Superfluo dire ciò che apparentemente la poesia descrive
nella sua lettura immediata: il poeta passa con il treno attraverso i luoghi
della sua infanzia e fanciullezza (1835-49, dai 4 ai 14 anni circa) e la vista
del paesaggio suscita in lui ricordi e sensazioni le più disparate che sembrano
avere in sottofondo un profondo senso di rimpianto. Questa a grandi linee è la
spiegazione che danno, ai nostri alunni della scuola media o superiore,
insegnanti sprovveduti o talvolta faziosi.
Una spiegazione semplice ai limiti della superficialità
perché, nel primo caso, probabilmente pochi di essi sanno che Carducci era
massone, convinto e praticante; nel secondo caso, lo sanno, ma torna loro più
comodo far finta di ignorarlo. Ma anche se qualcuno dei nostri insegnanti ci
avesse allora, ai tempi del liceo, informato sull’appartenenza del poeta alla
famiglia massonica, ritengo che questo ragguaglio semplicemente biografico
avrebbe di poco o nulla cambiato la nostra interpretazione della poesia in
oggetto.
Non sono di quelli che vogliono scoprire connessioni
massoniche anche nella struttura chimico-fisico-alchimistica della pastasciutta
al ragù, ma sono indotto a credere che ogni vero artista, degno di questo
titolo, sia spontaneamente portato a trasfondere nella sua opera la parte più
intima della propria personalità; nel caso di un Massone, questo avviene
raramente in forma palese, ma più spesso il fenomeno si presenta in modo così
latente che l’artista sembra quasi rivolgersi ad un gruppo ristretto di amici,
ad un pubblico di iniziati ai suoi stessi “misteri”, le sole persone cioè
capaci di cogliere completamente l’essenza e la simbologia contenute nella sua
opera, di percepirne il messaggio più recondito.
In poche parole, io sono capace di riconoscere l’Ordine, il
Segno, il Toccamento e la Parola del massone perché sono tale; se fosse
altrimenti, non solo non saprei riconoscerli ma, nel caso che la mia attenzione
si ponesse su di essi, potrei dare di questi comportamenti solamente una
descrizione e non certo un’interpretazione.
Sul Carducci massone già tanto è stato detto, sulla sua
vita all’interno dell’istituzione molto è stato scritto; del suo spirito
ribelle e libero, del suo pensiero laico e razionale, è intrisa ogni sua opera;
ne sia un esempio l’”Inno a Satana” in cui il poeta celebra lo sviluppo
della scienza e della tecnica, rappresentato dalla locomotiva vista come un
novello Satana, in contrapposizione all’oscurantismo clericale che nega il
progresso non solo scientifico ma anche delle idee, vedi Savonarola, Lutero,
Giordano Bruno. Che cosa c’è dunque nella poesia “Davanti San Guido” che
possa rifarsi alla simbologia massonica? O meglio, dove e come lo spirito
massonico del Fratello Carducci si è trasfuso nella poesia?
Innanzi tutto il poeta sta compiendo un “viaggio” e tutta l’opera
è un’alternanza di visioni e sensazioni ora della vita reale ora di una vita
surreale o, meglio, ideale alla quale i cipressi richiamano lo scrittore: ed è
in questo dualismo che si sviluppa l’opera: da una parte i cipressi invitano
il poeta a tralasciare la vita profana, con tutte le sue passioni, le sue
preoccupazioni, i suoi vincoli, e dall’altra l’uomo che nel profano e nelle
sue manifestazioni crede di realizzare sé stesso.
All’invito a fermarsi dei
cipressi il poeta risponde “…e so legger di greco e di latino… e ho
molte altre virtù… non fo per dire ma oggi sono una celebrità…”.
Convinto di questa sua certezza, pensa di aver convinto anche loro ma le piante
a lui ribattono “Sì, sì lo sappiamo che sei un pover’uomo…”:
roba da gelare il sangue nelle vene!
E qui inizia una serie infinita di allettanti inviti a
rimanere, a fermarsi lì tra le colonne,… tra quel duplice filare, dove tante
cose ha ancora da imparare, tante cose di cui arricchire il suo spirito. “Dimani
a mezzo il giorno”, l’ora in cui gli apprendisti liberi muratori sono
soliti aprire i loro lavori, “ti canteremo noi cipressi i cori che vanno
eterni tra la terra e il cielo”, lavoreremo insieme alla G.D.G.A.D.U.
I
cipressi, i fedeli amici, ma perché no, i “Fratelli Cipressi”, ai
quali non tirerebbe più neanche un sassolino per gioco, gli promettono non le
solite cose che allettano ed adescano l’uomo profano, bensì si impegnano ad
elevarlo verso una realtà superiore che sfugge all’uomo comune intento a
seguire falsi segnali simili a fuochi fatui: un invito a ritrovare in sé stesso
quel giusto equilibrio tra sentimento e ragione proprio dell’uomo libero e di
sani costumi: “… il dissidio, o mortal, delle tue cure nella diva armonia
sommergerà”, “tutto in questo tempio dovrà essere serietà, senno,
benefizio e giubilo”.
Il poeta sembra non voler recepire il messaggio dei cipressi portando
come scusa la “Tittì” che lo aspetta con ansia perché ha bisogno di lui:
considerando il fatto che il vero nome della figlia minore del Carducci era
Libertà e alla luce della battuta anti-manzoniana due versi più sotto, ci sta
che anche in questo caso il poeta abbia voluto lanciare una delle sue sassate
contro una certa parte politica che oggi definiremmo radical cattolico scic.
Ho
accostato, sopra, i due filari di cipressi alle colonne, agli scranni,
dove siedono i Fratelli nel Tempio; a questo voglio aggiungere che i cipressi
vanno da San Guido verso Bolgheri in direzione oriente: ed ecco proprio da
Oriente discendere la visione della nonna Lucia, la luce: “come il sole
apparendo ad oriente… illumina la terra, così il M.V. sedendo all’oriente,
istruisce i Fratelli col lume della propria scienza muratoria”.
Nelle tre strofe che introducono la nonna Lucia appaiono
riferimenti all’apertura rituale dei lavori: la parlata toscaneggiante della
nonna è piena di forza e di bellezza ed è rivolta al saggio:
Forza – Bellezza – Sapienza; ed anche le parole con cui il poeta ricorda la
novella narrata un tempo dalla nonna sembrano l’incedere di un rituale,
ripetitivo e monotono per il profano, ma vivo e sempre nuovo per l’iniziato,
“sette paia di scarpe… sette verghe di ferro… sette fiasche… sette
anni…”: il rituale si ripete ma la novella è ancora di nuovo bella, di
nuovo vera.
“E quello che cercai mattina e sera, tanti e tanti anni in vano, è
forse qui…” E’ qui tra questi due filari che noi chiamiamo colonne,
tra questi cipressi che noi chiamiamo Fratelli, in questo “dolce piano”
che noi chiamiamo Tempio che possiamo anche noi ritrovare ciò che abbiamo
cercato per tanto tempo, cioè noi stessi.
Per concludere voglio rivolgere un pensiero a quell’ “asin bigio”;
l’ho visto, l’ho conosciuto, è dovunque: sta lì all’angolo di ogni
strada, non ti degna di uno sguardo mentre è intento a rosicchiare il suo
cardo: è insensibile a tutto ciò che lo circonda, non si scomoda neanche gli
crollasse il mondo addosso. E’ un asin bigio di pura razza bigio asinina,
convinto di realizzarsi sgranocchiando un cardo rosso e turchino. Bisogna però
capirlo: aveva un cugino, il quale un giorno, per spaventare gli altri animali o
semplicemente per primeggiare su di essi, volle mettersi indosso una pelle di
leone … ma finì sbranato.
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Davanti
San Guido
I
cipressi che a Bólgheri alti e schietti
Van
da San Guido in duplice filar,
Quasi
in corsa giganti giovinetti
Mi
balzarono incontro e mi guardâr.
Mi
riconobbero, e - Ben torni omai -
Bisbigliaron
vèr me co 'l capo chino -
Perché
non scendi? perché non ristai?
Fresca
è la sera e a te noto il cammino.
Oh
sièditi a le nostre ombre odorate
Ove
soffia dal mare il maestrale:
Ira
non ti serbiam de le sassate
Tue
d'una volta: oh, non facean già male!
Nidi
portiamo ancor di rusignoli:
Deh
perché fuggi rapido così
Le
passere la sera intreccian voli
A
noi d'intorno ancora. Oh resta qui!
Bei
cipressetti, cipressetti miei,
Fedeli
amici d'un tempo migliore,
Oh
di che cuor con voi mi resterei -
Guardando
io rispondeva - oh di che cuore!
Ma,
cipressetti miei, lasciatem'ire:
Or
non è più quel tempo e quell'età.
Se
voi sapeste!... via, non fo per dire,
Ma
oggi sono una celebrità.
E so
legger di greco e di latino,
E
scrivo e scrivo, e ho molte altre virtù;
Non
son più, cipressetti, un birichino,
E
sassi in specie non ne tiro più.
E
massime a le piante. - Un mormorio
Pe'
dubitanti vertici ondeggiò,
E il
dì cadente con un ghigno pio
Tra
i verdi cupi roseo brillò.
Intesi
allora che i cipressi e il sole
Una
gentil pietade avean di me,
E
presto il mormorio si fe' parole:
Ben
lo sappiamo: un pover uomo tu se'.
Ben
lo sappiamo, e il vento ce lo disse
Che
rapisce de gli uomini i sospir,
Come
dentro al tuo petto eterne risse
Ardon
che tu né sai né puoi lenir.
A le
querce ed a noi qui puoi contare
L'umana
tua tristezza e il vostro duol;
Vedi
come pacato e azzurro è il mare,
Come
ridente a lui discende il sol!
E
come questo occaso è pien di voli,
Com'è
allegro de' passeri il garrire!
A
notte canteranno i rusignoli:
Rimanti,
e i rei fantasmi oh non seguire;
I
rei fantasmi che da' fondi neri
De i
cuor vostri battuti dal pensier
Guizzan
come da i vostri cimiteri
Putride
fiamme innanzi al passegger.
Rimanti;
e noi, dimani, a mezzo il giorno,
Che
de le grandi querce a l'ombra stan
Ammusando
i cavalli e intorno intorno
Tutto
è silenzio ne l'ardente pian,
Ti
canteremo noi cipressi i cori
Che
vanno eterni fra la terra e il cielo:
Da
quegli olmi le ninfe usciran fuori
Te
ventilando co 'l lor bianco velo;
E
Pan l'eterno che su l'erme alture
A
quell'ora e ne i pian solingo va
Il
dissidio, o mortal, de le tue cure
Ne
la diva armonia sommergerà.
Ed
io - Lontano, oltre Appennin, m'aspetta
La
Tittì - rispondea -; lasciatem'ire.
È
la Tittì come una passeretta,
Ma
non ha penne per il suo vestire.
E
mangia altro che bacche di cipresso;
Né
io sono per anche un manzoniano
Che
tiri quattro paghe per il lesso.
Addio,
cipressi! addio, dolce mio piano!
Che
vuoi che diciam dunque al cimitero
Dove
la nonna tua sepolta sta? -
E
fuggìano, e pareano un corteo nero
Che
brontolando in fretta in fretta va.
Di
cima al poggio allor, dal cimitero,
Giù
de' cipressi per la verde via,
Alta,
solenne, vestita di nero
Parvemi
riveder nonna Lucia:
La
signora Lucia, da la cui bocca,
Tra
l'ondeggiar de i candidi capelli,
La
favella toscana, ch'è sì sciocca
Nel
manzonismo de gli stenterelli,
Canora
discendea, co 'l mesto accento
De
la Versilia che nel cuor mi sta,
Come
da un sirventese del trecento,
Piena
di forza e di soavità.
O
nonna, o nonna! deh com'era bella
Quand'ero
bimbo! ditemela ancor,
Ditela
a quest'uom savio la novella
Di
lei che cerca il suo perduto amor!
Sette
paia di scarpe ho consumate
Di
tutto ferro per te ritrovare:
Sette
verghe di ferro ho logorate
Per
appoggiarmi nel fatale andare:
Sette
fiasche di lacrime ho colmate,
Sette
lunghi anni, di lacrime amare:
Tu
dormi a le mie grida disperate,
E il
gallo canta, e non ti vuoi svegliare.
Deh
come bella, o nonna, e come vera
È
la novella ancor! Proprio così.
E
quello che cercai mattina e sera
Tanti
e tanti anni in vano, è forse qui,
Sotto
questi cipressi, ove non spero,
Ove
non penso di posarmi più:
Forse,
nonna, è nel vostro cimitero
Tra
quegli altri cipressi ermo là su.
Ansimando
fuggìa la vaporiera
Mentr'io
così piangeva entro il mio cuore;
E di
polledri una leggiadra schiera
Annitrendo
correa lieta al rumore.
Ma
un asin bigio, rosicchiando un cardo
Rosso
e turchino, non si scomodò:
Tutto
quel chiasso ei non degnò d'un guardo
E a
brucar serio e lento seguitò.
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