Goethe soffre
Questo scritto, quarantaquattro
ottave composte tra il 1784 e il 1785, è la narrazione in toni epici di un
viaggio “intrapreso per alto comando” lungo “vie miracolose”, viaggio iniziatico di chi si affaccia sul
panorama della condizione umana. È un viaggio propedeutico all’estrema
condizione, carica di stupore[i]
e di orrore, infatti, là, in fondo al limite dell’orizzonte il viaggiatore sa
che c’è la morte.
La sviluppo narrativo è semplice: un
pio e mite Bruder Marcus, Fratel Marco, arriva in un posto sperduto tra le
montagne dove vive una comunità di tredici cavalieri. Al suo arrivo il
pellegrino Marcus viene a sapere che il capo della comunità, Humanus, sta
lasciando la comunità e il mite ed inesperto Fratel Marco è destinato a
prenderne l’eredità.
Tale viaggio mette a dura prova il
coraggio e lo spirito di Goethe che intuisce l’enormità del compito che si è
posto. Egli sa di non essere in grado di assolverlo eppure inizialmente è
entusiasta e di questo entusiasmo fa partecipi i suoi più intimi amici. Forse,
inconsapevolmente, comprende che è impresa troppo difficile da fare in
solitudine e tenta di coinvolgerli per avere non tanto il conforto la cui misura
non è mai sufficiente a compensare lo sconforto dell’ineludibile destino,
piuttosto, ciò che Goethe chiede sono ulteriori strumenti, che lui sente di non
possedere, quelli necessari per affrontare il viaggio con maggiore sicurezza “su
alcuni punti importanti del pensiero e del sentimento”.
Goethe padroneggia con eccelsa
maestria il verso e di questo ne fa lo strumento costruito appunto con la
ragione (pensiero) e la sensibilità (sentimento).
Sono questi i due tracciati sui quali Goethe sa di potersi muovere con
sicurezza e che caratterizzano il suo pensiero massonico. Ciò si riflette nella
scelta del verso a metrica chiusa, dando tutta l’importanza dovuta a tale
ciclopica impresa. Egli intona il suo verseggiare alle sonorità e ritmicità
epiche, disegnando lo scorrere dei versi con il passo lento e cadenzato del
pellegrino in luoghi misteriosi. Questo viaggio alla comprensione del senso
della morte ha una sua insita circolarità che Goethe esprime con la descrizione
della residenza dei tredici cavalieri che ivi dimorano; è residenza chiusa, in
una valletta circondata da montagne e foreste, inaccessibile. Il poeta mette a
disposizione del suo viaggio le “muse”
e “l’alto ingegno”, ma sa che questi non sono sufficienti. Manca
qualcosa che Goethe intuisce o forse sa ma non vuol riconoscere tra i suoi
strumenti. Questo qualcosa è il senso religioso dell’uomo, come confesserà
nella sua lettera a Boissereé nel 1831 e che riprenderemo in seguito.
Goethe, quando scrive i Segreti è un
trentacinquenne che percepisce di essere arrivato alla prima meta e d’ora
innanzi potrà solo girare e tornare indietro verso l’ultimo indesiderato
traguardo. Tuttavia, quest’ultima fase del viaggio è misterica, piena di
arcani che il poeta-massone non riesce a cogliere e giustificare. Questa è la
fase del percorso della sua vita in cui il viaggio non ha più le certezze del
percorso prevedibile, solo l’estremo traguardo è noto, ma conosciuto in sé
senza riuscire a scorgerne tutte le implicazioni di una rivelazione che viene a
mancare. Gli arcani misteri del viaggio lo definiscono come fine a se stesso,
viaggio viaggiato senza deciderne più il percorso e la meta, senza poterne
eludere gli ignoti ostacoli, senza poterne spiegare il perché.
Goethe aveva fatto molte pressioni
per accedere agli Alti Gradi della massoneria[ii],
presumibilmente anche per trovare le risposte al mistero della morte. La
connotazione di arcano del suo viaggio definisce lo stesso come viaggio
iniziatico di maestranza, connotata come impresa che giustifica se stessa.
Di conseguenza il viaggio mistico
alla scoperta della morte è il viaggio di perfezionamento che si esaurisce in sé,
secondo la più sincera tradizione esoterica e massonica; è il viaggio senza
meta, perché la vera meta è il viaggiare stesso; è la ricerca del
perfezionamento, secondo Goethe, rinunciando o riconoscendo l’inconcepibilità
del considerare la morte come esistenza alternativa alla vita.
È la morte il grande arcano nel
pensiero goethiano, dunque è essa l’oggetto di un’indagine che non può
seguire gli schemi della religione chiesastica; infatti, questa non indaga sulla
morte, né la spiega, ma può solo offrire un supporto alla sua accettazione,
stravolgendone il suo senso intimamente sconvolgente: il nulla dell’esistere.
Goethe, allora, ricerca altre vie:
l’esoterismo ermetico, il rosacrocianesimo e, alla fine, la ragione sensibile.
Quest’ultima è mirabilmente rappresentata nelle tredici figure dei cavalieri
nell’eremo, tutti cavalieri esperti della vita ”delle
ambasce patite, delle perdite e del premio” ed anche, con intima fusione,
nella freschezza dell’innocenza, al punto di destinare come capo della comunità
il pio ed umile Fratel Marco. Dunque, la ragione di Goethe è legata al senso di
realtà, è la pietas dello sprovveduto ma mistico Fratel Marco.
È forse quest’accolita di eletti
cavalieri il richiamo di quella elite di dotti che per Herder dovrebbe vigilare
sull’operato dei governati? O forse è la stessa Massoneria, che secondo
Lessing avrebbe dovuto raccogliere in sé i misteriosi valori universali che
sono a fondamento dello stesso sussistere dell’umanità? Difficile dirlo, le
idee di Lessing e di Herder avevano profondamente influenzato la cultura tedesca
della seconda metà del ‘700 e più
che mai lo stesso pensiero massonico settecentesco ed ottocentesco, ma Goethe
assorbe e rielabora con sublimazione alchemica gli stimoli culturali del suo
tempo[iii].
Goethe, in preda a queste
irrisolvibili questioni chiede aiuto ai suoi intimi amici, al vecchio amico
Herder e alla moglie di questo, a von Kuebel e all’amatissima Signora von
Stein. Proprio a von Kuebel, che stimava moltissimo e che era precettore del
regnante Carl August di Sachsen-Weimar, alla fine scrive l’accorata lettera
con la quale nel 1785 dichiara l’impossibilità di saper continuare l’opera
intrapresa: “… il progetto è troppo
enorme per la mia attuale situazione”.
Goethe è oggettivamente oberato di
impegni letterari, scientifici e politici, ma è evidente che la sua attuale situazione non è a questi impegni collegata, piuttosto lo
è alla sua situazione morale ormai allo stremo. Egli proprio in quegli anni
scopre Spinosa e dalla sua lettura scaturisce il passaggio dalla giovanile
ricerca dei misteri della Natura verso una sostanziale rielaborazione della
ragione. La nuova impostazione che Goethe dà dello studio della Natura ha lo
scopo di elaborare una teoria che si opponga alla visione newtoniana della
Natura[iv].
In quel biennio si riconcilia con Herder, con il quale legge “Le
idee per una filosofia della storia”, dello stesso Herder. Goethe ne è
entusiasta e la figura del vegliardo Humanus è debitrice delle concezioni
herderiane.
Qualcuno[v]
ha avanzato l’ipotesi che il poeta vivesse una profonda crisi per lo sconcerto
e la disillusione, nei confronti della Massoneria dovuto alle acerrime diatribe
tra questa e i rosacruciani tedeschi.
È innegabile che il suo sconforto di
puro massone s’intrecci con il risentimento dell’essere giunto alla mezza età
e che gli faccia dire: “L'uomo è così,
una febbre fredda (...), Passata la trentina, un uomo è come morto”.
Ma questa forma così umanamente
archetipica della morte, la vediamo meglio nel confronto tra Goethe e un altro
grande del pessimismo esistenziale, il Foscolo.
Foscolo è indubbiamente debitore di
Goethe. La comparazione tra "I dolori
del giovane Werther" e "Le
ultime lettere di Jacopo Ortis" fa risaltare lo stesso ritmico percorso
dello scontro tra amore e morte. Per altri versi la critica sociale esplode in
ambedue anche se confluisce in difformi alvei.
Werther e Ortis sono accomunati dalla
visione pessimistica della vita, distrutta nelle sue ambizioni dalla società
borghese. Il senso della Natura è in loro carico di disperazione:
Dice Goethe: “quel
sentimento della viva natura (…)mi si è mutato in carnefice intollerabile, in
spirito tormentatore che mi insegue per ogni dove; (...) non vedo altro che un
mostro il quale eternamente divora, eternamente rumina".
Risponde Foscolo come in una eco: “la natura siede qui solitaria e minacciosa, e caccia da questo suo regno
tutti i viventi; (...) la terra è
una foresta di belve”.
Ambedue i protagonisti sono travolti
dal senso meccanicistico e materialistico di una nuova visione della Natura che
si va generalizzando in un’Europa che si va imborghesendo. La Natura suscita
insieme senso del sublime e senso dell'orrore. All'inizio per Werther la Natura
gli fa dire: "come il mio caldo cuore
abbracciava ogni cosa, mi sentivo come inviato in quella dilagante pienezza, e
le splendide figure dell’infinito universo si muovevano vivificanti
nell’anima mia"., ma poi per lui e per Ortis la Natura diventa
desolazione ed orrore. Finisce il dialogo dolore-piacere, sconforto-ebbrezza e
la Natura svela all'uomo il suo aspetto catastrofico: "ciò
che mi stringe il cuore è la forza distruttrice riposta nell’essenza stessa
della natura; la quale non ha mai creato cosa alcuna che non sia destinata a
distruggere il prossimo, a distruggere se stessa", dice Werther.
Goethe come Foscolo vorrebbe
comprendere i misteri della Natura, ma, come dimostrò ne I
segreti, non ci riesce e la
ragione si dimostra capace solo di evidenziare il dolore dell'esistenza, senza
poter svelare i processi naturali, interpretandoli come mera insensatezza, a cui
Foscolo risponde: "noi tocchiamo con
mano tutte le nostre calamità ignorandone sempre il modo di ristorarle".
Appare lo spettro della morte e Goethe lamenta "scena della vita sterminata ecco mi si muta nell’abisso della tomba
eternamente spalancata" e Foscolo come eco: "che pace? Stanchezza, sapore di sepoltura".
Se in Goethe la visione drammatica e
materialistica della Natura è
ribellione a tale stessa concezione, in Foscolo è incapacità persino di
ribellione.
Molto diversa per i due è la visione
politica. Goethe si ribella ai pregiudizi di una società aristocratico-feudale,
senza riuscire ad apprezzare l’inetta borghesia tedesca, mentre Foscolo è
travolto dalla tragedia italiana del tradimento di Napoleone e delle illusioni
riposte nell'azione liberatrice dall’oppressione. Qui il nostro senso
massonico viene frustrato scoprendo che Foscolo si avvia
sulla strada del nazionalismo mentre Goethe si ferma prima: i due sono
distanziati da un’importante forma: Goethe è Massone e Foscolo no. Goethe
comunque istintivamente si ribella dicendo "Una
vita inutile è una morte anticipata" e lui non credeva la sua vita
inutile.
Per Goethe il binomio Amore-Morte
segna la fine dell’ottimismo dell’Aufklarung
[vi]e
nella morte si compie il momento dionisiaco della realizzazione della totalità
umana. Egli trova nella società la sintesi dell’opposizione dialettica
io-natura e fa una scelta di sudditanza politica al giovane Duca di Weimar,
scelta che lo angustierà al punto di non riuscire a completare alcun progetto
poetico in quegli anni, come testimonia la vicenda dell’interrotto poema I
Segreti.
Nella realtà viva e concreta Goethe
cerca un’altra via per la comprensione del tema della morte. Egli scrive
all’amico Merck il 22 gennaio 1776 “Io
sono ora partecipe di tutti gli affari della corte e dello stato e quasi non
potrò più andar via, la mia posizione è assai vantaggiosa ed i ducati di
Weimar e di Eisenach sempre una scena in cui provare come uno se la cava in un
ruolo di mondo”. Questo è un periodo si esaltazione che potremmo definire
come fase “up” di una crisi morale ed esistenziale grave. Ed infatti appena
l’esaltazione viene meno egli rinuncia a completare I
Segreti.
Il poemetto non è un’opera che si
possa definire strettamente massonica. Però degli aspetti più elevati del
pensiero massonico, è la dichiarazione. È la visione mistica del percorso
massonico: la dimora dei tredici monaci-cavalieri appare come una loggia ideale,
fatta di uomini, ma di uomini che in quella dimora hanno lasciato fuori i loro
metalli: le ambasce patite, le perdite ed il premio.
Sono uomini pienamente occupati nella loro ricerca spirituale e quindi “cavalieri”,
così come cavalieri erano gli Alti Gradi dell’Ordine massonico del quale
Goethe era membro. Nei sette gradi dell’Ordine di Stretta Osservanza gli
ultimi quattro erano i gradi del percorso sublime dell’elevazione spirituale,
della ricerca degli arcani della Natura, dell’esoterismo in chiave mistica.
Humanus, rappresenta lo stadio finale
del percorso, il Monaco-Cavaliere che può andare in giro per il mondo perché
il suo percorso è compiuto. Goethe inserisce in questa, che potremmo definire
allegoria del percorso massonico, i due estremi dei gradi massonici. Gli estremi
che si riuniscono nella stessa funzione di rappresentanti eletti dei confratelli:
Humanus e Fratel Marco, il primo quale Maestro Venerabile ed il secondo quale
Apprendista, rispettivamente la saggezza e l’innocenza. Mirabile sintesi
poetica goethaina di Ragione e Sentimento.
Goethe è giunto alla sua maturità;
le letture spinoziane lo hanno perfezionato ed ora tanto la Ragione quanto il
Sentimento trovano la giusta ricomposizione ed una loro nuova definizione nella
Ragione Sensibile. La Ragione non è più la Dea illuministica da guardare con
diffidenza ed il Sentimento non è più la passionalità delle emozioni
scatenate dello Sturm und Drang.
In questa loggia ideale goethe eleva
l’Apprendista a Maestro Venerabile, riconoscendo nella semplicità e nella
purezza le qualità dell’Uomo Illuminato. Gli altri dodici Cavalieri,
purificati dal loro percorso, non aspirano alla carica di capo del gruppo,
invece cercano la perfezione umana e la riconoscono in Fratel Marco.
Goethe, descrivendo questa loggia
ideale evidentemente pensa alle logge del suo tempo e ai membri di loggia che
lui conosceva; ma se fosse vissuto oggi non avrebbe cambiato di una virgola i
suoi versi, osservando l’infantile ambizione agli Alti Gradi, alla carica di
Venerabile di tanti massoni di forma.
Tutto il poemetto rimane
nell’empireo del misticismo massonico, non c’è una sola parola che possa
essere sentita come confronto con la realtà; è espressione di purezza e la
purezza non si confronta con la realtà.
I suoi versi dichiarano il suo
distacco dalla vita reale della massoneria, si pongono quasi come visione
classicheggiante, …quasi; infatti, l’opera è ricolma di aerea sensibilità
umana, al contrario di un classicismo cristallizzato nella purezza delle forme.
La tonalità epica dei versi vuol
indurre il lettore ad ignorare la realtà di una Massoneria di forma e,
superando un Lessing nella sua espressività migliore, non polemizza con tale
Massoneria, la ignora, mostrando qui la calma olimpica di chi esprime la
classicità di sostanza; egli dà quasi il messaggio ai Fratelli Massoni, che
come lui aspirano all’elevazione spirituale piuttosto che alle altisonanti
cariche massoniche, che possono pure continuare il loro percorso nella loggia,
perché, entrando nel Tempio ed avviando i Lavori, loro sono in una dimensione
superiore che li rende inalterabili alle lusinghe del potere, potendo guardare
con occhio limpido l’affannarsi di chi ama vestirsi di sgargianti grembiulini,
accumulandone uno sull’altro in una fantasmagoria circense ed infantile.
Si potrebbe dire di più, il Fratel
Marco, nella sua purezza d’Apprendista si stupisce ma non si fa attrarre dalla
visione dei fanciulli dalle belle vesti, che tengono tre fiaccole e che gioiosi
appaiono per scomparire nel nulla. Li vede andar via senza dispiacere,
rappresentando loro con le loro belle vesti (grembiuli sgargianti d’oro e
d’argento?), con l’aspetto fascinoso (smoking da cerimonia?), con le tre
fiaccole (le tre luci di loggia?). Ma ciò è visione che appare e scompare,
come fantasmatica presenza che attraversa la realtà vera della loggia ideale
senza contaminarla.
Al di là dei suoi problemi
quotidiani che tanto l’angustiavano, si può pensare che Goethe abbia
interrotto il suo poemetto perché altro non c’era da scrivere e descrivere.
Dicendo: “…
il progetto è troppo enorme per la mia attuale situazione” egli ammette,
sconfortato, che l’ideale è vinto dalla realtà. La loggia ideale era stata
rappresentata e con essa i suoi ideali membri. Insistere, proseguire a
verseggiare sarebbe stato solo un viaggio che sarebbe passato dal percorso
mistico alla fantasie oniriche fini a se stesse.
All’inizio s’è detto che I
Segreti è un viaggio nella condizione umana, ora si può aggiungere che
quella è la condizione umana che si sublima alchemicamente in una superiore e
diversa condizione, quella massonica. Il canto di Goethe è il canto del senso
mistico della pura umanità, quella che lui cercava dentro la loggia.
I critici letterari cercano in Goethe
l’uomo, il tedesco, il settecentesco e il poeta, ignorando il Goethe massone.
Ciò fa perdere una parte importante, forse fondamentale del sentire goethiano.
Egli è tanto poeta quanto massone e la riduzionistica visione del Goethe
spasimante della von Stein, quasi antesignano dei personaggi holywoodiani, o del
Goethe politico suo malgrado e che di ciò soffre, del Goethe oppresso da una
depressione psichica che neppure il viaggiare risolve, tutto ciò dà una
visione parziale se non miserevole del grande pensatore.
Certamente è vero che nei versi de I Segreti appare palese il sentire amoroso e sicuramente qualche
verso fu sollecitato dall’amore verso la von Stein, ma poi, come già
accennato, nella pubblicazione tali versi, nel 1789, ben quattro anni dopo
l’interruzione della loro stesura, furono emendati per lasciare integro il
profondo e straziante senso mistico; dunque, se di sentire amoroso si può
parlare, questo è verso l’umanità e verso la Massoneria ideale alla quale
lui tendeva appassionatamente.
Goethe canta.
Goethe inizia cantando “Mirabile
è il canto che vi attende, udite tutti e che nessuno manchi!”; a chi si
rivolge? Ai suoi lettori, che erano tanti, o piuttosto all’umanità intera e,
perché no, ai suoi Fratelli Massoni? Certamente quel “voi” ha valore
universale. Ma di quale universalità parliamo? Nel terzo verso l’Autore
rappresenta un cammino lungo e difficile, dove lo sguardo ora è libero ora è
negato: “Si snoda la via per monti e
valli; / qui la vista è preclusa, altrove s’apre / e se il sentiero si perde
tra le siepi / non pensate che di un error si tratti”. Sembra la
descrizione della vita umana, ma in tal caso che vuol dire quel “non
pensate che di un error si tratti”?
Se invece intendiamo il profondo
sentire massonico di Goethe, forse l’intendere dei versi è più facile.
Quella via è la via massonica, è l’oscillare tra ragione e sentimento che
ancora non trovano sintesi nel “segreto massonico”; è la visione massonica
di un percorso ora chiaro ora oscuro, ora rivelato ora da rivelare. È il
correre della Verità che quasi afferrata sfugge. Quelle siepi rappresentano i
misteri della Natura e perdersi in essi non è un errore. Questa interpretazione
viene confermata dai versi che avviano la seconda stanza: “Non
creda però alcuno di potere / il senso pieno posseder del canto”. Qui
l’umanità non c’entra più. Il canto è rivolto ad una elite, solo alcuni
possono intendere ciò che nei versi dell’Autore si cela. È allora questo un
canto iniziatico e non universalmente umano. La comprensione della Natura e del
Cosmo è fatta di apparenze e di misteri “e
vari fiori dà la madre terra”. C’è umanità ed umanità, quella del
profano che “se ne va uno con duro
cipiglio” e quella dell’iniziato, “un
altro rimane con lieto aspetto”. Ma tra gli iniziati, anche, ci sono
differenze: “ognuno godrà a suo talento”
e la Massoneria si pone come “la fonte
offre l’acqua a più viandanti” e ogni iniziato berrà a suo modo.
La metafora si apre a più
interpretazioni. La più semplice potrebbe essere quella di considerare come
ascoltatore l’intera umanità, ma come si inserisce la metafora in tale senso
universalistico col verso “ognuno godrà
a suo talento”? Sembra piuttosto che il verso ribadisca i concetti
espressi nei versi precedenti in cui si distinguono gli ascoltatori notando che
“molti” e non tutti avranno giovamento. Goethe, chiamando la terra
“madre” non fa gioco poetico, ma
all’età mitica fa appello, la terra divinizzata offre fiori da cogliere, che
ermeticamente non sono i prodotti naturali e spontanei, bensì sono i misteri
che potranno essere colti dagli iniziati.
Torniamo un momento indietro; ora si
può meglio comprendere che Goethe non si rivolge all’umanità intera ma ad
una sua parte di eletti quando descriveva il percorso che Fratel Marco sta
facendo. Infatti, Fratel Marco non rappresenta l’umanità, lui è il simbolo
della pura innocenza e l’umanità non può essere intesa come tale. Dunque
solo ad una parte di umanità Goethe canta.
Il percorso è difficile
da fare e da individuare. La vita può essere difficile da vivere, ma non
da individuare, perché la vita si snoda da sola, comunque lo faccia. Il
percorso allora non può essere che un percorso spirituale. Interrompiamoci un
istante per dire che Goethe passò la vita a dirimere il problema della
religiosità, senza mai riuscirci, pertanto, la via spirituale che Goethe
immagina non è quella religiosa e di conseguenza non rimane che quella
massonica.
Riprendiamo la metafora della fonte;
a che fonte a che acqua Goethe si riferisce? In prima istanza potrebbe riferirsi
ai propri versi, ma ciò renderebbe ben misera la spiritualità che
caratterizzerebbe il viaggio. Un’altra potrebbe essere sempre quella del
“viaggio” dell’uomo nella sua vita, il viaggio nella condizione umana. Ma
anche questo viaggio non garantirebbe il carattere di spiritualità, infatti,
non tutta l’umanità è interessata a ciò e poi darebbe quel senso di
universalità che è negato dalla discriminazione che Goethe pone scegliendo chi
ha “talento”. Torniamo
necessariamente al viaggio iniziatico, perché solo chi ha talento può essere
iniziato, in questa Loggia ideale che viene prefigurata dall’Autore. Il
viaggio assume dunque l’aspetto di viaggio privato, riservato a pochi, cioè
esoterico. Si potrebbe dire che Goethe guarda alla Massoneria come la fonte che
“offre l’acqua”, ovvero il
messaggio esoterico, a più viandanti, i massoni, che scalano il sentiero
scosceso e misterioso dell’elevazione spirituale verso quel monte che domina
il paesaggio della Natura incontaminata, astratta nella sua purezza. Ma anche
tra gli iniziati Goethe distingue tra chi possiede maggiore o minore capacità
di elevazione spirituale, infatti l’acqua disseta e ristora in diverso modo.
Goethe illumina
Compiuta la presentazione, Goethe
nella terza stanza presenta il protagonista, quel Fratel Marco di cui si è
prima parlato. È il personaggio centrale del canto, è un pellegrino,
affaticato “da una lunga marcia /
intrapresa per alto comando”. Chi è che comanda in modo supremo? Può
essere un ente superiore ma può essere anche lo stesso senso di personale
elevazione spirituale, come se questo senso attirasse chi lo possiede, come
forza intrinseca che si manifesta estrinsecamente. La marcia può essere il
cammino della vita in sé intesa od anche il cammino che porta all’iniziazione.
Fratel Marco lascia il sentiero per
cercare acqua, pane ed un tetto per riposare.
Perché lascia il sentiero? Quel
sentiero non è allora il percorso della vita, come ci si aspetterebbe, se può
essere lasciato continuando a vivere. Sono parole quasi inavvertite queste
inserite nel verso, ma Goethe sa quanto i misteri esoterici si svolgono per
impercettibili segnali. Il sentiero che viene lasciato è forse quello della
vita profana che un aspirante massone vuol lasciarsi dietro. Infatti, non si può
percorrere un nuovo sentiero se non si lascia il vecchio. Sembra la favola della
tazza piena di the che non può essere riempita di un nuovo the se prima non
viene svuotata. Ed infatti Fratel Marco si volge ad un’altra direzione lungo
un diverso sentiero, dominato da un monte. Ecco un altro simbolo presentatoci da
Goethe: questo è il monte da scalare, evitando le rocce che intralciano un
cammino altrimenti facile. Inutile spiegare il simbolismo universale del monte.
In seguito Goethe descriverà Fratel
Marco che indugia davanti alla porta della dimora dei tredici cavalieri, alla
pari di un bussante che attende davanti alla porta del Tempio di Loggia.
Avviandosi nel nuovo percorso, che
cosa si aspetta Fratel Marco se non ciò che è puramente essenziale alla vita?
Acqua, pane e un tetto per la notte La semplicità di queste aspettative
chiarisce subito il senso ascetico che pervade Fratel Marco, e Goethe ci
richiama alle aspettative ascetiche di chi si volge alla via massonica. Anche
nel rituale d’iniziazione il Maestro Venerabile chiede al candidato se può
donare del denaro. Il Candidato risponde che di ogni metallo è stato privato
fuori dalla porta del Tempio e che vorrebbe ma non può; dicendo così egli
ammette di essere rimasto con la sola sua essenzialità e di questa si
accontenta.
È il tramonto ed il nostro
pellegrino è circondato dalla natura, lui sa cosa cercare ma non sa dove
trovarlo, come un Apprendista che vuole ma non sa come trovare.
A qualcuno verrebbe da chiedersi
quanto c’è di Goethe, della sua condizione di uomo a metà della vita, in
quel tramonto. Ma questo sarebbe rendere parziale la visione mistica di quel
tramonto che cala sulla natura e sullo stanco pellegrino. Un monte gli si para
innanzi e segue un sentiero difficile, “segue
il sentiero che si piega / per salir aggirar deve le rocce;”, alla fine
della salita di nuovo splende il sole. Ma non stava tramontando quello stesso
sole? Non sarà forse un altro sole? Ben si sa che il sole è uno dei principali
simboli ermetici, così come le stelle che poi Fratel Marco ammirerà. È vicino
alla cima ed il suo cuore gioisce “il
compenso spera trovar della fatica”. La paziente attesa dell’Apprendista
è compensata dalla sua chiamata al rito dell’iniziazione, che, per prima cosa
lo pone davanti ad un luogo misterioso e simbolico.
Sente un suono di campane e giunto
alla cima gli si para una valle “dalle
dolci linee”. Corre negli ultimi raggi di sole “verso
il convento che tutto è luce”. Giunto alla porta “di quel luogo di pace / che al suo animo dona calma e speme” si
ferma e prega. Mentre il sole è calato e la campana è muta, “ristà
e si chiede che dire voglia il tutto”, come l’Apprendista nel Gabinetto
di Riflessione, egli aspetta e riflette, chiedendosi ciò che ogni Bussante si
chiede in quel momento da secoli.
Il percorso è forse finito, ma non
ne siamo certi, anzi. Qualcosa risveglia in lui la gioia. Sopra al protone vede
una croce, ad un primo momento la crede cristiana, ma guardando meglio essa non
appare come tale; infatti, essa è avvolta da una ghirlanda di rose. Chi può
aver fatto ciò? Dal centro della croce “sgorga
di vita santa / un triplice raggio che da un punto muove”. Il numero tre
che dall’uno procede con l’esoterica intransigenza del simbolismo ermetico.
Fratel Marco è sconcertato ma allo
stesso tempo si sente confortato.
La croce con le rose è il simbolo
dei Rosacroce e questo è evidente. Ciò vuol dire che quel “convento”
è qualcosa di diverso e forse di più di un semplice convento. Questo allora si
svela come luogo spirituale immerso in esoterica atmosfera Lì dentro si
racchiudono misteri che non appartengono ad una chiesa, ad una religione, come
in un primo momento Fratel Marco si aspettava, sono misteri fuori dal tempo e
dalle contingenze delle religioni.
Goethe interrompe le speranze di chi
vorrebbe intendere l’elevazione spirituale come sola elevazione religiosa.
Egli sconcerta e lascia senza immediata risposta. Ma è importante soffermarsi
sul fatto che Goethe apre la visione di una spiritualità che esiste senza
appartenere ad una religione. Non è una spiritualità laica, è spiritualità
esoterica pervasa di senso del sacro. L’Autore ci apre nuovi sentieri da
percorrere, nuovi monti da scalare, nuove valli da attraversare, insomma un
mondo diverso sul quale troneggia un simbolo che cristiano sembra, ma che è di
più, che è oltre l’umana religione.
Molti hanno definito Goethe come ateo;
forse, ma sicuramente un ateo saturo di senso del sacro. Questo infatti fu il
suo grande travaglio. Immedesimiamoci in un uomo della fine del XVIII secolo,
dove era pericoloso definirsi ateo, dove la chiesa cattolica o protestante
poteva colpire duramente i non credenti; ma non è questo che conta, Goethe per
quanto ribellistico fosse era comunque figlio della cultura cristiana, come
tutti gli occidentali della sua epoca. Egli, guardando l’Illuminismo vedeva
proporsi una visione atea e tra l’ateismo illuminista ed il cristianesimo
chiesastico cercava una terza via. Da qui il suo profondo travaglio dato da un
senso del sacro che lui ancora non poteva disgiungere dalla religione. La terza
via era solo l’esoterismo ermetico ed il percorso massonico e questa, infatti,
aveva scelto.
Goethe eleva
Finalmente, dopo essere rimasto “assorto”, Fratel Marco bussa alla porta del convento-Tempio. Le
stelle stanno su e “volgono su di lui
gli occhi luminosi”. Sembra veramente che Goethe descriva l’infinita
volta del Tempio massonico che copre con le sue stelle i Fratelli raccolti nei
loro Lavori. Le stelle sono simboli esoterici e come tali Goethe ce le mostra.
Aperta la porta, Fratel Marco viene
accolto lietamente “a braccia aperte e
con le mani tese”, fratello tra fratelli. Fratel Marco descrive il suo
viaggio e “come da lungi / mosso lo
abbiano gli ordini dall’alto”. I Fratelli che lo hanno fatto entrare
sappiano che non è un giramondo colui che ha bussato, ma persona che percorre
un viaggio iniziatico. “L’ascoltano
assorti”, in lui vedono non solo lo sconosciuto viandante da ospitare,
vedono anche “l’inviato” da
onorare. Le semplici parole di Fratel Marco incantano tutti, che gli fanno ressa
intorno. Ed ecco i versi di Goethe che dicono tutto su Fratel Marco:
“Ciò
ch’egli narra suona come verbo
di
sapienza sulle labbra di fanciullo:
la
franchezza e l’innocenza del suo aspetto
ne
fanno un uomo che d’altro mondo viene”
i Cavalieri-monaci riconoscono in lui
la sapienza, la franchezza e l’innocenza di chi viene dal mondo profano, ma
profano non è.
Un monaco esprime il dolore di tutti
e l’oppressione che si è appena sollevata alla vista di Fratel Marco. Essi
hanno perso qualcosa e sono pieni d’angustia e di paura e lo invitano a
dividere la loro “ambascia”.
Il convento che sembrava luogo ameno
di pace si svela per qualcosa di opposto. Essi gli svelano che il loro priore
“fra breve da noi vuol prendere congedo”. Capiamo che l’angustia
e la paura sono i sentimenti degli umili. Nessuno di loro si sente all’altezza
di diventare priore di quel convento. Essi sono spaventati anche dal fatto che
il priore che li vuol lasciare non vuole svelare né quando né come. È
certamente strana questa affermazione, il priore vuole lasciare i suoi compagni
ma senza dire quando e come. Forse egli aspetta qualcosa.
I Cavalieri hanno “capelli
grigi” e “requie ci impose la
natura stessa”. Il senso di morte affiora dalle loro parole. Il vegliardo
monaco descrive se stesso e gli altri Cavalieri come uomini d’esperienza di
vita “Poi che la vita di tutto ci rese
edotti”, uomini che hanno lasciato il mondo per riparare in quel convento
“lieti di trovare un ricetto sicuro”.
Sembra che Goethe ci descriva gli ideali Maestri Muratori, pieni di esperienza
di vita profana e che ora cercano altro, in una loggia ideale, sicura quindi.
Davanti al pellegrino franco e
innocente essi si chiedono e chiedono a Fratel Marco: ”Chi
è l’uomo? Perché dar la vita / non potrà per un essere migliore?”
Essi rivelano la loro segreta ambizione, manifestata nella scelta fatta e a cui
non vogliono rinunciare, l’estrema ed assoluta elevazione anche in termini
sacrificali; ma temono che con la partenza del loro maestro essi dovranno
sciogliere il loro santo gruppo. Domanda grande e grave: “Chi
è l’uomo?”. Ma non è una domanda filosofica o religiosa, essi si
chiedono, piuttosto se possono essere uomini senza donare la propria vita per
assurgere ad una superiore condizione. Qui appare l’umanissimo tremor
d’animo. Questo donare la vita assume le somiglianze di un atto sacrificale.
Non si può essere migliori se non immolando la propria vita.
Il loro maestro si è distaccato da
loro e non dice chi sarà il successore. Questo maestro ha lasciato pure
l’ultimo legame con la vita umana, il legame di una vita in comunione di
spiritualità con gli altri Cavalieri-monaci. Non dichiarando un successore
sembra egli che stia aspettando qualcosa o qualcuno. Poi, la descrizione del
loro capo si fa concitata, egli fu mirabilmente guidato dalla Provvidenza, e
ogni sua parola è stata conservata per essere divulgata ai posteri. Goethe ci
disegna una figura superiore, di elevata spiritualità. Lo fa descrivere alla
pari di un Ercole che da fanciullino seppe strozzare un serpente e salvare la
sorellina. Questa metafora ardita sembra che ci voglia far apparire il loro
maestro come un semidio che uccide il male. Il vegliardo monaco continua a
raccontare vicende prodigiose di cui fu partecipe il loro maestro, ma queste
sono vicende sapute da altri e non per bocca del maestro stesso, che così
mostra pure l’umiltà del suo animo.
Nella successiva stanza, la
ventitreesima, Goethe ci pone davanti ad una figura ideale. Ritroviamo il
rapporto tra Natura ed uomo che esplorerà in tante sue altre opere. L’uomo
favorito dalla Natura non può che compiere “gesta
egregie” e di ciò non c’è da stupirsi. Goethe immagina la figura del
massone ideale che compie gesta egregie perché riconciliato con la Natura,
avendola studiata e compresa come ricettacolo di misterici segreti. Ma
l’impresa più importante è quella di vincere se stesso. Come vincere se
stesso se non con il rapporto esoterico con la Natura? Così di lui, Humanus,
campione dell’umana essenza, Goethe può dire “È
lui, a sé appartiene”. Dicendo che l’uomo superiore è colui che solo a
se stesso appartiene, Goethe ci parla del “libero muratore”. Infatti, per
essere iniziato un uomo deve essere innanzitutto libero. Il significato di
“libero” è presto chiarito “Dal
poter che ogni cosa tiene avvinta / l’uomo si affranca che supera se stesso”.
È il senso del potere che corrompe quello dal quale ci si deve liberare. Nella
Loggia ideale si apprende a rigettare il potere e Goethe ben sapeva quanta
smania di potere sussistesse nelle Logge e nelle Gran Logge, e questo anche noi
oggi sappiamo e compiangiamo.
L’uomo eletto, potremmo ora dire
l’illuminato, riconosce la superiorità e l’autorità di chi gli è
superiore, come i Maestri al Loro Venerabile; la sua, prima che scelta, è umile
bisogno alla pari del “povero orfanello”
che si assoggetta per denaro.
Segue la descrizione degli umili
compiti a cui il priore da giovane si assoggettò, compiti in cui poneva
semplicità, sollecitudine, umiltà, solidarietà. Sembra che Goethe ci stia
dando i valori che dovrebbero guidare le azioni di un Massone, nella vita civile
prima ancora che in quella iniziatica; ed infatti il priore si comportò in tal
modo ben prima di lasciare il mondo profano. Il padre di quel giovane che
diventerà poi priore, lo sottopone ad infinite e dure prove e a tutte egli si
assoggetta. Il percorso dell’Apprendista viene descritto con dovizia di
metafore, ma alla fine egli ottiene il premio e viene fatto Cavaliere, con tanto
di destriero e di spada. Egli ha saputo superare tutte le prove anche se al
cavalierato avrebbe dovuto accedere per diritto di nascita. Pure nelle Logge
possono esserci personaggi importanti, che per censo o condizione potrebbero
accedere ai gradi superiori, ma Goethe ci avverte, anche loro devono superare le
prove. Se egli si sofferma così tanto è perché nella realtà delle logge non
ideali ciò non accadeva e non accade ancor oggi.
Tutti si apprestano alla cena e alla
fine Fratel Marco chiede “una conca di
fresca acqua piena”. Che cosa significa questa richiesta? L’acqua è uno
degli elementi primordiali per l’alchimista, ma prima ancora l’acqua è il
medium, l’assoluto catalizzatore che trasmuta la materia inerte in vita. C’è
di strano che la richiesta avvenga a fine della cena. Perché ora e non prima,
quasi che il desinare rispecchi le umili quanto indispensabili necessità della
vita terrena e l’acqua da questa terrena condizione possa purificare.
Poi, viene condotto in una vasta sala
e il Poeta-massone la descriverà “punto
per punto”. Non c’è segretezza che veli l’accesso alla stanza. Goethe
ci vuol dire forse che l’accesso al Tempio non è velato di segreti. E sala
senza orpelli, essenziale nell’innalzarsi di una “ardita
crociera”, appare come un coro con i suoi tredici scanni e leggii. Che sia
un Tempio è dimostrato dal fatto che “Ci
si sentiva incuorati alla preghiera / alla pace e ad un vero sodalizio”.
È l’esatta descrizione del Tempio massonico, luogo sacro, di pace tra
Fratelli e di fratellanza vera. La concezione araldica dell’Ordine di Stretta
Osservanza appare dalla presenza di tredici scudi sopra gli scranni; infatti, in
quel Ordine, ai tempi di Goethe, dal quarto al settimo grado si era cavalieri.
Fratel Marco è preso dalla brama di conoscere il significato della presenza di
quegli scudi e dei simboli che vi sono disegnati sopra. Ciò che lo colpisce è
ritrovare quel simbolo di croce inghirlandata di rose che aveva visto sopra il
portone del convento. Ancora un simbolo di sublime trascendenza, che religiosa
non è. Ma non ci sono solo gli scudi; agli occhi del mite pellegrino appaiono
molti e diversi strumenti di guerra. Goethe accomuna simboli araldici a simboli
di cavalierato militante. Guerra a cosa, a chi, se non ai lati oscuri del mondo
profano? L’alternarsi di scudi e armi appare come l’alternarsi di riquadri
bianchi e neri del tappeto di loggia; il mondo profano che manifesta le sue luci
ed ombre.
I cavalieri-monaci s’appressano
agli scranni, pregano silenziosamente e “il
labbro proferisce brevi canti / di cui si nutre l’intima lor gioia”.
Poi, i frati si ritirano per il riposo e Fratel Marco rimane con pochi a
contemplare la sala. Tanti simboli gli appaiono e viene informato che sarebbe
bene restare per conoscere le gesta degli eroi. “Quel
che è ascoso e non puoi indovinare: / mostrato ti sarà in confidenza”.
Appare il “segreto” e come quello massonico è costituito di cose oscure e
non subito comprensibili, ma di tutto ciò verrà informato nel vincolo del
giuramento del silenzio. A Fratel Marco viene detto da un
frate-cavaliere che può prepararsi a conoscere tali segreti perché “di
penetrar nel recesso mi sembri degno”. La porta del convento che gli è
stata aperta è solo il primo passo, ora può accedere ad uno di grado superiore.
A Fratel Marco è concesso il passaggio al superiore livello di conoscenza,
concessione seguente alla verifica in lui dell’elevazione spirituale
conquistata, anche se lui non ne è cosciente.
Fratel Marco fa un breve riposo “in muta cella”, luogo di superiore condizione del silenzio mistico
dell’apprendista, per destarsi “ad un
suon di squilla” e con un balzo si appresta alla preghiera. Allo stesso
modo dei Fratelli che attendono, con concentrazione sacrale, ai Lavori di Loggia
al colpo del maglietto. È ansioso ed entusiasta ma le “preci”
donano al suo animo calma e dolcezza. L’entusiasmo, emozione umana, si
ricompone nella condizione del superiore stato di spiritualità.
Dalla porta accostata sente che “tre volte un cavo bronzo risuona”. La percussione, ancestrale
fattore primigenio della comunicazione umana si trasmuta[vii],
con facile riconoscimento nei tre colpi di maglietto che risuonano nelle Logge
all’apertura dei lavori nei vari gradi. Infatti non sono colpi d’orologio o
di tromba, simboli d’un mondo profano; lì Fratel Marco è fuori dal tempo e
dagli spazi civili e Goethe con straordinaria intuizione lascia al bronzo, al
suono metaforico di un tamburo primigeno, forma primaria che determina
l’essere umano come tale.
Ma egli sente anche una musica nuova
che rallegra il cuore e pur nella “grave
cadenza del canto” il cuore gioisce facendo venir voglia di danzare. Tale
musica lo intriga e turba. Dalla finestra egli vede appressarsi l’alba tra la
foschia. Nella luce che si leva impercettibile appaiono improvvisamente “tre giovani con una fiaccola nella mano che attraversano di corsa il
loggiato”, tre luci nel loggiato, come le luci del Maestro Venerabile e
dei due Sorveglianti nella loggia. L’aspetto è di piacevole eleganza e un
cinto di rose intreccia la loro vita. Le rose ritornano per la “terza” volta.
Appaiono i tre giovani tornare da una festa, dopo essersi ristorati “da una lieta fatica”. Forse, sono finiti i Lavori di Loggia e le
tre figure spengono le luci, come alla chiusura dei Lavori massonici su comando
del Venerabile. “Sono già lontano”.
Come già espresso altrove, “la morte assurge a valenza mitica, decretando la propria immanente
irriducibilità e, paradossalmente, la propria esistenziale esemplarità del più
terso contrasto tra natura e cultura. Se la cultura è necessariamente e
indissolubilmente legata all’uomo, dall’atto umano del sacrificio la natura
si esprime come estremo simbolo della morte senza la quale non ci sarebbe vita”[viii].
Il poema s’interrompe…
NOTE
[i] “perché
si deve morire?” scrive Goethe in una sua lettera.
[ii] Gli Alti Gradi della
Stretta Osservanza sono quelli superiori al terzo. In tutto essi sono sette:
Apprendista, Compagno, Maestro, Maestro scozzese, Novizio, Templare, Cavaliere.
È un’organizzazione massonica con forti richiami e simbologie al
Templarismo esoterico. È in questa fascia degli Alti Gradi, dal terzo al
settimo, che sarebbero riposti i segreti esoterici più nascosti.
[iii]
Si rimanda a quanto in merito scritto nell’ ”Introduzione a Goethe Massone e poeta”.
[iv] Goethe protesta con Newton
che considerava la luce fatta di 7 colori e quindi impura, mentre lui la
credeva la perfezione.
[v]
Zimmermann nel suo “La visione del
mondo del giovane Goethe”.
[vi]
Termine corrispondente a Illuminismo, ma nell’accezione di “rischiaramento
delle menti”.
[vii] R. Needham: “Caratteri
primordiali”, p. 20. Ed Medusa, 2003.
[viii] Nel mio ”Introduzione
a Goethe Massone e Poeta” .
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