero appena in tempo a riaprir le Logge che quella novità giunse a Roma.
il
25 giugno 1737 secondo una risoluzione del Sant’Uffizio, il Papa tenne una
conferenza speciale sulla questione coi Cardinali Ottoboni, Spinola e Zondedari,
ed il Capo Inquisitore n’ebbe ad uscir da Roma come conseguenza:
l’Inquisizione supponeva che a Firenze si nascondesse una setta segreta di
molinisti o quietisti, mentre a Roma prevaleva l’opinione che, siccome la
setta sembrava prendere le distanze dalle opinioni della gente comune, potesse
trattarsi d’una forma dissimulata d’epicureismo e come, tale, passibile
d’essere colpita con il massimo del rigore.
Assieme
al segreto più stretto osservato da costoro, li si accusava di far proseliti da
ogni classe della società senza distinzioni di religione, inclusi i maomettani.
Nel frattempo s’iniziava un procedimento criminale contro questi fratelli e
varie persone furono arrestate.
Presto
però il fuoco della persecuzione si spense, le Logge furono riaperte e
l’Inquisizione non fu più temuta. Si disse in giro che ciò fu a causa di un
gran principe che faceva parte della società, un principe dotato di tanta
saggezza e virtù che certo non sarebbe potuto appartenere ad una società che
non mostrava riguardo alla religione, alla proprietà privata ed alla buona
morale.”
Il
perpetuarsi però di questa cosiddetta setta sembrò grandemente pericoloso alla
Curia Papale, vieppiù poiché ora aveva trovato protezione dal nuovo governo
fiorentino. Così, dopo profonde ponderazioni, si decise a Roma di schiacciare
la crescita del male con quanta più enfasi possibile, e fu promulgata la
seguente Bolla di scomunica contro i frammassoni.
(Segue
il testo della Bolla, in lingua originale)
Dopo
che il governo fiorentino ebbe ricevuta la Bolla papale da Roma, si ritenne
consigliabile inviarla a Vienna al Duca di Toscana, ora colà regnante, per
averne il parere: come ci si sarebbe dovuti comportare?
Gli
ordini che ne seguirono non sono mai stati divulgati, ma immediatamente dopo si
ricevette da Firenze la seguente comunicazione:
“Sebbene
i frammassoni, che qui possono essere incontrati in gran numero, facciano
affidamento di ricevere più sicurezza e libertà in questo Stato che non a
Roma, poiché hanno l’onore d’avere diversi gran principi nei loro ranghi,
ciò non ostante essi sono improvvisamente in allarme perché l’Inquisizione
di questa città li ha fieramente attaccati.
Il
Dottor Crudeli, su cui era il sospetto d’esser membro di quella società
ammantata di vago e di misterioso, fu arrestato l’altra settimana e gettato
nella prigione del Sant’Uffizio a causa d’un ordine di questo terribile
tribunale. Poco dopo, il Vicario Generale di quel tribunale si recò alla di lui
casa per perquisirla alla ricerca di qualsiasi cosa si potesse utilizzare come
prova al processo.
Per
fortuna un uomo di rango, avvertito di ciò che stava per avvenire, precedette
il Vicario e mise in salvo certi documenti i quali, se trovati, potrebbero aver
perduto il prigioniero.
Tutti
gli amici di questo dottore sono in disperazione: essi sono molti e si ritengono
frammassoni fra di loro.
Si
afferma da fonte certa che la Curia Papale, per mezzo del Nunzio Residente è
riuscita ad influenzare il Granduca fino a riceverne un editto che permette
all’Inquisitore, per tutta la sua giurisdizione, di procedere penalmente
contro tutti i frammassoni, o tutti coloro sospettati di esserlo.”
Così
recita la comunicazione, e se il pericolo è così grande come si dice debba
essere, allora i bravi frammassoni sono davvero in una brutta situazione. Anzi,
dal tempo della pubblicazione della suddetta Bolla la Corte Papale ha
grandemente incrementato il proprio zelo nella caccia ai frammassoni.
Si offrono 100 scudi di ricompensa a chi possa
scoprire i membri della setta o il luogo dove si ritrovano; e anche se
l’informatore è un frammassone, se egli tradisce i compagni può ben sperare
nel perdono e nell’assoluzione.
[i] P. 92 et
sqq., dalle quali si riporta. i lettori potranno far riferimento a A.
Q. C., xii, 204, xxxii, 31; ed in particolare all’articolo del Crawley
in xiii, 149, relativo al graduale
accumularsi di prove dell’esistenza della medaglia e della Loggia. Il
Gould nel suo History, III, 300, non
riporta l’esistenza né dell’una né dell’altra. Crowley cita un brano
da Freemasonry Farther Dissected
per assumere l’esistenza di una Loggia a Firenze a partire dal 1730,
basandosi sulla data del “18 luglio 1730” contenuta in una lettera
proveniente da Roma. Io suggerisco invece si trattasse piuttosto di
un’errore di battitura, dove 1730 appare in luogo del 1737 e che pertanto
quelle conclusioni non abbiano valore alcuno. Il lettore in ogni modo potrà
formarsi la sua propria opinione dalle nuove prove che presenterò nel corso
del presente saggio.
[ii] L’autore di questa
importante lettera non poté essere identificato nel 1924. Oggi non avrei
esitazioni nell’affermare che potesse trattarsi del Barone Philip von
Stosch, sul quale il lettore verrà adeguatamente edotto.
[iii] Milano, 1884. Attraverso
questo saggio mi sono accontentato di proporre, arrangiandola, la narrativa
dello Sbigoli senza annotarne la pagina nell’originale; in alcuni rari
casi, non potendo far riferimento ad alcune sue affermazioni nel documenti
originali, ho badato a riportarle tra virgolette. Credo però che lo Sbigoli
sia, in effetti, fonte veritiera d’informazione. Ho provveduto poi a
tradurre la gran parte della sua documentazione originale, che ho riportato
nel presente saggio all’Appendice II.
[iv] Vedasi alla Appendice II.
[v] Giovanni Gastone, più
conosciuto come Gian Gastone, ultimo dei Granduca dei Medici nacque nel 1671
e successe alla guida del Granducato nel 1723. Suo padre e predecessore
Cosimo III era sottoposto a forti influenze della Chiesa, che vennero a
scemare al momento della sua morte.Gian Gastone sposò, nel 1697 Anna Maria
di Sassonia-Lauenberg che lasciò dopo un anno; da allora gli scandali che
riguardarono la sua vita privata non furono mai associati a nessuna altra
donna. Dal momento della morte di sua cognata la Principessa Violante nel
1731 egli lasciò che il Granducato cadesse sotto l’influenza del suo
valletto Giuliano Dami, noto così come odiato dalla popolazione. Essendo
Gian Gastone ultimo della sua linea e senza eredi diretti, le grandi potenze
europee procedettero a sistemare le questioni toscane senza ascoltare la
Principessa, prima proponendo la guida del Granducato a Don Carlos, figlio
del Re di Spagna, poi, per mezzo dell’Arciduchessa Maria Teresa, figlia
dell’Imperatore Carlo, convincendo, dopo molta diplomazia, Francesco di
Lorena a rinunciare, in cambio della Toscana, ai propri diritti ereditari
sulla Lorena a favore di Luigi XV di Francia il quale la diede in
appannaggio a suo suocero, l’ex Re di Polonia.
[vi] Sbigoli suggerisce, op.
cit., p. 62, che si potesse trattare di Henry Fox, poi divenuto Lord
Holland, padre del famoso Charles James Fox, sebbene tale congettura debba
essere considerata per ciò che è fino a che non vi siano a disposizione
prove più sostanziali.
[viii] Sappiamo, per esempio
che Thomas Mathew, ultimo Gran Maestro degli “Antichi” faceva uso di
simili patenti irlandesi nel corso dei suoi viaggi giovanili nel Continente.
[x] Henry Seymour Conway, che
divenne poi feldmaresciallo dell’esercito inglese.
[xi] Si dice che l’Abate
Vanneschi sia stato membro della Loggia di Firenze.
[xii] La società dei
Dilettanti fu fondata nel 1734.
[xiii] Si disse che il Principe
di Galles fosse un ammiratore di Lady Middlesex.
[xiv] Vedasi John Doran, London
in Jacobite Times, Londra 1877. Vol. ii, p. 63 et. Sqq.
[xv] Non ho dubbi che brutali
esibizioni di tale sorta, specialmente se si considerava degna di lode
l’azione di provocare gli avversari in pubblico abbia poi portato alla
regola salutare che vieta ai frammassoni le discussioni di natura politica o
religiosa nelle loro Logge. Tale saggia regola, ancora strettamente
osservata in questo paese, ha preservato la nostra Fratellanza dal divenire
una di quelle società politiche segrete che soltanto portano confusione e
per le quali non vi dovrebbe essere necessità in uno stato libero.
[xvi]
Horace Walpole, History of George II,
1846, vol. i, p. 97.
[xvii] E ancora lo sono, per
fortuna della letteratura inglese.
[xviii]
Orrery Papers,
vol. ii, p. 181.
[xix] Vedasi Sbigoli, op. cit.
pp. 63-4. Il museo di Stosch a
Firenze venne descritto dal famoso Winkelmann:”Description des pierres
gravées du feu Baron de Stosch, dediée à son éminence monseigneur le
cardinal Alézandre Albani, par M. l’abbé Winckelmann, Bibliothécaire de
son éminence. A Florence MDCCLX. Chez André Bonducci.” Il libro
contiene una dedica al Cardinale di Filippo von Stosch, nato Muzell, nipote
ed erede del Barone Filippo il vecchio, con un ritratto di quest’ultimo in
forma d’un busto romano con su scritto: IMAGO PHILIPPI DE STOSCH. LIB.
BARONIS RERUM ANTIQUARUM STUDIOSI AB EDMUNDO BOUCHARDON GALLO E MARMORE
EXCULPTA. ROMAE MDCCXXVII.
[xx]
Lettres d’Italie
(Edit. Dijon 1927, vol. i, p. 213). Questo
stesso viaggiatore, scrivendo da Firenze nell’ottobre del 1739 così
riporta: “Ce Stock vient d’etre chassé de Rome comme espion du Prétendant;
il s’est réfugié ici, où l’on voulait lui faire le meme traitement,
si le roi d’Angleterre n’eut déclaré qu’il y maintiendrait par
toutes les voies imaginables, cela n’a pas servi à diminuer les soupcons
qu’on avait.”
[xxi] Jacques Hardouin
(1686-1766), storico e studioso. Tutore delle figlie di Re Luigi XV di
Francia.
[xxii] Una celebrità di
Firenze, del quale parleremo più avanti.“Stosch è veramente un uomo
perverso”, scrisse Cocchi nel suo Effemeridi,
alla data del 21 settembre 1739.
[xxiii]
Letters, Cunningham
edit., 1877, vol. i, p. 149.
[xxv]
Idem,
vol. ii, p. 17.
[xxvii] Si compari questa
affermazione con quanto riportato da Crudeli nel corso del suo processo, che
invece si fece vanto del fatto di non esser mai stato suo amico.
[xxix] I.e., spiare il
Pretendente.
[xxx]
Citato dal Doran in: Man and Manners
at the Court of Florence, vol. ii, p.6.
[xxxi] Questa sezione è
riportata quasi per intero dallo Sbigoli, p. 69 e segg. Egli ebbe
evidentemente accesso a molta documentazione dell’epoca per procurarsi i
nomi di molti stimati frammassoni italiani. Non avendo egli però palesato
tali fonti, ciò che dice dovrà essere accettato con riserva. Mi limiterò
ad una relazione generale sui membri di Loggia, seguita di biografie più
complete per uno o due tra i più famosi.
[xxxii] Questo giovane prelato,
figlio del Principe di Craon che più tardi divenne Reggente a Firenze sotto
il Granduca Francesco era famoso per i suoi vizi e per la propria
intelligenza. In ciò Walpole lo comparava con il Primate Stone di Armagh,
noto come la “Bellezza della Santità”, aggiungendo che l’Abate
ricercava il vizio per il piacere che ne traeva, mentre quest’ultimo ne
approfittava come sollievo al tedio della vita in Irlanda – un vero tocco
Oraziano! Il Primate di Lorena morì di vaiolo a Parigi nel 1742, e Walpole
ne parla quasi con affetto in una delle sue lettere, sebbene in altro luogo
egli ebbe a scrivere: “Ho udito l’altro giorno che il Primate di Lorena
è morto di Vaiolo. Sareste così gentile da portare le mie condoglianze?
Sebbene oserei dire che essi non ne saranno molto afflitti: si trattava
d’una creatura inutile i cui vizi non saranno certo loro di molto conforto
per le brutalità alle quali egli era prono.” (Walpole a Mann, 24 giugno
1742). Vedasi Doran, op. cit. vol. i. p. 75, ed anche Lettere
a Sir Horace Mann di Walpole.
[xxxiii] Il Principe de Craon
proveniva dalla nobile famiglia dei Beauvau di Angevin in Lorena. Suo padre
fu un fidato servitore del Duca Leopoldo, predecessore di Francesco. Il
giovane Beauvau sposò una delle favorite di Leopoldo e divenne tutore di
Francesco il quale lo fece Principe del Sacro Romano Impero. La Principessa,
ex favorita del Duca era di umili origini e divenne nota in Toscana come la
Vice-Regina. Il Principe sembra essere stato un brav’uomo, se l’onestà
si può desumere dall’essere spesso a corto di denari pur esercitando la
Reggenza di Firenze. Nel gennaio del 1743 per esempio, Mann scrisse di aver
prestato al Principe 200 zecchini per un bisogno urgente, e per ciò fare
ebbe a prendere a prestito la somma in questione da un amico inglese.
(Vedasi il Doran, Vol. i, p. 9.).Carlo di Brosses (op. cit. vol. i, p. 202.)
scrive della sua consorte: “La Principessa de Craon si occupa anche di
tenere un albergo, molto conveniente per i gentiluomini di passaggio. E’
una donna di buone maniere, e sebbene sia nonna da diversi anni, credo in
verità che potrei tranquillamente prendere il posto del Duca di Lorena. Suo
marito ha qui una buona reputazione, così come il marchese di Chatelet,
governatore della città. Essi non sono odiati dai nazionalisti così come i
loro compatrioti. Tale odio è diretto contro coloro che si occupano di
governo, nel quale gli italiani, a dispetto della loro nascita o posizione,
non hanno quasi parte.”
[xxxiv] Sbigoli, p. 73. Nelle
sue lettere Horace Mann fa spesso riferimento all’eccessivo amore per il
vino dimostrato da molti visitatori inglesi in occasione del loro soggiorno
a Firenze.
[xxxvii] Niccolini
Antonio: alcune lettere a Giovanni Bottari, edito da Girolamo Anati,
Bologna, 1867.
[xxxviii] Secondo lo Sbigoli
alcune delle sue vedute sulla religione erano così liberali da essere
sorprendenti in chi non solo era un membro del clero ma anche parente dello
stesso Papa.
[xl]
Idem,
vol. ii, p. 73.
[xli]
Idem,
vol. ii, p. 94.
[xlii] Vedasi i documenti
originali in appendice.
[xlv] Letters,
vol. i, p. 60.
[xlvi] Lettera del maggio 1741
a Mann, citata in Mann and Manners
del Doran, vol. i, p. 15.
[xlix]
Orrery Papers,
vol. i, p. 104.
[l] Vedasi:
Lettere di Walpole, vol. i, p. 191.
[li] Lettere,
vol. i, p. 71.
[lii] Citato da Doran, Mann
and Manners, vol. i, p. 32.
[liii] Cocchi era suo amico e
medico, ed annotò nel proprio diario d’aver ricevuto un prosciutto
casereccio del Casentino, dono del suo grato paziente.
[lv] Sembrerebbe quindi che lo
Sbigoli avesse avuto accesso a non meglio identificati documenti di
riferimento.
[lvi] i nomi originali
avrebbero potuto essere Denehy and Flood. E’ curioso ritrovare qui uomini
i quali, in Irlanda, ebbero a soffrire a causa delle leggi penali
amministrate proprio dal quel Lord Luogotenente il cui figlio presiedeva
sulla Società fiorentina.
[lvii] Nome familiare dato ai Chierici
della Madre di Dio, altro ordine che contendeva ai gesuiti
l’educazione dei giovani.
[lviii] Per questo e ciò che
segue vedasi Sbigoli, p. 58 e seg.
[lix] Non ho ancora avuto
l’opportunità di esaminare questo lavoro.
[lx] In Inghilterra, allora
come oggi, alcuni prominenti massoni ponevano attenzione ai problemi che
riguardavano l’ordine all’estero. Il 19 luglio 1737 il Duca di Richmond,
ex Gran maestro d’Inghilterra, scrivendo ad un altro duca, anch’egli
affiliato e non espressamente nominato, che potrebbe essere stato sia
Norfolk che Montague, vi aggiunse un interessante poscritto nei termini che
seguono: “Sarà capace nostro fratello il Granduca quietamente prendere
possesso dei suoi domini? Ho paura che il Papa non approverà di un
frammassone così vicino alla Santa Sede. Se ne dovesse scaturire alcuna
disputa, noi tutti della Fratellanza dobbiamo partecipare alla guerra
santa.” Si noti che ciò era scritto immediatamente dopo che Francesco di
Lorena successe al Granducato, mesi prima che Papa Clemente promulgasse la
bolla contro la frammassoneria. Questo importante documento potrà essere
trovato nel volume iii della Bradley Collection, in Biblioteca di Gran
Loggia.
[lxi] Vedasi, a tale proposito,
le sue note di tale incontro in appendice II.
[lxii] “Non conosco la
ragione per la quale Cantù e Findel (vol. i, p. 425) affermino che il Duca
ebbe ad emettere un editto contro ai frammassoni, quando invece sappiamo
dagli storici Settimanni, Galluzzi e Zobi che egli invece si rifiutò di far
intervenire il Braccio Secolare e dichiarò che non vi fosse nulla di male
in quest’istituzione.” Nota dello Sbigoli, p. 55. Degli scrittori
italiani da lui menzionati ho consultato lo Zobi solamente.
[lxiii] Firenze, 1850, vol. i,
p. 198.
[lxiv] Vedasi all’Appendice
II per una traduzione dei documenti originali.
[lxv] Così riferendosi al
Cavaliere di San Giorgio, o Vecchio Pretendente, secondo i gusti.
[lxvi] Vedasi la traduzione dei
documenti originali in Appendice II.
[lxvii] Essi furono i
responsabili della nuova legislazione la quale, nell’agosto 1737,
obbligava gli ecclesiastici a contribuire ad un prestito forzato per il
pagamento del debito nazionale, mentre nel gennaio del 1738 si proibiva il
Sant’Uffizio di armare i propri famigli con armi letali durante lo
svolgimento del loro compito.
Il
Senatore Giulio Rucellai fu professore di Legge Civile a Pisa dal 1727 al
1730, anno in cui fu nominato Vice Auditore-Segretario
nel governo, succedendo poi in quell’incarico nel 1733. Avvocato profondo
ed erudito, la sua cultura e fermezza di carattere ne fecero un
amministratore di successo. Rese un buon servizio allo stato contribuendo a
mantenere in ogni occasione la supremazia dello stesso verso i tentativi
delle autorità ecclesiastiche di intervenire in faccende secolari”. Zobi,
Storia della Toscana, vol. i, p.
274.
[lxix] Nato a Artonay nello
Champagne nel 1695 e morto a Vienna nel 1775.
[lxx] Appunto redatto in lingua
inglese nel diario, dal chiaro significato, anche se mal costruito.
[lxxi] Carlo di Brosses (Op.
Cit. vol. ii, p. 60) al quale fu concessa udienza con Clemente nel 1739
così racconta: “Sono ormai molti anni che egli non combina più nulla,
essendo divenuto cieco subito dopo la sua elezione a Papa (1730). Tutto
governa suo nipote Neri Corsini, un uomo ben al di sotto della media.” E
nuovamente 8p. 115): “Il Cardinal Corsini non ha reputazione se non quella
di bonhomme; sebbene tutti gli
affari di governo siano nelle sue mani, ciò non significa che egli ne abbia
la capacità richiesta; così che le faccende rimangono mal amministrate. La
considerazione della quale al momento gode, certo non permarrà oltre la
vita dello zio.” Clemente aveva allora 88 anni. Nel suo tratteggio del
Collegio Cardinalizio il nostro autore è ancora più severo col Corsini (p.
291): “Corsini, impiegato in tonsura, fiorentino, nipote del Papa attuale,
poco talento, ancor meno giudizio, nessuna capacità, corteggiato a causa
della sua posizione e del gran numero di nomine effettuate dallo zio nel
Collegio Cardinalizio. Il Conclave mostrerà di cosa sia in effetti egli
capace. Il governo è nelle sue deboli mani; egli ha ridotto le finanze in
stato deplorevole.”
[lxxii] Vedasi la lettera in
Appendice II.
[lxxiii] Egli fu poi eletto
Imperatore di Germania nell’ottobre del 1745. Non ho potuto ottenere prova
che possa aver mai rimesso piede in Toscana nel frattempo.
[lxxiv] Vedasi l’originale
della lettere in Appendice II.
[lxxv] Citata dallo Sbigoli, p.
179.
[lxxvi] Simili
fole sono state prese per l’assoluta verità anche da alcuni
storici massonici. Il Rebold falsamente scrive di come Gian Gastone
proibisse ogni attività massonica nel 1737, mentre dopo la sua morte i
frammassoni tornassero a riunirsi, dimodoché il Papa ebbe ad inviare
l’Inquisizione per arrestarli tutti a Livorno ed a Firenze, ma essi furono
alfine liberati da Francesco di Lorena. Anche il Findel prende degli abbagli
a questo riguardo: Secondo lui, il Crudeli fu arrestato nella propria casa,
mentre i suoi scritti furono messi in salvo da un massone di alto rango,
aggiungendo che altri membri della loggia furono imprigionati e torturati
per estorcere loro i segreti della frammassoneria. In questo caso
l’immaginazione del Findel ha fatto faville, seguendo l’odore
immaginario proprio del romanzo. Sebbene infatti l’Ambrogi fosse animato
da pregiudizio contro il Crudeli, e sebbene si possa affermare che il
trattamento inflitto a quest’ultimo potesse esser duro ed inumano, non vi
è prova alcuna che possa suggerire che questi abbia voluto infliggere la
tortura al prigioniero.
[lxxvii] Una simile reazione ai
dettami della Bolla da parte di un italiano non particolarmente devoto mi
sembra, in effetti, cosa importante.
[lxxviii] Mi dispiace non
essere, al momento, nella posizione di poter citare tali domande.
[lxxix] Per questa lettera
vedasi all’Appendice II.
[lxxx] Ferdinando (1663-1713)
era il figlio maggiore di Cosimo III. Sposò nel 1688 Violante Beatrice di
Baviera, non avendone figli. Quando Gian Gastone divenne Granduca nel 1723
sua cognata, la vedova Principessa Violante divenne la forza dominatrice a
corte. Amata da tutti, perfino Papa Benedetto XIII ne onorò le virtù
concedendole la Rosa d’Oro. Alla morte di lei nel 1731 Gian Gastone si
diede al vizio abbandonando ogni interesse alle sorti dello stato.
[lxxxi] In italiano nel testo
(n.d.t.).
[lxxxii] Fu questo stesso
Vescovo Archinto che, Nunzio a Dresda nel 1754, convertì Winckelmann alla
religione cattolica e lo condusse a Roma per quelle opere che lo avrebbero
reso famoso nel mondo.
[lxxxiii]
Charles de Brosses, op. cit., vol. ii, pp. 108-9.
[lxxxv] Charles de Brosses ha
sempre avuto una buona parola per Lambertini. Ecco come il Papa poteva
apparire ad un contemporaneo: “Conosco solo due Cardinali non affetti da
arroganza, Lambertini e Passionei … e raramente si ritrova un cardinale
colto, con l’eccezione di Quirini e Lambertini” (II, 64). Poi, nelle
note del Collegio Cardinalizio (II, 293): “Lambertini, bolognese,
Arcivescovo di Bologna, bonhomme,
accomodante, amichevole, non arrogante, cosa rara nella sua posizione;
esempio di virtù nel suo comportamento … particolarmente istruito in
Diritto Canonico; si dice abbia tendenze gianseniste; stimato ed amato
nell’opera sua, libero da ogni arroganza, cosa di molto eccezionale.”
[lxxxvii] Zobi, Storia
civile della Toscana, vol. I, p. 241.
[lxxxviii] Lord March
(1724-1810) divenne Duca di Queensberry nel 1778, il famoso “Old Q”
nell’originale Marchese di Steyne del Thackeray.
[lxxxix] Lettera di Mann a
Walpole, 14 febbraio 1747. Citata in Doran, Mann and Manners
, vol. i, p. 253.
[xc]
Edward Holdisworth (1688-1747) letterato.
[xci] John Monro (1715-91)
successe a suo padre come medico al Betlehem Hospital nel 1752.
[xcii] Il Generale Wachtendonck
comandava l’esercito dei Lorena a Livorno. Morì nell’agosto del 1741.
[xciii] Questo Diodati
appartenne probabilmente alla stessa famiglia di Giovanni Diodati di Lucca,
il quale nel 17° secolo fece una traduzione della Santa Bibbia ancora in
uso, divenendo noto per il suo cattivo italiano così come il Vescovo
Burnett per l’Inglese. Giudicando dalla lettera di cui sopra, parrebbe che
il diplomatico scrivesse considerevolmente meglio del prelato.
[xciv] Sebbene Diodati fosse un
diligente ascoltatore delle voci popolari, sarebbe sbagliato dare troppa
importanza a quei rapporti, sebbene possa apparire curioso, nell’ultima
sua frase, il suggerimento che nella città di Firenze i massoni possano
aver travalicato i limiti originali della loro società.
[xcv] Il documento è in lingua
francese e potrebbe essere una traduzione dell’originale italiano fatta da
uno dei Ministri di Francesco per il Re, che non conosceva bene la lingua.
[xcvi] A quel tempo gli Stuarts
in esilio erano protetti dal Vaticano.
[xcvii] Probabilmente Lord
Raymond aveva già lasciato Firenze, poiché il 3 maggio 1739 egli fu
istallato Gran maestro d’Inghilterra alla taverna di Braundshead, New Bond
Street.
[xcviii] Missiva vergata in
lingua francese.
[ci] Il Granduca Francesco.
[cii] Il Rucellai usa stavolta
il termine frimasson invece di Libero
Muratore come in ogni altra parte del documento. Penso che quel termine
debba essere preso in senso derogatorio, e che egli abbia voluto riportare
le parole esatte del Corsini.
[ciii] Lettera redatta in
lingua francese.
[civ] Credo che il significato
di questa oscura lettera sia quello di tenere Stosch sotto osservazione ed
espellerlo al primo fallo se possibile, sebbene l’astuto Barone non abbia
poi dato al governo alcuna chance.
[cv] Il latino rimane non
tradotto, l’inglese è tradotto in italiano.
[cvi] Non è chiaro il senso
della frase, né che implicazioni eretiche ciò possa avere.
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