Nella lingua greca c’è
una parola che esprime ciò che è straordinario e desta meraviglia; questa
parola è Atopon( Atopon ). Prima
di vedere più da vicino il perché il suo significato sia, per vie di non
immediata intuizione, connesso con lo spazio e le sue peculiarità, è opportuno
prenderne in considerazione la struttura specifica: intanto è evidente come
tale parola sia composta da due precisi morfemi; il prefisso a- con
funzione privativa ed il tema -tópos, il quale è un luogo, un posto ma
nell’accezione più ampia è, appunto, lo spazio. L’analisi radicale di
-tóp [-os],ci
fa intravedere la sua prossimità al lat. stupeo (s-tup-eo), e lo stupor
è ciò che ci colpisce da cfr. al ted. stumpf (s-tumph),smussato,
troncato, spuntato ovvero un qualcosa risultato dall’azione del colpire e, di
conseguenza, è evidente l’affinità col gr. túptō, colpire,
m’anche con lo strumento túmpánon, timpano, tamburo, nel quale s’è
infisso un -m- eufonico ma, su quest’aspetto acustico del problema, ci
sarà modo di tornare più avanti. Le conferme linguistiche di queste,
apparentemente, strane relazioni tra i concetti d’estensione e di percussione,
si spingono ancora più avanti: in ambito indoeuropeo, c’è l’esplicito skr.
tup, tuph, to hurtmentre
gli stessi componenti radicali si ritrovano, di nuovo proposti nella loro
accezione spaziale, anche in un contesto semitico: accad. ţuppu,
tavola, ţap’um, disteso, reso ampio, il vb. ebr. ţāphach,
to extend, spread ma anche – lato
sensu - l’ar. ţapha´, be
full, abound.
Qui giunti, è necessario
avere presente che lo spazio è il luogo dell’úlē,di
quella substantia, che è il supporto di tutti i mondi e di tutti gli
stati costitutivi della manifestazione universale. In termini aristotelici, esso
è <<il limite immobile che abbraccia un corpo>>;nel
nostro caso, il corpo è l’intera manifestazione e pertanto lo spazio, inteso
al più alto livello d’universalizzazione, è l’insieme di tutte le
estensioni particolari. Una di queste è quella propria alla modalità corporea
e, ad essa, attualmente, apparteniamo: una sua forma di astrazione è ciò che
viene preso in considerazione dalla geometria euclidea, il cui oggetto è quindi
una fattispecie dell’estensione tridimensionale.
Sul
piano microcosmico, un processo analogo è quello dell’iniziazione; in tale
fattispecie, il fiat lux della cosmogenesi, ha il suo omologo nella
trasmissione del quidcostitutivo
dell’influenza spirituale: esso verrà allora ad essere l’ordinatore
dell’oscuro caos psichico, caratteristico della condizione interiore d’ogni
profano.
È per tutte queste
ragioni che, anche sul piano della lingua, lo spazio è connesso al colpire ed
alla vibrazione acustica.
A questo punto, si può
ritornare a quell’átopon da
cui è iniziata quest’indagine. Átopía, in greco, sta dunque ad
indicare stranezza, eccentricità, stravaganza ed assurdità; quindi, átopon
è qualcosa di singolare, di straordinario e d’incredibile; in altri termini,
la parola connota ciò che è fuori posto. Sino ad ora s’è visto, come, ai
significati ordinari - quelli recepiti dal linguaggio comune - altri e più
pregnanti appaiono a chi indaghi dietro il proscenio: la straordinarietà
scaturisce dunque dal venir meno del contenitore del Cosmo che, per la sua
consustanzialità alla materia prima, implica, al verificarsi, il rientro
dell’intera manifestazione nello stato indifferenziato; parimenti, in un
ordine interno al Manifestato, tale è la sorte, all’esaurirsi di un ciclo
particolare, d’ogni stato o grado dell’esistenza, il quale verrà così ad
essere riassorbito in quello che è, ad esso, ontologicamente superiore.
Nel particolare del
terrestre mondo corporeo, lo spazio, unitamente al tempo, alla materia, alla
forma ed alla vita è uno dei fondamentali parametri costitutivi di questa
modalità d’esistenza. Con evidenza, il suo annullamento provoca straordinarie
conseguenze, tant’è che, storicamente – anche sul piano sociale quindi - le
rappresentazioni d’ordine utopicose
non sono confinate in un ambito esclusivamente sacrale, sono suscettibili
d’essere poste quale progetto d’emendamento di situazioni politiche e
religiose esistenti. Cosicché, in alcuni casi, dalla mera prospettiva ideale,
queste visioni, per virtù di volontà molto determinate, sono state espresse
con veri e propri interventi, provocando violente trasformazioni della società
senza però che la componente, volta allo scardinamento del reticolo costituito
dalle leggi soggiacenti questa realtà, potesse davvero superarlo e vincerlo. Il
risultato di quest’illusione è sempre stato l’affermazione della supremazia
delle leggi ed il fallimento del sogno.
Terminata
allora la successione e contrattosi il tempo ad un istante, ogni cosa verrà a
coesistere nella simultaneitàcon
la conseguenza che, a quel punto, il tempo si troverà mutato in spazio.
Ciò
implica una dilatazione di quest’ultimo, tale da provocarne l’elevazione ad
una potenza superiore, inoltre, con l’annullamento della successione temporale
– la quale, come già detto, è una delle caratteristiche fondamentali
dell’esistenza corporea – anche la durata transita ad una diversa modalità
di svolgimento.
Ove si voglia comprendere
l’intima natura delle realtà finora prese in esame, s’impongono adesso
alcuni approfondimenti di natura concettuale.
Insomma, qualsivoglia
continuo, per la sua stessa natura, non può ammettere l’esistenza di un
“ultimo elemento” perché dal punto di vista dei “componenti” esso è,
in quanto tale, un insieme indefinito. È chiaro allora come ogni variazione
abbia la sua “fine”, il suo “stato ultimo”, il suo “limite”, non in
se stessa – perché, in realtà,non
c’è un valore ultimo dei valori successivi della variabile - ma “al di
fuori”, con un saltus ovvero una discontinuità necessaria. In quale
senso, non c’è davvero un valore ultimo della variabile? L’affermazione
sembra contraddire gli elementari presupposti dell’algoritmo: noi sappiamo
che, nel calcolo differenziale, si cercano i limiti di un rapporto i cui due
termini decrescono simultaneamente secondo una certa progressione e tale che il
rapporto stesso conservi un valore fisso. Nel calcolo integrale, si cercano i
limiti di somme i cui addendi crescono indefinitivamente mentre il valore di
ciascuno di essi, altrettanto indefinitivamente, decresce; è, infatti,
necessario che entrambe le condizioni siano riunite affinché la somma resti una
quantità finita. Il limite quindi di una quantità variabile è stabilito
essere una quantità fissa verso la quale la variabile s’approssimerà fino a
che la loro differenza sia sempre minore di qualsiasi, ipotizzabile quantità.
Ciò che è importante sottolineare è come, ai meri fini del calcolo, il
limite, allorché non si trovi tra i dati del problema, sia stabilito in una
precisa quantità fissa mentre ciò che è necessario sapere, sia invece di
capire se la quantità variabile che, indefinitivamente, s’avvicina al valore
fisso del limite possa raggiungere questo valore quale conseguenza della
variazione stessa. Tornando al nostro “scandaloso” assunto, dobbiamo perciò
comprendere perché il limite non debba essere inteso quale ultimo termine di
una variazione continua. Non è dunque una questione di calcolo quella che qui
ci poniamo ma, sia ben chiaro, un tema concettuale ed è solo questo che ora
c’interessa.
È
allora sul calcolo e sul suo ruolo centrale nelle matematiche contemporanee, che
s’impongono adesso alcune riflessioni. Riflessioni, le quali investono ciò
che è oggi la matematica nel suo insieme ma che, soprattutto, vogliono
riferirsi a com’essa sia intesa da certi suoi ufficiali cultori. E ciò,
affinché meglio si possa comprendere il significato delle nostre precedenti
puntualizzazioni.
Lasciamo
pertanto la parola al Carnape
vediamo com’egli distingua il calcolo da un sistema semantico nel senso che
<<…mentre gli enunciati di un sistema semantico sono interpretati,
asseriscono qualcosa, perciò sono veri o falsi, entro un calcolo gli enunciati
sono considerati da un punto di vista esclusivamente formale>>. E,
nell’ultimo aggettivo, sta proprio il punctus dolens: il calcolo,
dunque, con i suoi procedimenti più o meno artificiali e sempre più elaborati,
ha dato luogo alla proliferazione di un’abnorme inflazione formale, che ha
portato a sviluppi totalmente indipendenti da ogni significazione profonda e
tali da raggiungere forme d’assoluta autoreferenza. Esso è arrivato a
produrre una specie di complicato gioco per virtuosi dell’astratto ma nel
quale il contenuto di realtà – in specie quando s’applica alla fisica -
ovvero d’effettiva conoscenza della natura è ridotto, di fatto, quasi a
niente. Il motivo, di quella che al fondo è anche una scelta e che risiede
nella volontà di coloro, i quali, secoli addietro, hanno creato le premesse di
ciò che siamo soliti chiamare mondo moderno, sta nel loro spirito pragmatico,
che trova, nelle possibilità del calcolo, una sorprendente moltitudine di
ricadute utilitarie e tecnologiche. Il perché poi, pure astrazioni possano
portare a risultati empirici, implica uno sviluppo di considerazioni sulla
natura intima del reale che ci porterebbero fuori dal tema presente.
Chi
non s’è mai occupato di quest’aspetto della modernità fa forse fatica a
rendersi conto di come, sul piano intellettuale, i processi distruttivi siano
stati devastanti: il numero non solo ha perduto la sua valenza simbolica ma sul
piano stesso della quantità ossia su quello meramente matematico, ad esso, s’è
semplicemente sostituita la cifra che lo rappresenta. Non per niente, oggi,
altro non si fa che parlare del digit e della digitalizzazione di tutto
il possibile: è come se al discorso nella sua congruenza concettuale, si
sostituissero meri giochi di lettere. Il paragone non è casuale, sia perché le
cifre stanno ai numeri come le lettere alle parole (vd. ad es. le lingue
semitiche dove non c’è differenza di categoria),sia
perché se la veste del numero è la cifra, quella della parola sono le lettere.
Proseguendo in quest’ordine di relazioni, si può aggiungere che, allora, il
corpo del numero ne sarà la forma geometrica (a riprova i numeri triangolari,
pentagonali ed altro dei pitagorici) come della parola n’è, invece, il
significato. La perdita di tutte queste congruenze, implicanti anche il valore
“ideografico” di lettere e cifre, ha portato a considerare ogni notazione
come solo convenzionale dando così all’arbitrio valore fondante. Pertanto,
aspetti, quali quelli in argomento, sono, allo stato attuale delle matematiche,
ampiamente incompresi proprio perché il metodo infinitesimale non è solo un
calcolo e, in alcun modo, può definirsi un semplice metodo d’approssimazione.
La presenza di questa valenza metafisica deriva dal fatto, volutamente ignorato
anche se risaputo, che Leibnitz, nonostante alcuni evidenti limiti dottrinari
del suo pensiero, aveva ricevuto precise influenze dai suoi diretti contatti con
alcuni ambienti di carattere esotericoed
esattamente rosacrociano:è
da lì, che viene la sua attenzione critica nei confronti dell’intuizionismo
psicologico di Cartesio.
Secondo Leibnitz la verità può essere colta in sé stessa e non è funzione
del soggetto percettore….ma anche questo discorso ci porterebbe troppo
lontano.
Prendiamo dunque le
nostre quantità infinitesimali: esse saranno sempre più piccole ma mai davvero
nulle perché se diventassero eguali a zero, pel concetto stesso di quantità,
cesserebbero d’essere tali perdendo anche la caratteristica di variabili e
questo, oltre a contraddire il principio di continuità, fa sì che una
variabile, sempre, differisca dal suo limite. Tutto questo detto, niente però
impedirà che, e nel calcolo, e in qualsivoglia altra situazione il limite possa
essere raggiunto ma non era certo questo quello che volevamo negare quanto
piuttosto che, in alcun modo, il passaggio al limite possa essere concepito come
la conclusione di una variazione continua: il risultato non è pertanto
raggiungibile per gradi, analiticamente, ma d’improvviso.
E qui subentra l’altra
accezione aristotelica della sýnechéia da intendersi quale contiguità;
del resto, per “definire”, “limitare” una qualsivoglia condizione è
implicito che ci se ne debba trovare “al di fuori” ma, parimenti, c’è
continuità tra gli insiemi i cui limiti si “toccano” e dal cui
“contatto” scaturisce una qualche unità,che
sarà poi quella di un insieme superiore nel quale essi tutti rientreranno. È
come se, in due modalità d’esistenza sovrapposte, ciò che nell’inferiore
è presente quale semplice tendenza, trovasse la sua piena realizzazione nel transfert
alla modalità superiore. Un altro modo insomma d’intendere il passaggio dalla
potenza (gr. dýnamis) all’atto (gr. éntelécheia).
E la corretta intuizione della relazione esistente tra potenza ed atto è alla
base della comprensione quindi anche del concetto stesso di movimento.
Il pensiero
logico-matematico contemporaneo ha abbandonato la cristallina chiarezza di
queste concettualizzazioni, fatto salvo Peirce,il
quale, in maniera esplicita, nella sua contestatazione alla definizione di
continuo, proposta da Cantor,espressamente
le richiama. In effetti, da parte di quest’ultimo, la formulazione del
concetto di continuum è paradossale poiché lo vuole far scaturire
dall’immagine stessa del discontinuo, cioè da un insieme di punti o di
posizioni e, nel caso si prendesse in considerazione la continuità temporale,
ovviamente, da quella di un insieme d’istanti (cfr. supra a proposito
di Cartesio).
Nel calcolo, con semplici
regole pratiche, la discontinuità si verifica al momento del risultato,
quand’avviene il passaggio dalle quantità variabili a quelle fisse: è, come
abbiamo visto, proprio tale brusco evento a rendere palese che siamo alla
presenza di un cambiamento di modalità. Ma la percezione del transfert
può essere resa anche con un altro esempio: in una prova di materiali –
diciamo, sottoposti alle sollecitazioni di tensione - la rottura non è,
infatti, in alcun modo assimilabile alla tensione stessa, che sarà evidenziata
dalla semplice deformazione dell’oggetto: lo status che ne risulterà
sarà allora totalmente “altro”. Ecco, dunque, di nuovo, un istantaneo
passaggio di modalità. La condizione propria, nell’ambito del sensibile, alle
quantità variabili è quindi perfettamente assimilabile a quella del
“divenire” - identico alla Manifestazione universale - rispetto al
Principio. Nello specifico della modalità sensibile, avviene allora che il suo
principio immediato sia in altra modalità e quest’ultima sarà, appunto,
quella che gli scolastici chiamavano materia subtilis e della quale né
Cartesio, né i suoi amici Gesuiti sapevano più bene cosa fare e cosa pensare.
È pertanto evidente come ogni modalità trovi la sua ragion sufficiente nella
“successiva” ed essendo questi stati, logicamente, in quantità indefinita,
l’insieme di essi sarà il predetto “divenire” il cui rapporto complessivo
col Principio è quello già illustrato.
NOTE
Nella raffigurazione piana (cfr. Corbin, op. cit.), sei di essi sono collocati,
secondo la rosa dei venti, in una disposizione anulare mentre il settimo ne
costituisce il cerchio interno. Coassiale però a quest’ultimo, c’è un
nucleo ulteriore; tale medius orbis prende il nome di Airyanem Vaejah o
Culla degli Ari. Nella parte anulare di questa geographia imaginalis, all’Occidente,
si trova il Keshvar (med pers) denominato Arzah (med pers., in
avest. Ar∂zaj): ciò è notevole, in quanto in ebr. arez, è
la terra e gli Ebrei, anche nel nome, ´ibry, esprimono un’origine
“occidentale”. Infatti, alla Ö ´ibr è connesso il senso di qualcosa <<…qui est placé derrière ou
au-delà, ce qui est éloigné, caché, dissimulé, privé du jour; ce qui
passe, ce qui termine, ce qui est occidental, etc. les Hébreux, dont le
dialecte est évidemment antérieur à celui des Arabes, en ont dérivé ‘ibry, [ebreo] et les
Arabes, ‘arab [arabo] par une transposition de lettres qui leur est très-ordinaire
dans ce cas. Mais soit qu’on prononce ´ibry,
soit qu’on prononce ‘arab,
l’un ou l’outre mot exprime toujours que le peuple qui le porte se
trouve placé ou-delà, ou à l’extrémité, ou aux confins, ou au bord
occidental d’une contrée>>. (in Fabre
d’Olivet; La
Langue Hébraïque Restituée, L’Age
d’Homme, 1985). Per
metafora tratta dal senso d’oscurità connesso al tramonto; stessa origine può
essere attribuita a §reboV, cfr. anche l’accad. erebu, tramonto.
|